CREDERE E CAPIRE

Crederc e capirc

Il mio intervento sulla tavola del Fratello Emilio “Prashanti Nilayan” ha suscitato una certa disapprovazione soprattutto quando, in chiusura, sostenevo che, se si fossero accettato certi presupposti, era praticamente inutile la nostra presenza in Tempio.

Ho pensato di ritornare sull’argomento per meglio chiarire il mio pensiero che, purtroppo, non mi è mai facile sviluppare verbalmente vista “l ‘emozione” che ancora, dopo oltre 20 anni, mi attanaglia ogniqualvolta prendo la parola in Tempio a lavori aperti.

In sostanza in quell’intervento davo due diverse interpretazioni della tavola del fratello Emilio: la prima basata su sensazioni, la seconda su ragionamenti.

Una prima lettura aveva destato in me profonda emozione per la serenità e la pace che essa trasmetteva, al punto di presentarci un Emilio molto “diverso” dal solito caustico ed ironico fratello che comunicava con metafore di non sempre facile comprensione.

Una tavola “a colori” l’aveva definita il fratello Pgll e, una volta tanto, concordavo con lui.

Quella tavola dava la sensazione di una qualche conquista, di una qualche comprensione da parte di chi l’aveva scolpita ed è per questo che mi aveva colpito.

Il rammarico fu quello di non avere il conforto di una replica da parte del fratello Emilio che, quella sera, non prese la parola.

Una seconda e più ragionata lettura mi aveva portato però a considerazioni del tutto diverse.

Lo splendido messaggio che trasmetteva la tavola era del tutto estraneo alla vita massonica in quanto, un qualche modo, suggeriva un percorso devozionale, un percorso di annullamento si se stessi per dedicarsi agli altri, una via d’amore che difficilmente può prescindere dalla fede quando è totale ed assoluta.

E tanto più bella era la tavola quanto più fuorviante il suo messaggio nei confronti di un percorso muratorio.

Se quella è la strada, dicevo a me stesso, non c’è bisogno di capire, non c’è bisogno di meditare sui simboli, sui riti, sull’iniziazione e sul suo significato.

Non c’è bisogno di trovarci il Giovedì sera in definitiva.

La dimostrazione più evidente di quanto sostenevo ce la fornisce il ricordo di Mario Bianco che, una volta abbracciata la via devozionale, di fatto abbandonò la Massoneria.

Spero con questi chiarimenti di essere riuscito a spiegare il mio punto di vista per quanto riguarda l’intervento da me fatto sulla tavola del fratello Emilio.

Ma nello scrivere queste note è nata in me l’esigenza di approfondire un discorso, antico forse, ma che non ha mai trovato, né mai forse troverà, una risposta razionale definitiva.

È dunque insormontabile la dicotomia fra la via devozionale assistita dalla fede e la via della ricerca assistita dalla ragione?

O per dirla in altri termini: il “credere” è indispensabile al fine di “capire” o è necessario che io “capisca” prima di poter “credere”.

La questione è stata già affrontata dal fratello Lino che nel ’93 sosteneva infine che, siccome la via della fede gli era preclusa, si poneva come obiettivo quello di

capire pur riconoscendo che la cultura, comunque, non lo avrebbe portato molto lontano.

Ma siamo proprio sicuri che la via della fede sia preclusa all ‘iniziato?

O meglio, siamo proprio sicuri che l’iniziato non faccia professione di fede?

Tra la teoria scientifica del “big bang”, la pulsione metafisica verso un Dio creatore e la convinzione interiore che con il rito di apertura dei lavori si evochi la discesa di un’influenza spirituale qual è la differenza?

Sono o non sono tutti atti di fede?

Teoria scientifica e pulsione metafisica sono dunque due atti di fede che, come diceva Eistein, sono indispensabili l’uno all ‘altro.

“La scienza senza religione è zoppa e la religione senza scienza è cieca”

Questa frase mi ha colpito anche se tenderei a rovesciare il concetto di base e cioè che è la scienza, senza religione, ad essere cieca, ma ciò che conta è l’instaurarsi di una connessione fra scienza (ragione) e fede (religione).

A ben pensare credo che la squadra ed il compasso, sovrapposti al libro sacro, possano molto bene simboleggiare questo connubio.

E quindi possibile ipotizzare che, compito della ragione, sia quello di portare I ‘uomo verso la fede?

Tanto più l’uomo acquisisce attraverso la ragione il controllo sul mondo fisico, tanto più dovrebbe convincersi che solo un atto di fede può aprirlo, forse, alla comprensione di ciò che è oltre il mondo sensibile.

Atto di superbia è quello di credere che la nostra mente, con le sue sole forze, possa concepire l’assoluto.

“In verità vi dico: se non cambiate, e non venite come bambini, non entrerete nel regno dei cieli”.

“Perché se la ragione domina da sola è una forza che imprigiona”.

In queste due frasi tratte, una dal “Vangelo di Matteo”, l’altra dal “Profeta” di Kahlil Gibrain, sono racchiuse le tematiche della mia tavola.

Quindi la strada della fede non solo non è preclusa all’iniziato, ma rappresenta una conquista significativa, una tappa importante nel suo cammino.

Acquisire la fede è come ritornare bambini aperti e disponibili a recepire, senza condizionamenti e infrastruttura intellettuali, i messaggi che solo a queste condizioni possono arrivare.

Non più dicotomia quindi fra strada devozionale e ricerca, ma solo due momenti dello stesso percorso: il mistico ha avuto in dono la fede e può aprirsi al tentativo di comprendere; l’iniziato, questa fede, deve andarsela a conquistare.

Al termine di queste mie riflessioni posso tornare, con un ardito tentativo di interpretazione, di cui chiedo anticipatamente venia, a quanto avevo detto sulla tavola del fratello Emilio, così diversa e così lontana dai suoi abituali modi di esprimersi.

Forse il fratello Emilio sta scoprendo la fede.

Ultima notazione che, per correttezza, sento il dovere di esternarvi: tutto immaginavo al momento di iniziare questa tavola, tranne le conclusioni a cui sarei approdato.

Anche di questa “follia” chiedo venia a tutti i fratelli

G.F.CNMRCE

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