FEDE E MASSONERIA di L. L. Or. di Cuneo
C’è un villaggio come tanti sparsi su questo pianeta, un capolinea africano dove la vita è infima, le capanne spoglie, la morte famigliare e la resa data per certa. E un giro di nulla, bambini seduti a cerchio, mille malati intorno, il caldo che vela le voci e le sbianca. E un ghetto equatoriale dove un gruppo di sovversivi dal sorriso ostinato e senza parole, è venuto a condividere le asprezze senza gemito di un pugno di lebbrosi.
In quel punto lontano, ho un amico distrutto nel corpo ed eletto nello spirito, che torna spesso a visitarmi, come se gli fosse lecito raggiungermi. Non può. Da ogni aviogetto di linea sarebbe respinto, la gente griderebbe di orrore. Non ha più mani né volto. E un lebbroso del Centro Africa, preciso a quelli del Vangelo. Si chiama Renè Oye Mba e quando lo vidi stava pregando e spalacava quel che gli resta delle braccia. Da anni il corpo gli cade a pezzi, si dirocca. Eppure s’è cresciuto dentro un cuore così invitto da mutare in dono la sua miseria. Ci scriviamo ancora nonostante il tempo e la distanza. Un giorno gli domandai se incontrando Dio faccia a faccia, gli avrebbe chiesto perché lui, Renè Oye Mba, ex studente alla Sorbona, insegnante, uomo mite e sensibile, è diventato lebbroso, rinchiuso in una colonia per relitti viventi. La sua risposta fu: «No, non gli chiederò nulla, ripeterò soltanto grazie dal profondo. Mi sono sempre fidato». Sono parole che nessuna brezza, le sorti del tempo e neanche la somma degli eventi incontrati, hanno più rimosso dal profondo di me, dove ciò che conta è intatto. E stasera, vorrei che Renè Oye Mba, uomo di fede, fosse qui con noi, sia pure come clandestino. Vorrei che spiegasse le ragioni della sua fede a coloro che non concepiscono nulla di questo mondo, che non sia materia di appagamento per loro stessi; a coloro che non hanno più capacità alcuna da dedicare alla fede, nessuna meta per cui impegnarsi, e neppure la forza per cercarla; a coloro che si accontentano delle mezze verità e delle mezze realtà; a coloro che adottano convinzioni e dogmi che comunità organizzate statali, sociali e religiose, tengono pronti per chi non ha più pensieri propri.
Vorrei che ci ricordasse che la fede precede ogni esperienza palpabile, invece di derivare da essa; che la fede è un atto dello spirito, è fedeltà, lealtà ad un evento, lealtà alle nostre risposte. Vorrei ci ripe- tesse che la fede è l’inizio in noi di un desiderio intenso di operare una sintesi con ciò che è al di là del mistero, desiderio di unire tutta la forza che è dentro di noi con tutto ciò che di spirituale è al di fuori di noi; è così che la fede diventa una forza che ci spinge all’azione. L’uomo infatti non basta a se stesso; la vita non assume per lui alcun significato se non serve ad un fine che la trascende, se non è di valore per qualcun altro. Per quanto sia alto il tasso di scambio dell’io, gli uomini non vivono soltanto della moneta corrente, ma del bene ottenibile spendendola. Certo, ciò che noi siamo capaci di concedere agli altri è generalmente di meno e raramente di più di una semplice decima. Certo, siamo abituati a vivere con desideri effimeri, ma sappiamo anche che la vita sta un po’ più in alto dei nostri interessi quotidiani. E forse, forse è anche per questa ragione che ci troviamo stasera in un Tempio Massonico; perché la M. non è soltanto condizione dell’anima, interiorità e sentimento assoluto.
La M. sostiene la necessità di stabilire una unità tra fede e credenza, tra devozione e atto. La fede è soltanto il seme, mentre l’atto è la sua crescita oppure la sua decadenza. Come la fede non può essere separata dalla condotta, così la M. va vissuta negli atti, non solo nei pensieri. Può diventare modello di vita, un modello di vita che corrisponde alla dignità dell’uomo, un modello di vita che tende non soltanto a soddisfarne i bisogni, ma anche a raggiungerne i fini.
In questo Tempio ci siamo detti più volte che la vita è un mandato e non l’usufrutto di una rendita; un compito e non un gioco; un comando e non un favore. E qui che l’esperienza di ognuno può aprire la via a nuovi doveri, è qui che la ricerca del retto vivere, il problema del bene che deve essere fatto ora, subito, diventa l’autentico punto centrale della nostra vita massonica.
Dovremo saper cogliere fra queste mura un lascito che ci riguarda, una traccia da perseguire, attimi di dignità e trasalimenti di saggezza che altri fratelli hanno provveduto a costruire, pur sapendo che il loro destino, come il nostro, non era di portare a termine le cose, ma di contribuirvi.
Dovremo appartenere al gruppo di coloro che non chiedono, non impongono, non parlano. Fanno. Fanno qualcosa per gli altri senza mai annunciare o denunciare. Fanno, senza aver alcun rapporto con gli altri che non sia la comune umanità. Non danno regole, le vivono. E sarà esaltante sapere che la Massoneria dipende dal carattere individuale di quegli uomini che lavorano in Tempio, sarà esaltante constatare che la Massoneria va assumendo il colore delle loro qualità.