1 0 GENNAIO 1986 di Amarilli
Questo Natale è stato davvero generoso. Innanzi tutto, ci ha ridato la Befana, la commovente, decrepita vecchietta che, a cavallo di una scopa, viene a premiare i bimbi buoni ed a punire i cattivi. Ci ha proposto una, non ancora ben precisata Festa del Tricolore, ed infine, un inno nazionale modernizzato, arrangiato dal maestro di « Quelli della notte » , a ritmo di tango, dixie e marcia. Come si poteva immaginare un brusìo di sofferte, illuminate polemiche si è subito levato fra democristiani, socialisti, comunisti, radicali, misSini, fra tutti i partiti nostri rappresentanti, con scambio di enfatiche dichiarazioni cui, probabilmente, faranno seguito riunioni in Parlamento per prendere le gravi decisioni.
Già l’ho detto: i nostri deputati — anche se non pare — sono dotati di enorme senso dell’umorismo c trovo naturale che si dilettino con simili bagatelle per diminuire la tensione del travagliato iter della legge finanziaria, della nuova tassazione Irpef, della politica estera in Medio Oriente.
Parliamo della Befana. Immagino gli sguardi indignati degli inguaribili nostalgici. Chiedo venia, sono anch’io fra quelli. Ma esiste veramente ancora il mondo magico dell’infanzia? O piuttosto non è stato abbreviato o addirittura spazzato via da questo clima di disincanto e praticità? Esiste veramente ancora per i bambini quel mondo popolato di sogni, di fate, gnomi, biff animaletti, orchi, di aspettative misteriose? Quel mondo che in molti di noi ha lasciato una indelebile poetica impronta? Oggi sono, i bimbi, la nuova scoperta per gli spots pubblicitari, che sensibilizzano una Befana Babbo Natale (che a questo punto dovrebbero mutare aspetto), sui doni che vorrebbero ricevere. Tutto è preordinato, preannunciato, con un valore immediato e subito dimenticato,
E che dire della Festa del Tricolore? La riscoperta del sentimento patriottico? Cosa si vuole commemorare? La nascita della Repubblica Cisalpina, o non piuttosto la Repubblica Cispadana? La presa di Porta Pia, l’Unità nazionale del 1918? I Carbonari? I Partigiani? Una confusa carrellata attraverso la storia della nostra Italia, alla ricerca di un punto su cui far convergere il pensiero ed il sentimento nazionale?
Un sottosegretario ha dichiarato che la festa sarà dedicata all’Indipendenza, che cadrà in una stagione più clemente di quella invernale. Grazie ai cielo! Le sfilate, le commemorazioni e, per essere pratici, le gite verso la montagna o le mete turistiche, potranno forse avvenire sotto un tiepido sole primaverile. E le arringhe dalle piazze, i cortei, con lo sventolio del vessillo tricolore, avranno come sfondo il nuovo inno nazionale, a ritmo di dixie, tango e marcia, che nel frattempo, grazie a « Quelli della notte », satà diventato un best seller della musica. Tutto ciò potrebbe anche essere allegro, divertente, se non fosse una grande abbuffata, nel clima di abbuffate natalizie, di falso sentimentalismo e di dubbio patriottismo.
17 ottobre 1985
È successo nell’antico paese dei Samurai, delle garbate gheishe, dei mandorli in fiore, delle soavi melodie del liuto.
Sul giornale di oggi questa notizia: una rete televisiva ha mandato in onda, in diretta, un episodio di « teppismo giovanile », assoldando una cinquantina di giovani delinquenti e due ragazze, una di 16 e una di 17 anni. Le ignare vittime di questo « spettacolo » sono state cinque studentesse, invitate per l’occasione ad un barbecue, e che sono state assalite, picchiate, prese a calci ed a pugni, sfregiate a colpi di lametta. La madre di una delle ragazze, per il dolore e la vergogna, si è suicidata.
Il Primo Ministro Nakasone ha espresso « il suo rammarico » ed ha esortato il Ministro delle Poste e Telecomunicazioni ad esercitare una più severa sorveglianza sulle emittenti private.
Il Giappone, ancora una volta, dimostra di essere più avanzato di noi. Modestamente, in Italia, ci siamo per ora limitati ad offrire al pubblico, da un palcoscenico, l’uccisione dal vero di un cavallo. Ma, in fondo, di che ci meravigliamo? Non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Forse che gli antichi romani non deliravano alla vista del gladiatore in procinto di essere ucciso dall’avversario, e chiede44
vano all’imperatore il pollice verso? E non troviamo forse sempre, nel corso dei secoli, intorno a capestri ed esecuzioni capitali, la folla di spettatori avida di sensazioni, spesso donne con bambini in braccio o intente, nell’attesa, a fare la maglia? E oggi, e sempre, non troviamo forse sul luogo dell’incidente mortale, la solita folla di curiosi, che superficialmente commentano, inetti, ingombranti? Oggi la tecnologia ha fatto passi da gigante, ed i mass-media, nella lotta sempre più spietata ed accanita contro la concorrenza, non fanno altro, per vincere, che appellarsi e speculare, con acume psicologico — dopo una ricerca di mercato — su questo impietoso, sadico, brutale lato della natura umana.
Dell’invidia
« Nel mezzo del cammin di nostra vita » ognuno di noi ha la faccia che si merita. Possiamo trarre in inganno con le parole, ma non mentono i segni scolpiti nella nostra fisionomia, sulla nostra stessa struttura fisica. E se vogliamo parlare dell’invidia, i segni lasciati da questa passione sono fra i più eloquenti.
Riconosceremmo subito, in una galleria di quadri, l’invidioso per il suo sguardo obliquo, le labbra serrate non facili al sorriso, la carnagione opaca. Un misantropo, un bilioso; un invidioso appunto. Per questo, per sua ulteriore sventura, individuo spesso schivato come un malato contagioso, sempre sgradito. Non riesce neanche a destare compassione.
Non sempre l’invidioso è uno sciocco: anzi, uomini famosi ed intelligentissimi ne hanno inguaribilmente sofferto. Direi piuttosto che è individuo con scarsa immaginazione, puerile. Il suo è un pensiero abbreviato, una traiettoria che va direttamente all’oggetto invidiato, volendo ignorare gli sforzi, I impegno che ogni successo spesso richiede. Non pensa, l’invidioso, che questa fortuna è sovente, in gran parte, merito di un viso sorridente, di comunicativa, di bontà, disponibilità, di allegria: doti che già di per sé comportano una serie di piccoli successi.
L’invidia è la più inutile, negativa delle passioni. La più meschina. L’invidioso non vuole sentire elogiare gli altri, non riconosce meriti a nessuno, attribuisce ogni successo al semplice intervento della fortuna.
L’invidia è una disperazione. L’invidioso si contorce su se stesso, spia e paventa ogni sorriso, ogni buona notizia che vorrebbe per sé, si compiange. E chi si compiange assume l’aspetto di un vinto e con questo segna la sua sorte.
Non pensa l’invidioso che è inutile volere ciò che hanno gli altri, che ogni individuo ha valore solo in quanto esprime se stesso, ciò che ha dentro di sé. Tutto il resto è apparenza, improvvisazione. Se fosse possibile dargli dei consigli, gli suggerirei di mettersi in azione, di tentare di raggiungere i suoi obiettivi; di tentare di conoscersi a fondo, di comprendere le sue debolezze; di essere più aperto, socievole, generoso. Di amare la vita e dimenticare se stesso in termini di paragone.
Molte, molte ombre, quindi, nella passione dell’invidia. Può condurre ad eccessi, può far compiere gravi ingiustizie, a volte anche dei crimini. La cronaca e la storia ne sono piene.
Novembre r 985 – Le anatre della Dora
Ogni giorno si legge di attentati terroristici, dirottamenti, esperimenti nucleari, regolamenti di conti, di mafia, di droga. E si legge, più modestamente, di animali.
Questa volta, a salire agli onori della cronaca, sono le duecento anatre della Dora, dove avevano trovato l’habitat ideale per vivere e procreare, e delle quali vili killers notturni hanno fatto strage. Forse qualcuno troverà eccessivo che ci si preoccupi di anatre. Io, no. È un ennesimo episodio, questo, che conferma la latente, e non latente, diffusa insensibilità verso i così detti « amici dell’uomo », verso la natura in genere che, troppo spesso lo si vuole ignorare, è sorgente e sostegno di vita, della nostra vita.
Questo episodio è in stridente contrasto con quanto ho potuto constatare in un mio recente soggiorno in Inghilterra. Questo Paese non sta certamente vivendo un momento ideale, ha i suoi gravi problemi, la sua disoccupazione, i suoi scioperi, i suoi ultras. La sua decadenza. Ma è rimasta immutata, nella grande potenza di un tempo e nella più dimessa e tormentata nazione d’oggi, la profonda saggezza anglosassone, visibile nei suoi parchi e nelle sue campagne, nei suoi splendidi alberi centenari, come il segno di una civiltà che ha radici profonde in un concetto di natura ed in un modo di vivere non certo dominante nelle latine contrade.
Le anatre, i cigni, vivono tranquillamente nelle acque del Tamigi e dei suoi affluenti, per nulla intimorite dal continuo via vai che le circonda. Non hanno timore dell’uomo perché è sempre stato loro amico. Gli splendidi parchi, « National Trust » , sono proprietà di tutti e tutti li devono rispettare e li rispettano. Verde magnifico, alberi secolari, silenziosi testimoni di un grande passato, lunghi sentieri immersi nella natura silenziosa. La mia prima reazione è stata di sorpresa, e poi di ammirazione, cui ha fatto seguito un sentimento di rimpianto, rabbia, impotenza. Non soffro di esterofilia, al contrario. Amo il mio splendido e, purtroppo, dissestato paese che, malgrado ciò, continuo a trovare splendido. Tante erano le sue risorse di bellezza. Mi sovvengo dello struggimento provato nel visitare certi italici luoghi, la malinconia di certe « rovine » monche testimonianze di passata grandezza e di storia. Antiche risonanze che dicono di vicende lontane, di opere d’arte insuperabili che oggi, nel regno del materialismo, sono in troppi ad ignorare e dimenticare. E a distruggere.
Uomini, animali, terra, acqua, cielo, universo, foreste, tutto è un insieme in meraviglioso equilibrio che mai nessuno e niente avrebbe dovuto mutare e oltraggiare. Non ultimo, la loro bellezza che è nutrimento della nostra anima e gioia dei nostri occhi.
Chi lo dimentica non solo è un ignorante, un maleducato, un incolto, un incivile, ma uno stolto.