DANTE E LA MUSICA da la Revue des deux Mondes, 1903 a cura di Amarilli
L’argomento può essere trattato sotto due diversi aspetti: cercare come e quando la musica sia applicata ai personaggi ed alle parole di Dante, e percepire quanto ci sia di musicale nella sua opera, nel suo genio, nel suo stesso animo.
Uno dei primi compositori, il primo forse che si ispirò alla Divina Commedia, fu Francesco Galilei. Padre dell’illustre astronomo, autore di un «Discorso sulla musica antica e moderna», che fece ai suoi tempi grande rumore, fece parte del Cenacolo o della «camerata» fiorentina, ove nacque l’opera.
Galilei aveva scelto l’episodio di Ugolino. Lo cantò egli stesso, accompagnato da una orchestra di viole. Si dice che avesse una bella voce e che il suo viso assomigliasse alla sua voce. La sua opera si è persa e Verdi, pochi anni prima di morire, la fece ricercare invano. Fu un peccato. Aveva, pare, qualche asprezza e sapeva un po’ troppo di antico, ma sarebbe stata un esempio, e non dei minori, della monodia recitativa e dello stile nuovo.
Trascorsero duecento anni senza che la musica abbia fatto eco alla poesia di Dante. Le cantate e l’oratorio attingevano i soggetti dalle scritture. Ma il xrx secolo si è qualche volta ricordato di Dante. Uno dei più bei poemi sinfonici di Liszt si è ispirato alla Divina Commedia. Il teatro fu meno felice. E tuttavia solo la musica a teatro ci potrebbe far emotivamente penetrare nei cuori di Paolo e Francesca. Nello stesso Dante, la vita immortale che per noi anima questa coppia desolata non scaturisce tanto dal vigore tragico del racconto, né dalla bellezza delle immagini, quanto dalla potente e sensuale musica con cui il poeta ha saputo animare i suoi versi.
Tuttavia due volte almeno la musica italiana ha ben servito la parola di Dante: nell’opera di un uomo che fu grande per il suo genio, pur così diverso da quello del poeta.
Si tratta di Rossini. La sua opera è l’Otello; la sua pagina più bella è il canto del gondoliere che passa sotto le finestre di Desdemona:
Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria
L’effetto drammatico di questo passaggio e di questo canto è senza pari. Nell’assurdo libretto, che sembra una parodia di Shakespeare, i tre versi di Dante gettano una luce di straordinaria verità e di vita. Ci scopre, questa luce, ravvicinate, due eroine diversamente pure, ma ugualmente tristi e commoventi: Francesca e Desdemona, sorelle nella sfortuna e nella nostra pietà. Ci voleva proprio una melopea, non una romanza, qualche cosa di vago e soprattutto di popolare, onde la gente si possa unire e prender parte all’angoscia della giovane patrizia. E la bellezza umana, drammatica, si accresce della bellezza dei luoghi, poiché proprio a Venezia essa muore. Questa triste cantilena è una di quelle che vagano nelle notti veneziane e sulle sue acque. Libera e come improvvisata. Un canto struggente che ha delle risonanze lontane.
L’altra pagina di musica, anch’essa di musica italiana, ispirata dalla poesia di Dante e degna di essa, è una delle ultime opere di Verdi. Le Laudi alla Vergine, recitate da San Bernardo all’inizio dell’ultimo canto del Paradiso. La preghiera è scritta per quattro voci femminili, senza accompagnamento, «voci bianche», dice la partitura. Dice male, perché la bellezza di questo quartetto vocale consiste, al contrario, nella delicatezza e varietà delle sfumature. «Vergine Madre, figlia del tuo figlio», così comincia la prima terzina, e nella trasparenza del perfetto accordo, si vede splendere la purezza della «Vergine Madre, figlia di suo figlio». «Donna, sei tanto grande e tanto vali
Intonata dalle quattro voci una ad una, l’invocazione irrompe come lo squillo di una fanfara. E un attacco squillante, raddolcito dal tono minore, e la gloria dell’eletta appare come mitigata dalla modestia della donna.
Il poema di Dante è un canto. Un mistico ed insondabile canto. Il linguaggio, la sua semplice terza rima, senza dubbio, sono musica. Lo si legge come una specie di salmodia, poiché l’essenza e la materia dell’opera sono esse stesse ritmiche. Andando nel profondo si comprende che vi è musica ovunque.
Dante è il testimone del Medioevo. Il pensiero di allora si eleva nella sua opera in musica eterna. Dante, l’uomo italiano, è giunto nel nostro mondo per incarnare musicalmente la religione del Medioevo, la religione della nostra moderna Europa e la sua vita interiore. Così dice Carlyle nel suo volume «Gli Eroi». E così scrive Arrigo Boito, musicista e poeta, ai suoi amici francesi:
«Dante e la musica, quante volte vi ho pensato! Come mai non si è trovato finora, attraverso secoli di letture, un lettore della Divina Commedia tanto musicista da sentire la bellezza di questo tema e il bisogno di proclamarlo! Attenzione: Dante ha creato la polifonia dell’idea o, per meglio dire, il sentimento, il pensiero e la parola si incarnano in lui così miracolosamente che questa trinità diventa un accordo a tre suoni, perfetto, in cui il sentimento, che è l’elemento musicale, predomina. La divinazione con cui sceglie la parola, il posto che questa parola occupa, i suoi legami misteriosi con i vocaboli, i ritmi, le assonanze, le rime che precedono e che seguono, tutto ciò e qualcosa di più segreto ancora, danno alla terzina di Dante il valore di una vera musica. Egli crea con le parole lo stesso prodigio che il divino Mozart e il divino Sebastian Bach operavano con le note, e nello stesso modo. Ma dei tre egli è il più divino: Mozart e Bach non hanno oltrepassato la regione della loro arte; Dante è salito più in alto, egli ha superato i limiti della conoscenza. Nel cenacolo dei musicisti «in partibus» non c’è posto per questo convitato. Egli è troppo grande. Uno solo sarebbe degno di sedersi al suo capezzale. E Leonardo, questo mago che tutto sapeva e che superò, egli pure, le conoscenze del suo secolo e quasi del nostro.
Non c’è musica nell’Inferno di Dante. E forse perché nell’Inferno tutto è sofferenza? No, mai la musica fu incompatibile con il dolore. La ragione vera è che nell’Inferno tutto è disordine.
Il Purgatorio, e più ancora il Paradiso, invece, si immergono nella musica e nella luce.
Una melodia dolce correva per l’aer luminoso
Ecco il Purgatorio, e soprattutto il Paradiso. Ecco le impressioni e le delizie provate dal mistico viaggiatore. Le anime gli si rivelano come voci, come raggi o fiamme, e malgrado ne sia spesso abbagliato, sembra che egli sia meno colpito dalla luce che dai suoni. Tutto per lui è melodia. Appena comincia a salire i gradini che conducono al quarto cerchio del Purgatorio sente intorno a sé come un battito d’ali e il vento che gli aleggia sul viso:
E ventarmi sul volto e dir: Beati i Pacifici che son senza ira mala.
Una proporzione costante fra fenomeni luminosi e fenomeni sonori. Intorno al pellegrino che ascolta tutto canta e tutto è cantato. Le preci, gli inni, i salmi, le beatitudini sono melodie. Il racconto stesso della Genesi, la storia del Paradiso terrestre, diventa una «canzone» sulle labbra di Matelda, la dama gentile che va soletta «come donna innamorata» e cammina lungo un ruscello, cogliendo fiori e cantando «Beati quorum tecta sunt peccata».
Dante ha fatto cantare principi, re, imperatori, quelli del Medioevo e quelli dei primi secoli e dell’antichità, ivi compreso Giustiniano. Ha fatto cantare i profeti, gli apostoli e gli angeli, le virtù cardinali e teologali. Una almeno fra queste, la carità, perché più ancora delle altre due è sentimento, e il sentimento è l’essenza della musica. Un concerto si espande dopo che Dante, interrogato da San Giacomo sulla speranza, e da San Giovanni Evangelista sull’amore, ha risposto; e San Pietro, che lo interroga sulla fede, lo illumina della sua propria luce e lo benedice cantando.
Dante vaga fra queste ombre salmeggianti. A detta dei suoi biografi egli aveva conosciuto i migliori musicisti del suo tempo. «Dante sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovinezza, e chiunque in quei tempi fosse ottimo cantore e musicista fu suo amico ed ebbe sua usanza» (Boccaccio, Vita di Dante).
Nel Purgatorio e nel Paradiso — poiché non ne mette neppure uno nell’Inferno, Dante è felice di incontrarli e salutarli ancora. Ecco Belacqua, il famoso liutaio, la cui abilità fu pari alla sua pigrizia. Sulla soglia del Paradiso attende la salute eterna, le cui cure ha troppo differito quando si trovava sulla terra. Più fortunato e già salvo ecco Forchetto, l’amoroso trovatore di Provenza, la cui voce rallegra il cielo, unita ai canti dei Serafini. Nel Purgatorio c’è ancora un altro trovatore, Arnaldo Daniello, che si nomina a Dante con questi versi provenzali, adorabili di musica e di malinconia: «Jeu sui Arnaut, que plore et vai chantan».
E esiste, nella Divina Commedia, una figura più dolce e melodiosa di Casella? Quanto meno non ve n’è alcuna che Dante incontri con più piacere ed emozione, tanto egli amò il musicista e tanto ne fu amato.
«Casella mio se nuova legge non ti toglie memoria o uso a l’amoroso canto che mi solea quetar tutte mie doglie, di ciò ti piaccia consolare alquanto l’anima mia, che, con la sua persona venendo qui, è affannata tanto. AMOR CHE NE LA MENTE Ml RAGIONA cominciò elli allor si dolcemente, che la dolcezza ancor dentro mi suona»,
Casella si mette a cantare, ed il canto di quest’anima cortese non è che la meravigliosa canzone dello stesso Dante. «Amor che nella mente mi ragiona». Casella, senza dubbio, l’aveva musicata e anche dopo la morte non l’aveva potuta dimenticare. Lo squisito incontro avviene nel secondo canto del Purgatorio.
Non c’è espressione d’arte che Dante non conoscesse. L’orientamento musicale del XIII secolo tendeva eminentemente all’arte del Canto. Fra il 1200 e il 1350 venne prodotta una grande quantità di canzoni. Sono, con le «cantigas» del re di Castiglia Alfonso il Saggio, i più antichi autentici esemplari di melodie profane pervenutici fino ai nostri giorni. Si possono trovare nella Divina Commedia esempi tanto di armonia vocale che di monodie, E un «a solo» senza accompagnamento la canzone di Casella. Matelda canta un «a solo» fra i fiori, e il poeta, sensibile tanto alla dizione che alla musica, la prega di avvicinarsi onde poter meglio afferrare le parole e che «il dolce suono giunga alle sue orecchie coi suoi intendimenti». Ma Dante gusta ugualmente il fascino che gli strumenti aggiungono alla voce. «Voce mista al dolce suono».
«E come a buon cantor buon citarista fa seguitar lo guizzo de la corda, che in più di piacer lo canto acquista» (Par. XX)
E pure nel canto IX del Purgatorio giustamente nota il sentimento che gli procura l’accompagnamento musicale. «Quando il canto si unisce all’organo, quando le parole ora si sento ora svaniscono».
Si possono ancora citare due ammirevoli esempi. Nel Il canto del Purgatorio, su un mare agitato che l’alba colora, Dante vede avvicinarsi una barca leggera. Un angelo di luce e che sembra un «uccello divino» non avendo come remi e vele che le sue ali, la conduce. Più di cento anime vi sono assise e tutte cantano in coro, ad una voce, il salmo «ln exitu Israel de Aegypto». Ancora, al XVI canto del Purgatorio, il poeta ode delle voci «e ciascuna pareva pregar per pace e per misericordia l’Agnel di Dio che le peccata leva».
«Agnus Dei, così cominciano tutte le loro invocazioni; una sola parola è su tutte le labbra, con un solo ritmo, di modo che fra tutte quelle anime la concordia sembrava perfetta».
«Pur Agnus Dei eran le loro essordia; una parola in tutte era e un modo, sì che parea tra esse ogni concordia»
ln poche parole, ecco tutta la psicologia di una delle categorie dell’ideale sonoro. L’animo del Medioevo si esprime con essa e Dante fu testimone della sua gloria: è il canto gregoriano, più unanime di quanto sarà la polifonia del XVI secolo, poiché nella prima più voci cantano insieme, mentre nella seconda il canto è monodico.
Ecco ora vere cantate per soli e coro. Pietro d’Aragona e Carlo di Provenza hanno terminato il Salve Regina. Nel silenzio, il poeta ascolta invano, sente l’inutilità di ascoltare:
Quand’io incominciai a render vano l’udire.
Parole più di musicista che di poeta, come se il suo orecchio fosse fatto soltanto per la musica, e che solo questa dovesse essere ascoltata. Subito ricomincia, un’anima si è alzata, le mani giunte verso l’Oriente. L’inno «Te lucis ante» esce devotamente dalle sue labbra, e altre anime, simili a corifee, anime di principi e di re, le rispondono con la stessa devozione e dolcezza. E avviene anche, come nella lirica corale dei Greci, che il canto si unisca alla danza:
Tre donne in giro
Venian danzando
Tre donne avanzano danzando: una vestita di rosso fuoco, l’altra di smeraldo e la terza d’un bianco di neve. Sono le virtù teologali. Tutte tre danzano, ma solo la carità canta. E altrove ancora: ai suoni seguono dei movimenti, e la musica fissa figure femminili in atteggiamenti leggiadri. Mute, in ascolto, esse sospendono i loro passi per riprenderli subito, regolandoli sulla melodia che avevano perduto e che ora ritrovano:
Donne mi parver, non da ballo sciolte, ma che s’arrestin tacite, ascoltando fin che le nove note hanno ricolte
(Paradiso X)
Al XX canto del Purgatorio un «Gloria in excelsis» non è cantato ma gridato: «Poi cominciò da tutte parti un grido…» L’intera montagna trema. Qualche secolo più tardi il Gloria della Messa in si minore di Bach, e quello della Messa in re di Beethoven cominceranno più che con dei canti con delle grida.
La musica dantesca non ha nulla di monotono. Essa abbonda continuamente di effetti imprevisti.
E’ntanto per la costa di traverso venivan genti innanzi a noi un poco, cantando «Miserere» a verso a verso Quando s’accorser ch’i non dava loco per lo mio corpo al trapassar d’i raggi, mutar lor canto in un «oh»! lungo e roco. (Purgatorio V)
Dove potremmo trovare una tale interruzione, un tale punto d organo. Dante avrebbe potuto dire di questa esclamazione «lunga e roca» ciò che Wagner fa dire a Beethoven dei punti d’organo che trapassano le prime battute della sinfonia in do minore: «Tenete il mio punto d’organo lungamente e tragicamente. Non ho scritto punti d’or-
gano per scherzare o per incertezza, ma per avere il tempo di riflettere su ciò che segue… Allora la durata del suono deve essere aspirata, fino ad estinguersi. Allora io fermo le onde del mio oceano e lascio vedere sin nel profondo degli abissi, io sospendo il volo delle nuvole, faccio penetrare nell’occhio scintillante del sole». (L ‘arte di dirigere l’orchestra, Maurice Kufferath)
E lo stesso sentimento che si trova in Dante. Il lamento dei lussuriosi, tormentati dalle fiamme, è ancora un canto frammisto a grida. (Purgatorio XXV). Sembra che la trama vi sia stata regolata da un musicista superiore, e il genio di Dante ha qui intuito dei contrasti di toni e voci, tessiture e timbri, in una parola forme musicali che i più grandi secoli della musica dovevano poco a poco scoprire.
L’insieme che irrompe nel XXX canto del Purgatorio, intorno a Beatrice che appare. Essa sta in piedi su carro simbolico, i profeti e gli apostoli la circondano,
E un di loro, quasi da ciel messo, «Veni Sponsa de Libano», cantando gridò tre volte, e tutti li altri appresso…
Come nel giorno delle ultime assise, i fortunati si levarono agili ciascuno dalla propria fossa, esalando un Alleluia dalle loro voci risuscitate. Così, alla voce del grande vecchio, si levarono sul carro divino più di cento ministri e messaggeri della vita eterna. Tutti dicevano:
«Benedictus, qui venis» e
fior gittando al di sopra e dintorno «Manibus, oh, date lilia plenis»!
Poesia ebraica, virgiliana, dantesca, tutta la poesia si condensa in questa scena. Tutto è ugualmente musica. Un verso in particolare, e in questo l’ultima parola, è di una musicalità difficile a tradursi: La rivestita voce alleluiando.
In queste sole quattro sillabe la gioia, il giubilo di tutti gli Alleluia gregoriani sembrano divampare e fiorire. E un musicista non può non associare questo magnifico periodo a molti capolavori: al Benedictus della Messa in re, il cui ritmo è proprio quello di una eterna effusione di fiori; ai celebri cori di Schumann per certe parti del secondo Faust, sicuramente ispirati dalla Divina Commedia. Così la poesia dantesca ha delle radici profonde nel campo intero della musica. Se si esclude la sinfonia orchestrale, non c’è nulla nella nostra arte che Dante non abbia intuito. E non c’è nulla che egli non abbia compreso e amato. Se la parola cantata lo inebria, sente anche la bellezza della musica pura di una melodia, in un accordo: Una melode che mi rapiva, senza intender l’inno
(Paradiso XIV)
Ad ogni ora del giorno Dante dona una voce. Al mattino sente «la rondine intonare le sue tristi canzoni, forse ricordando i suoi primi dolori», e fra le tante «sere» che la musica ha celebrato, nulla è più musicale delle due famose terzine con cui si apre l’VIII canto del Purgatorio:
Era già l’ora che volge il disio ai navicanti e ntenerisce il core lo dì c’han detto ai dolci amici addio; e che lo novo peregrin d’amore punge, se ode squilla di lontano che paia il giorno pianger che si more…
Il poeta poteva ben associare la musica all’ora dolce fra tutte, poiché la musica fu per lui solo dolcezza. Non c’è passaggio del Purgatorio e del Paradiso che non lo provi. Tanto la soavità dei canti divim lo illanguidisce, tanto lo immerge in un estasi che è simile al sonno. Al solo ricordo dei cantici celesti il suo animo si scioglie e per ripeterli, dice, la sua immaginazione sarebbe troppo poco vivace, la sua parola non abbastanza dolce.
Dolce, dolcemente, ecco le parole che tornano di continuo. Ecco, secondo Dante, il carattere generale della musica. Egli preferibilmente l’associa a sentimenti teneri e benevoli. Ma, come spesso si esprime nella poesia, ne fa anche l’interprete dell’odio, della collera e della disperazione. E per questa ragione che la si incontra solo nel Purgatorio e nel Paradiso, nella regione dove si prepara la felicità o in quella dove si realizza. Elemento di pace e non di passione.
Quest’arte, che egli tanto amava, ha reso egli stesso più amabile. Quando parla della musica, e a suo modo, si scopre un Dante troppo poco conosciuto. «Chiunque, ha detto bene il Montégut, legga soltanto l’Inferno, correrà il rischio di avere di Dante un’idea errata. E tuttavia è sull’Inferno che la natura morale del grande poeta è stata giudicata. Se il Purgatorio avesse un maggior numero di lettori, questa falsa immagine di Dante che si è imposta all’immaginazione dei posteri non esisterebbe più da lungo tempo. Per noi, continua l’acuto critico, se abbiamo una particolare predilezione per questa parte della Divina Commedia, è perché è la più completa apologia del poeta e distrugge un’immagine formata sul modello delle passioni infernali — orgoglioso, atrabiliare, collerico e vendicativo, fatto interamente di giustizia e odio. Qui non è che una parte del suo animo. Perché l’altra ci sia rivelata bisogna seguire il poeta nella sua faticosa salita lungo la strada della penitenza, profondendo parole affettuose e saluti cortesi, rispondendo con lacrime di pietà ai racconti che ascolta, offrendo e ricevendo amore». (E. Montégut, Poètes et artistes d’Italie).
Montégut avrebbe potuto aggiungere che di questo amore reciproco la musica è spesso la causa, la messaggera e l’interprete. Per la musica e per coloro che l’hanno amata, il poeta serba il fiore della sua tenerezza.
La musica, secondo Dante, calma e consola. Ma fa di più: per un suo potere superiore, purifica e libera l’animo. Si trova, nel trentesimo canto del Purgatorio, dopo la severa reprimenda di Beatrice, un mirabile esempio dell’effetto della musica sullo spirito: «Guardami, io sono Beatrice, come dunque ti sei creduto degno di avvicinare la montagna? Non sapevi che qui l’uomo è felice? I miei occhi si abbassaron verso la chiara fontana; ma vedendovi la mia immagine, li volsi verso l’erba, tanto la vergogna aveva appesantito la mia fronte. Come la madre appare severa al figlio, così mi apparve Beatrice, perché la pietà che punisce lascia un sapore amaro.
Ella tacque, e subito gli angeli cantarono In te, Domine, speravi, ma non andarono oltre ” pedes meos ” … Così io restavo, senza lacrime e sospiri fino al canto di queste anime che misurano i loro accordi sugli accordi delle sfere eterne. Ma dopo che nei loro dolci concerti compresi la loro compassione per me, il ghiaccio che si era indurito intorno al mio cuore divenne sospiri e pianto»,
E la stessa emozione che Sant’Agostino prova ascoltando i canti della chiesa ambrosiana: «Le mie lacrime colavano, e io stavo bene con le mie lacrime». Altrove la musica appare ancora più liberatrice; più mistica e veramente divina è l’opera che essa compie.
La musica, infine, sarà compagna dell’eterna beatitudine. «La dolce sinfonia di Paradiso» che comincia con il soave Ave Maria di Piaccarda Donati, cresce e si purifica man mano che il poeta sale, guidato da Beatrice. Giungono entrambi al cielo di Saturno. La divina accompagnatrice che spesso, attraversando cieli meno sublimi aveva sorriso, ora non sorride più: «S’io ridessi mi cominciò, tu ti faresti quale fu Semelé quando di cener fessi»
(Paradiso XII)
A loro volta le musiche tacciono. Dante se ne stupisce e si addolora che l’una e l’altra gioia gli siano tolte. «Perché, domanda, perché tace la dolce sinfonia del Paradiso». E l’anima interrogata, che è quella di Pietro Damiano, gli risponde:
«Tu hai l’udir mortal sì come il viso rispuose a me: onde qui non si canta per quel che Beatrice non ha riso».
(Paradiso XXI)
Subito, fra nubi d’angeli, Cristo e la Vergine appaiono e noi penetriamo nel centro del divino splendore. Il sorriso è ritornato sulle labbra di Beatrice. Anche i concerti ricominciano, e il poeta, più forte, più puro, può sopportarne l’incanto senza morire. Una melodia intonata dall’Arcangelo Gabriele e ripresa dai cori celesti, nasce e si chiude, per così dire, in un circolo perfetto,
Tutto è musica, ormai. L’impressione ricevuta è così profondamente emozionante, che nasce molto meno dalla poesia che dalla musica.
In questa regione superiore del Paradiso i Te Deum e i Salve Regina, i Sanctus e gli Osanna si confondono e si rispondono. Dapprima una voce e poi tutte le gerarchie in coro intonano un supremo Ave Maria. La dolce sinfonia termina come era cominciata: rafforzato all’infinito da innumerevoli voci, irrompe come un tuono e riempie i cieli. È l’epilogo.
Nel corso dei suoi studi sul Purgatorio Emile Montégut ha provato malinconia, «Tutte queste anime, si chiede, con cui il poeta si intrattiene, dove si trovano ora? Hanno salito la montagna della purificazione, sono infine entrate nel regno di Dio? «Se non hanno raggiunto la vetta come deve essere lenta oggi la loro ascesa! Tanti secoli sono trascorsi dalla visita del poeta, i loro nomi sono entrati nell’oblio, il ricordo delle loro buone azioni dimenticato, il dolore di sapere che nessun soccorso sarebbe ormai venuto dalla terra. Esiste oggi un romano, un toscano, un lombardo che si interessi ad un Corrado Malaspina, ad un Forchetto? C’è su tutta la terra d’Italia un animo femminile che si commuova sulla sorte di Pia de’ Tolomei o di Sapia la Senese? C’è un artista o un poeta che si preoccupi di Casella il musicista, di Belacqua il liutaio?»
Ma se non conosciamo il destino dei musicisti, come ci appare splendido quello della musica! Dante ce ne è garante, essendo stato un testimone della sua immortalità. «E credibile, ha detto S. Tommaso, che dopo la resurrezione i Santi canteranno le lodi a Dio». In molte parti della Divina Commedia il poeta conferma la certezza del sublime Dottore. Egli ci assicura che la voce dei fortunati, «la rivestita voce alleluiando» sarà ancor più viva di quella dei vivi. «In voce, assai più che la nostra viva!»
Dante ebbe della musica un’idea così alta che egli, uno dei maestri del verbo, non lo ha ritenuto capace di tutto esprimere. Egli ha sentito che la musica sfida la parola e la sorpassa infinitamente. Nel XII Canto del Purgatorio:
«Beati pauperes spiritu! voci cantaron si, che noi diria sermone».
Così, il verbo che si è fatto carne quaggiù, lassù si farà canto, e sola, fra tutte le arti, in cielo sopravviverà e si idealizzerà. Spoglia di tutto ciò che poteva contenere di umano e transitorio: sensualità, passione, dolore, rimarrà in essa quanto ha di divino: ordine, ragione, amore. Questa è la concezione dantesca della musica.