PLATONE

Noi seguaci di Platone di Adele Menzio

Da più parti si va percependo uno strano malessere. Anche in Massoneria. Tutti conoscono la situazione francese, certo non rosea, ed anche in Italia — grazie ai buoni uffici della magistratura e del pilotato sentire collettivo — molti individui che potrebbero trarre immensi benefici personali ed essere positivamente utili alla società, non si avvicinano alla Muratoria perché timorosi di perdere il posto di lavoro o la stima di amici e conoscenti.

Al di là delle cause esterne, che pure giocano un ruolo fondamentale, dobbiamo onestamente constatare, noi che viviamo la vita di loggia, che qualche cosa di indefinibile alle volte non funziona, che le nostre aspettative un poco sono andate deluse, che non sempre i lavori proseguono come vorremmo. Dobbiamo scoprire perché.

Ritengo che in parte ciò sia dovuto al perdurare, in ognuno di noi, di una profanità che ci portiamo addosso con pervicacia e che non riusciamo ad abbandonare.

Se studiamo la nostra storia massonica possiamo notare, ad esempio, che tutte le volte che la Muratoria si è avvicinata troppo alla politica è stata dilaniata da divisioni, polemiche, assonnamenti in massa, secessioni, bisticci disonorevoli quanto sterili.

Perché ciò avviene?

Perché non riusciamo a capire l’autentico significato dell’iniziazione e non facciamo molti sforzi (ed anche sacrifici) per coerentemente vivere la nostra nuova vita.

Troppe volte ho tentato di chiarire che cosa significa rinascere iniziaticamente perché ora mi ripeta.

Desidero invece individuare il fondamento filosofico del pensiero massonico che, sia pure nel rispetto delle credenze e delle ideologie di ciascuno, ha una sua particolarità, un suo nucleo comune a tutti i Fratelli.

Platone.

Sì.

Dobbiamo proprio prendere le mosse da una delle figure più straordinarie della storia del pensiero.

Lungi da me l’idea di impartire una lezione di filosofia. Per carità. Non ne sarei capace.

Solo voglio tentare un breve ripasso e rileggere, in chiave muratoria, quelle nozioni che hanno costituito una delle basi del mio modo di essere. 427-347 a.C.

Questo il tempo in cui visse il filosofo.

Un secolo dopo Pitagora. E vedremo quanto il pitagorismo contò per Platone.

Ateniese.

Pericle muore quando Platone ha due anni.

Tutti conosciamo il fulgore dell’età di Pericle per il pensiero, l’arte, ogni aspetto dell’umano sapere.

Platone — soprattutto — ha modo di corioscere e frequentare Socrate del quale mi preme ricordare qui soltanto una delle sue virtù: l’aver esaltato il valore della libertà della ricerca. La sola a conferire all’uomo dignità.

Torniamo all’aristocratico Platone che, giovinetto, è attratto dalla politica che abbandona dopo poco.

Lo delude l’oligarchia dei trenta tiranni ed ancora di più (dopo un momento di esaltazione) la restaurazione democratica che condanna il suo amatissimo maestro Socrate.

Viaggia, ed a Taranto ha il primo contatto con una comunità pitagorica. Tornato ad Atene fonda l’Accademia, una comunità modellata su quelle pitagoriche ed erede della tradizione socratica.

Durante questo periodo (siamo nel 387 a. C.) esplode la sua speculazione.

Una ventina d’anni di studi intensi e di straordinaria attività letteraria. Nel 367 Dionigi il giovane lo invita a Siracusa dove Platone ha un grande amico: Dione. Arriva in Sicilia con la speranza di poter applicare in concreto la sua costituzione politica.

Ma Dione e Dionigi litigano. Dione è condannato all’esilio e presto muore.

Platone, deluso, abbandona la Sicilia ed alla sua opera «Le Leggi» affida il suo ultimo insegnamento.

Nei 35 dialoghi e nelle 13 epistole è contenuto il pensiero di un filosofo che spazia dalla ricerca della vera virtù e della vera sapienza;

al linguaggio, all’amore, all’imrnortalità dell’anima, alla politica, tutto unificando in un sistema.

È il primo ad usare la forma del Dialogo perché, secondo lui, il pensiero non può essere cristallizzato, ma si sviluppa continuamente nella sua dinamicità.

Vorrei che tutti ponessimo molta attenzione a questo aspetto. I nostri lavori si svolgono dialogando, con la partecipazione corale di tutti.

Se Io spunto è una tavola architettonica che rispecchia il pensiero di un fratello l’esperienza ci insegna che l’intervento di tutti gli altri non soltanto chiarisce (il più delle volte allo stesso estensore) il valore di certe proposizioni, ma arricchisce il pensiero iniziale di elementi nuovi in modo tale che alla fine della tornata i termini del problema (non voglio parlare di soluzioni definitive) si sono moltiplicati così da avere a disposizione, per una ulteriore e personale meditazione, un numero di dati maggiore che preludono ad una sorta di completezza. A me pare che soltanto per questo già potremmo essere grati a Platone. Ho accennato alla devota ammirazione ed all’affetto di Platone verso il maestro Socrate.

Nei primi dialoghi («Apologia di Socrate» e «Critone») Platone affronta il tema della « Virtù» e della « Vera sapienza E ancora imbevuto dell’insegnamento del maestro e quindi conclude che la virtù altro non è che la scienza del bene e del male che deve essere affrontata razionalmente.

Noi, figli dell’illuminismo, facciamo spesso riferimento alla ragione anche se andiamo (e dobbiamo farlo) oltre.

Nei dialoghi i Sofisti (che sono gli interlocutori illustri) sono sempre profondamente sicuri di sé, certissimi delle loro convinzioni.

Somigliano molto a certi profani.

L’opera di Socrate consiste, fingendosi ignorante ed attraverso una serie incalzante di domande e demolendo dialetticamente le certezze dei vari Lisia, Menone ed Eutidemo, nell’aiutare ciascuno ad un «parto» intellettuale consistente nel dare alla luce conoscenze universalmente valide.

La famosa «maieutica» che Socrate affermava di avere ereditato dalla madre levatrice.

In che noi massoni possiamo riconoscerci nel pensiero socratico? Proprio nel procedere allo smantellamento delle nostre presunte certezze.

Entriamo in massoneria con la tracotanza del sofista, comun sistema di nostre verità che non abbiamo mai cercato di analizzare con onesta umiltà.

Perché ce le hanno insegnate, le abbiamo costruite sulla base della nostra cultura, delle nostre tradizioni familiari, perché nutriamo nei loro confronti un certo affetto, perché ci identificano.

Il confronto con i fratelli più esperti e l’aiuto dei maestri svolgono una funzione socratica: debbono indurre ciascuno di noi a partorire un nuovo se stesso.

Se Socrate afferma il valore di una conoscenza necessaria ed universale scaturente dall’interno dell’uomo, Platone va oltre.

Vuole dare alla conoscenza un fondamento oggettivo.

Ecco allora che nei dialoghi della maturità, posteriori al viaggio in Sicilia (il primo) ed alla fondazione dell’Accademia, egli costruisce il suo sistema, crea la teoria delle idee, traendone le possibili conseguenze.

Che cosa dice Platone?

Immagina una dualità.

C’è un mondo di concetti universali, immutabili, incorporei ed eterni. Il mondo delle idee. Esiste un altro mondo, quello sensibile, imperfetto, contingente, mutevole. Una specie di brutta e sbiadita copia del mondo delle idee.

Quando noi cerchiamo di capire e stabilire che cosa sia il bello o il giusto od il buono, non possiamo riferirci alle singole cose che vediamo e tocchiamo perché esse sono mutevoli, perché sono (anche se della stessa specie) tutte diverse l’una dall’altra. Dobbiamo necessariamente riferirci ad un qualche cosa che sia sempre identico a se stesso quindi al bene in sé, al giusto in sé, al buono in sé, cioè all’essenza.

Platone, tanto per portare un esempio, diceva — «non bisogna pensare al cavallo, ma alla cavallinità tutti i cavalli partecipano alla cavallinità, ma non sono la cavallinità —».

Oggetto della filosofia (scienza suprema) è la contemplazione delle essenze ideali che sono sempre le stesse, che non cambiano mai.

Quindi per Platone la conoscenza vera non può avvenire attraverso l’esperienza, perché questa si basa sullo studio delle cose sensibili.

E allora come si fa?

Da dove possiamo trarre la scienza delle idee?

Facendo proprie le risultanze della tradizione orfico-pitagorica che affermava l’immortalità dell’anima e la sua molteplice rinascita, Platone dice:

«L’anima ha contemplato le idee in una vita anteriore. Quando è entrata nel corpo se le è dimenticate. Venendo a contatto con le cose materiali (che, come ricorderemo sono la brutta copia delle idee) riesce a ricordare le essenze.

Di conseguenza la conoscenza non deriva dall’esperienza.

E invece una reminiscenza, un ricordo che affiora. E I anamnesi. Un ricordo, sollecitato dall’esperienza, che assume così un ruolo puramente strumentale».

Il corpo è dunque impedimento.

Solo il Savio, che contempla il mondo delle idee, sa che la vita è preparazione alla morte, intesa quest’ultima come liberazione dell’anima. Platone — che è scrittore efficace — nella Repubblica, per spiegare la condizione dell’uomo, ricorre al mito della caverna.

Gli uomini sono come prigionieri incatenati che volgono le spalle all’ingresso di una caverna e che vedono delle cose solo l’ombra che si staglia e muove sulla parete. Credono così che l’ombra sia la realtà vera.

Soltanto se riescono a liberarsi dai ceppi ed uscire in piena luce potranno rendersi conto della realtà vera.

Come si procede conoscitivamente?

Dalle irnmagini delle cose, procedendo con un metodo che dalla molteplicità tende all’unità usando l’intelligenza intuitiva: il Nûs». Perno fondamentale è per Platone l’idea del bene che sta al di là di ogni altra essenza.

Tralascio il pensiero politico del filosofo per soffermarmi su un dialogo il «Teeteto» che approfondisce la teoria delle idee.

Forse, resosi conto che il distacco netto tra anima e corpo e quindi il distacco anche dal mondo naturale era eccessivo (nel «Fedone» il fine dell’uomo era un completo distacco dal corpo e dai sensi), Pla-

tone immagina un procedimento inverso a quello che dalla molteplicità tende all’unità.

Discendendo dalla unità alla molteplicità (che può anche essere intesa come differenziazione) si attribuisce valore alle fome miste.

Che cosa vuol dire?

Le cose finite, se vengono intese matematicamente, se cioè diventano misurabili, governate dal numero, assumono, in relazione ad altre cose finite, una loro valida proporzione.

Ciò influisce anche sull’etica, che non è più il totale distacco dal corPO, ma una vita mista e secondo misura.

Cioè un misto tra piacere ed uso dell’intelligenza.

Muta anche l’atteggiamento nei confronti della natura.

Anche qui l’artificio di un mito: quello del demiurgo.

Si immagina questo artefice divino che plasma il mondo prendendo a modello le idee e forgia secondo numeri e misura.

Così anche il mondo naturale diventa misto: alla razionalità della forma pura ideatrice si mescolano il transeunte ed il mutabile, ma, poiché il demiurgo ha organizzato tutto secondo un preciso disegno, anche la natura in fondo ha la sua anima.

Se leggiamo i nostri rituali (e non solo quelli della massoneria azzurra) per quanto essi siano suscettibili di qualche ritocco, noi ritroviamo i riferimenti alla luce, alla giustizia, alla dualità intesi in senso socratico-platonico.

La luce è proprio quella che sta al di fuori della caverna, è simbolo della verità assoluta, è il fine cui ambisce l’uomo che riesce a liberarsi dai ceppi.

L’iniziazione è il mezzo più idoneo per spezzare le catene. Giustizia e verità ricorrono frequentemente nei nostri rituali, in ogni grado.

Sempre sono concetti intesi al di là del tempo e dello spazio, al di là cioè dei limiti propri delle cose contingenti.

Attengono al mondo delle idee e possiamo riferirci proprio alle essenze platoniche.

In massoneria si parla di giustizia in sé e di verità in se.

In ciò si evidenzia il carattere universale della libera muratoria. Noi viviamo quotidianamente la libertà della ricerca.

6

E un concetto tipicamente socratico e delle opere della giovinezza di Platone.

La dualità e l’essenza del G.A.D U.

Chi crede all’esistenza di Dio, comunque lo chiami, necessariamente è dualista.

Tutte le religioni infatti propongono due tipi di mondi.

Uno sensibile ed imperfetto, dove viviamo.

Un altro eterno, immutabile, assoluto ed infinito cui tendiamo.

Poiché, come è noto e come ritualmente ricordiamo, noi lavoriamo invocando il G.A.D.U. e gli atei, sin dalle costituzioni di Anderson, non sono ammessi in massoneria, ne consegue che il dualismo fa parte del nostro pensiero, della nostra filosofia.

Quanto al G.A.D.U. esso come principio ordinatore, come primo motore, che crea secondo numero e musica, somiglia molto al demiurgo platonico.

Sono infiniti i riferimenti nella nostra ritualistica all’armonia, alla misura, al numero, alla geometria.

C’è sempre questo filone che, partendo da Orfeo, attraverso Pitagora e con alcuni elementi socratici, giunge sino a Platone per proseguire poi, attraverso lo gnosticismo sino al neo-platonismo ed al neognosticismo dei giorni nostri. Vale la pena di ricordarsene ogni tanto.

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