RABBIA E TOLLERANZA
di Luciano Rossi
Nelle indicazioni da me date, nei numeri 49 e 50 di “NuoVa Delta” su un possibile modo di levigare la pietra, era compresa l’affermazione che la meditazione era via maestra al lavoro di sgrossatura. Ma, naturalmente, ogni indicazione circa la meditazione, dissi, resta lettera morta finché questa non viene conosciuta e praticata. Quest’aspetto esperienziale, però, nessuna lettura ce lo potrà far vivere. Tuttavia, a volte, capita che un felice fortuito incontro, fra una lettura adatta e una disposizione momentaneamente ricettiva dell ‘animo. possa costituire l’evento fecondante per la nascita di un interesse, e magari di una pratica.
E per questo che provo a proseguire quest’opera divulgativa sulla rivista, sorretto dalla speranza di “felici fortuiti incontri”. Ma, anche se potrò tutto al più stimolare, per il momento, solo una curiosità, riterrò già questo un risultato sufficiente.
Capita raramente di udire raccomandazioni alla pratica meditativa in
massoneria. Io personalmente lo ho trovato solo una volta, in un libro di
Francesco Brunelli, Principi e metodi di massoneria operativa, edito da
Bastogi. Ma so che la pratica, collettivamente, durante le tornate, una R.L.
del GOI della mia città. Li invidio molto. Spiace, infatti, e sorprende, che un
metodo così efficace sia sconosciuto a chi percorre una via di perfezionamento.
Certo la meditazione non è pratica per tutti, anche se è alla portata di tutti.
I massoni sono tuttavia una classe di persone selezionate e questo mi fa
ritenere che almeno la metà degli iniziati avrebbe attitudine a servirsi di
questo strumento, che, ripeto, è alla portata di chiunque abbia la volontà di
intraprenderla.
Per essere più chiaro e convincente in questa sede farò solo un esempio specifico: illustrerò come opera la meditazione per rendere l’ adepto (della meditazione) capace di tolleranza. La tolleranza dovrebbe svolgere un ruolo centrale nella vita massonica. Ritengo inoltre che la tolleranza non scenda mai dal cielo come una grazia, ma che vada sviluppata con un lavoro individuale lungo e paziente. Un lavoro di gestione della rabbia.
Ritengo però la rabbia un tema delicato, da non lasciare ad una gestione sprovveduta o superficiale.
Ci sono infatti tre modi per trattare la rabbia: uno giusto e due sbagliti
Quelli sbagliati sono: il primo consiste nel reprimere la rabbia; il secondo nell’ agirla, sfogarla, essendone trascinati come oggetti in balia.
Quello giusto consiste nell’osservare la rabbia con i metodi che la meditazione consiglia: ossia con consapevolezza, presenza, distacco, equanimità, accettazione, resa, nuda attenzione, concentrazione, retto sforzo, ecc. ‘Quante caratteristiche”, si dirà. E questo che rende la rabbia un impedimento difficile da superare. Ma, nello stesso tempo, è ancora questo che rende la rabbia un impedimento da superare assolutamente. Perché se è difficile da superare vuol dire che svolge una funzione narcisistica vitale e sempre online quindi che fa danni profondi e continui.
Che fare?
La rabbia va semplicemente osservata. La rabbia va osservata e annotata, ma senza indulgenza e senza condanna, con gentilezza verso la rabbia e verso se stessi.
Occorre essere gentili con l’Ombra, quel grande serbatoio di pulsioni nere cui la rabbia appartiene. Così lo saremo anche con noi stessi, giacché I ‘Ombra fa parte di noi.
Nella meditazione, accettando di vedere l’Ombra e la rabbia, ci apriamo anche
alla nostra parte oscura, quella che prima non accettavamo di vedere. Aprendoci
alla parte oscura, ci apriamo a tutto il nostro essere, alla pienezza di ciò
che siamo. Veniamo a conoscenza della nostra capacità di arrabbiarci e della
quantità incredibile di rabbia che abbiamo dentro.
Ma esaminiamo prima in che senso lo scarico e la repressione, i due modi sbagliati, sono difettosi.
Partiamo dalla repressione e diciamo che è proprio la repressione a far crescere la rabbia. Chi ha sempre represso ne ha ammucchiata tanta, di rabbia, dentro di sé; chi reprime, dunque, è ovvio che ne sente tanta, dentro di sé, e tema di traboccare. Così finisce per reprimere ancora di più, usando gran parte delle proprie energie nel difendere gli altri dalla propria rabbia. Finirà nell’immobilità. Possiamo trovare questi comportamenti negli stanchi cronici, nei pigri, nei lenti, negli inibiti, nei “paralizzati” emotivamente.
Nello sfogo invece percepiamo noi stessi direttamente come arrabbiati, agiamo la rabbia, ci coinvolgiamo in essa, identificandoci. Non siamo, tuttavia, in contatto con la nostra rabbia. Non la vediamo. Non sappiamo da dove nasce. Magari ci svuoteremo anche, ma un attimo dopo se ne formerà di nuova, avendo noi un’ identità rabbiosa. Dice lo psicologo Morelli, direttore di “Riza”: “Una volta pensavo che fosse sempre sano buttare fuori la propria collera [ ] Chi mi ha conosciuto in quel periodo mi ricorderà come un misto fra il collerico e il giustiziere. [ . ] Eppure avvertivo che c’era qualcosa che non andava: chi si arrabbia sovente non è mai in pace, non è mai tranquillo, non conosce il riposo della mente” l .
E allora? Allora dobbiamo ottenere entrambi i risultati, che sfogo e repressione hanno inseguito senza raggiungerli. Non dobbiamo lasciare la rabbia dentro e nemmeno agirla. Come si fa? “Non la si nega, non vi s’ indulge, ma le si permette di entrare pienamente e generosamente nella mente e nella consapevolezza, cosicché possa essere accdlta, esaminata’”, vista nella sua transitorietà. “Rapportarsi ad essa piuttosto che agire a partire da essa”.
Tutto questo ce lo dà la meditazione. Una pratica di rinuncia allo stOgo che, tuttavia, “non ci chiede di diventare docili, passivi o senza spina dorsale. Con una comprensione chiara della rabbia, riusciamo a rispondere con forza a questo sentimento non appena si presenta. Con discernimento e saggezza potremo guardare lucidamente alla sensazione che ha causato la rabbia. [ . ] Possiamo scegliere di parlare o di rimanere in silenzio. Riusciamo ad esaminare ogni aspetto della situazione e a prendere in considerazione le possibili conseguenze. Poi scegliamo il tipo di risposta che sia equilibrata, opportuna e vera’ .
Questa consapevolezza cambia la natura della rabbia, le toglie spontaneità, la
disorienta. La pratica della consapevolezza ci fa essere presenti alla reale
natura di ciò che accade. In un certo senso si tratta di fare amicizia con la
rabbia. Questo lungo e paziente lavoro forma lentamente in noi la virtù della
tolleranza. “Verso noi stessi e verso gli altri. Impareremo ad anrdre noi
stessi per come siamo, in ogni momento. Cominciamo con l’ imparare a fermarci C
. . .] e a prestare grande attenzione a ciò che sta accadendo”. Ciò che
accade dobbiamo riconoscerlo c chiamarlo per nome. In modo da poterlo vedere,
accettare, gestire.
La pratica meditativa svolge due compiti favorevoli: vedere il disagio ed eliminarlo. Il secondo compito, quello di eliminare il disagio, è secondo solo in ordine di tempo; chiaramente si tratta del nostro scopo principale. L’altro, primo in ordine di tempo, ha un ufficio diverso, preparatorio: è una tecnica per farci vedere meglio il disagio, onde eliminarlo. Il disagio non sopporta di esser visto e guardato in modo distaccato. Vedere il disagio è come farlo emergere, esporlo all’aria e al sole, togliergli ogni energia, disseccarlo e renderlo sterile, inefficace, inerte.
Ne consegue l’equazione: Guardare con distacco è eliminare.
Nella pratica si parte osservando il respiro. Osservare il respiro è solo un primo momento per entrare in una condizione di migliore ascolto. Si dovrebbe restare attenti al respiro. ma non ci si riuscirà. L’attenzione al respiro resta una concentrazione d’accesso alla vera meditazione che comincia solo con l’arrivo degli impedimenti, con le interruzioni, con le distrazioni. La rabbia è una di questi.
Vedere gli impedimenti alla meditazione è come vedere le varie espressioni concrete dei nostri disturbi, entrare in contatto con loro, comprenderle e tollerarle. Comprendere la grande utilità del confronto con gli ostacoli alla meditazione è oltremodo importante, dal momento che gran parte del tempo in cui lasciamo accadere la meditazione trascorre a confronto con i cosiddetti impedimenti; la Meditazione si presenta, infatti, per lo più come una sequenza di impedimenti, separati fra loro da piccole pause di attenzione al respiro. Abbiamo appena avuto un breve momento m cui siamo stati attenti al respiro e, subito, ecco che un attaccamento si fa vivo; lo lasciamo andare a fatica e ci abbandoniamo al respiro ristoratore, quando l’ indolenza ci coglie. La lasciamo essere come Cl hanno consigliato, portando poi dolcemente, appena possibile, l’ attenzione al respiro ed ecco che … a brevi intervalli … prima i dubbi … poi le avversioni e infine … l’agitazione si fanno vivi a turno.
Va bene così.
Guardiamo questi impedimenti. Sviluppiamo lentamente un crescente ma sempre più distaccato interesse per i turbamenti che si avvicendano ln noi.
Ripetiamo in modo incessante:
I pensieri che mi arrivano non mi riguardano, non sono affar mio.
Le rabbie che mi si presentano non mi riguardano, non sono affar mio.
E così via, per tutti gli impedimenti.
Gradualmente cesserà l’ossessione di sbarazzarcene. Perché ci riesca più facile, ricordiamo ancora una volta che il nostro vero problema non è avere degli impedimenti, ma il non riuscire a tollerarli.
Dal momento in cui gli impedimenti cominciano ad apparirci interessanti, essi cominciano ad indebolirsi. Guardare una rabbia con interesse è come metterle dentro un gerrne di calore che pian piano ne provocherà lo scioglimento.
Quello che dobbiamo fare mentre aderiamo al respiro è “prendere nota”, nello stesso momento in cui si presentano, degli impedimenti che emergono accanto al respiro. Seguiamo il respiro e insieme “fotografiamo”, senza giudizio favorevole od ostile, gli impedimenti che arrivano, In passato eravamo condizionati, obbligati a reagire, con ostilità o con desiderio, alle emozioni degli impedimenti. Quando, a seguito di un’offesa, la rabbia si presentava, reagivamo gridando e assalendo o presi dalla paura ci immobilizzavamo nel nostro gelo. Oggi abbiamo deciso di guardare la rabbia con interesse distaccato e affettuoso, così come abbiamo imparato a fare col respiro. Quando la guardiamo con interesse, la rabbia non è più così nostra come lo era prima. Non è più un “Io”, diventa un “Lei”. Questo perché, ora, la guardiamo con occhio di
L’UOMO Dl CONFINE
di Roberta Belluati
Se ci fetmiamo ad ascoltare attentamente i contenuti delle notizie o ad
osservare le immagini che quotidianamente ci pervengono dai massmedia, non
possiamo non rilevare, al di là di facili generalizzazioni, degli elementi che
contraddistinguono la nostra attuale condizione sociale. Un affievolimento del
senso d’umanità, per esempio, procurato da una sorta di “anestesia”
collettiva, conseguente una sorta d’ abitudine alla ripetitività costante della
terribilità di certi eventi cui siamo continuamente sottoposti, eventi
spietatamente sviscerati in tutta la loro crudezza visiva e proposti
indifferentemente in tutti i momenti ed in tutti i luoghi, una sorta di
concentrazione negativa che abitua l’uomo all’indifferenza davanti al male,
rendendolo per ciò stesso spesso anche potenziale aggressore del suo simile.
Altro elemento è costituito da una progressiva perdita a livello diffuso
dell’identità profonda della persona, della sua autoconsapevolezza e di
conseguenza un disconoscimento, a partire da sé, del valore dei gesti, delle
azioni. delle parole nonchè dell’alterità circostante. Tale caduta di tono si
traduce conseguentemente nel dilagante conformismo basato sull’esteriorità.
nell ‘omologazione del do ut des con la sua logica del profitto e in una
disumana competitività fondata sul principio “mors tua, vita mea”.
Questi elementi che connotano la cosiddetta “società del benessere”
in cui viviamo, sollecitano fondamentalmente l’individualismo, annullando il
valore dell ‘individualità ed unicità della persona basato sull’importanza
della relazione umana e sull ‘ apertura all’ alterità, producendo in suo luogo
l’ incomunicabilità e la caduta di ogni senso di responsabilità verso i propri
simili e l’ambiente in cui viviamo, fino alla strumentalizzazione stessa
dell’individuo, corredata dai conseguenti fenomeni dell’opponunismo. della
prevaricazione e della violenza.
Davanti a questo squallido panorama cui quotidianamente assistiamo volenti o nolenti, consapevoli o non, porsi l’ interrogativo relativo al rapporto di confine tra profano ed iniziatico forse dovrebbe partire dalla domanda prima: Chi è l’uomo? , premesso che in essa a ben vedere è già presente in un certo qual modo il concetto dimenticato di persona.
Il “chi” infatti sottende necessariamente un altro “Chi”. La domanda posta, cioè, ne postula una precedente: Chi ha voluto ciò? I Qui il Chi originario ha la funzione di soggetto primo ed il ciò (cosa) quella di oggetto. Ne segue che “il Chi è l’uomo?” presuppone un passaggio da un ciò-oggetto ad un chi-soggetto-secondo.
fotografo, anziché reagire ubbidendole. La elaboriamo anziché agirla, come lei vorrebbe.
Proviamo e resteremo sorpresi delle decisi ve differenze che intercorrono fra annotare e agire.
Ogni cosa annotata verrà integrata, come ogni cosa su cui si riflette con interesse rilassato e attento. Integrare un sentimento di rabbia, provando interesse per lui, produce l’unione di due opposti. Rendendoci conto della nostra ostilità potremo fonderla con l’amore, …accettandoli entrambi e guardandoli (e usandoli) contemporaneamente.