QUALE TOLLERANZA?

QUALE TOLLERANZA?

di Alberto del Noce

Uno dei cardini fondamentali sul quale ruota l’insegnamento massonico è quello della «tolleranza». Lo si coglie e sottolinea già nel rito di iniziazione e questa stessa Rivista pone e risalta come dedica la bellissima frase di Voltaire, che altro non è se non una sublime definizione di tale concetto.

Tuttavia, questa virtù è colta quasi esclusivamente nel suo rapporto con il prossimo, come rispetto delle altrui idee, fedi, opinioni, ecc. Una sorta di mera «indulgenza» in forza della quale permettiamo che gli altri dicano o facciano cose discordi dal nostro sentimento o dalla nostra opinione. Ma una tale esclusiva definizione mi richiama alla mente il sinonimo di « sopportazione» o, peggio, di «compatimento». Tolleranza è e deve esser qualcosa di più.

Ed allora mi sembra essenziale ricercare le radici di tale virtù dentro confini più intimi,  all’interno cioè della nostra coscienza. Esser tolleranti con il prossimo significa esser prima tolleranti con se stessi. Quante volte prima di «ascoltare gli altri» (o, peggio, di parlare «agli altri»), ascoltiamo invece noi stessi? Quasi mai, almeno in modo autentico. E sarebbe il primo lavoro che un Massone dovrebbe fare (si pensi al silenzio dell’ apprendista, al lavoro di levigatura della pietra grezza, ecc.). Questo non indifferente sforzo introspettivo volto, prima, a riconoscere le nostre più profonde radici e, poi, a «tollerarle» mi sembra di fondamentale importanza,

La cosiddetta «normalità» spesso infatti consiste nel poter usare quel tanto di difese inconsce, quel tanto di negazione e di onnipotenza che permette di non riconoscere la nostra insufficienza e di nascondere e rifiutare i dati più autentici del nostro lo. Non è quello che noi facciamo quando inseguiamo fantasie di successo costruendo fantasmi e mete inconsistenti ed utilizzando soprattutto il lavoro come tossicomani, un lavoro talora altrettanto mortale e con gli stessi problemi di overdose e di astinenza?

Inevitabile quindi l’insorgere di quel senso di insicurezza che così diffusamente disorienta l’uomo contemporaneo. Nel contempo proprio la società industriale in cui vive tale uomo ha un pessimo rapporto con

che in questa compendiata analisi, esporre la materia in rigidi comparti: non è infatti della storia procedere alla costruzione di sistemi, ma fare attenzione alle sfumature. Tuttavia questa pur breve ed incompleta rassegna di voci e di testi ci permette di conoscere una evoluzione del significato che l’uomo ha dato al Destino nel corso di qualche secolo, evoluzione spesso contraddittoria e mai definitiva. Oggi fortuna vuol dire ricchezza: nel Rinascimento e ancor più nel Medioevo significava forza maligna da subire o da combattere ed eventualmente avvantaggiarsene. Fortuna era intesa come «fortunale» (dal francese fortune de mer) vale a dire quel termine faceva pensare più ai rischi incresciosi della navigazione che non al cumulo di ricchezze (come, ripeto, oggi noi la intendiamo).

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