LA MORTE
La Morte
di Adele Menzio
«Chi non conosce la morte non conosce la vita».
Non è la frase di un filosofo, il verso di un poeta o il motto di un saggio.
E invece la battuta pronunciata da uno dei personaggi di un film degli anni trenta: «Grand Hotel».
Perché l’ho scelta come introduzione? Semplicemente perché si addice all’argomento di questa tavola e mi pare racchiuda una verità: mistero è la morte, mistero è la vita.
O, se volete, è tanto stretta la correlazione tra l’inizio e quella che comunemente riteniamo la fine, che le poche conoscenze che abbiamo debbono necessariamente intrecciarsi.
Siamo sinceri.
A tutti dispiace morire.
Anche gli uomini più disgraziati, che non fanno che soffrire per mille e mille disgrazie, cercano ogni giorno di ricacciare il pensiero della morte.
Almeno nel mondo occidentale.
L’istinto della sopravvivenza va oltre la salvaguardia del corpo. Interessa soprattutto il mantenimento di quella individualità che ci caratterizza.
Tanto che si è tentati di dire che il concetto di Dio e la credenza nell’anima non siano che trucchi inventati dall’uomo per illudersi. In un campo dove non esistono «prove» in cui tutto è avvolto nel più fitto dei misteri, qualsiasi teoria o credenza o speranza sono lecite.
Lasciate a ciascuno la sua angoscia e la sua libertà di credere o no ad una vita oltre la morte, vediamo come il Massone convive con l’idea della fine della vita terrena e quale sia per lui il significato specifico della morte.
Ho usato a bella posta il verbo convivere perché gli emblemi della morte sono costantemente presenti nei rituali, negli addobbi del Tempio e nei paramenti.
Il primo impatto con la Massoneria avviene, per il neofita, al cospetto di un teschio.
Non per ricordarci che ogni uomo, dal momento in cui nasce sa che deve morire, ma perché ci sia subito chiaro il significato dell’iniziazione che, come ben sappiamo, è essenzialmente la morte profana che, sola, consente la rinascita iniziatica.
Una morte non dovuta all’imperscrutabile decisione del G.A.D.U., ma volontaria, deliberata, scelta.
Di che morte si tratta?
Perché è necessaria?
È, ovviamente, una morte simbolica che deve operare nel neofita un cambiamento radicale
Nasce un uomo nuovo, recettivo, dlsposto ad abbandonare cognizioni, credenze, abitudini, sistema di pensiero e comportamento. Da bambina lessi un bel libro intitolato «Storia di Pipino nato vecchio e morto bambino».
Una vita a rovescio.
Una vita da iniziato.
Acciaccato nell’anima e nel corpo Pipino credeva di sapere tutto, conscio della propria annosa esperienza.
Man mano che gli anni scorrevano a ritroso e che le sue umane e fallaci esperienze sbiadivano, egli acquistava una purezza, una sorta di incanto che gli consentivano di apprezzare la poesia delle cose e quando, con un atto di amore estremo, la madre lo riaccolse in sé, fu la gioia assoluta.
Una storia bella.
Una storia che coglie il senso profondo non solo dell’iniziazione ma della vita stessa, quando essa sia vissuta consapevolmente.
Come?
Un bambino è più consapevole di un adulto?
Certamente.
Il neonato proviene da un mondo misterioso. Non tanto per le leggi fisiche e chimiche che ne regolano la formazione corporea, quanto per l’arcano riguardante la presenza dell’elemento spirituale, senza il quale non esiste creatura umana.
Come avviene la congiunzione tra anima e corpo?
Quando? Non lo sappiamo.
Possiamo tuttavia constatare quanto il bambino piccolo sia recettivo
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e come impari una somma straordinaria di nozioni in tempi brevissimi.
Sembra che, vivendo in terra e sollecitato dai sensi, ricordi cose, concetti, sentimenti già ben noti.
Si direbbe che il bambino, in contatto misterioso con il Tutto, una volta allontanatosi dall’utero materno, anziché acquistare, perda una parte delle sue conoscenze. Probabilmente quelle assolute.
Ecco allora che la consapevolezza assoluta è dell’infanzia, non dell’età matura.
Forse proprio a questa magica totale comprensione si riferiva Pascoli con il suo «Fanciullino».
Ecco perché Pipino, tornando nella madre, riacquista gioia e perfezione.
L’iniziato è un Pipino volontario.
Desidera «sentire» il tutto.
Sa che per ottenere la vista adatta alla dimensione altra deve necessariamente regredire attraverso l’abbandono (proprio come Pipino) delle pseudo certezze che, fino al momento dell’iniziazione lo hanno caratterizzato.
Pipino muore o non muore?
Se dei fatti diamo una interpretazione letterale Pipino, tornando nella madre, finisce.
Il che — secondo il metro comune — significa morte.
Tuttavia Pipino va a morte nel grembo materno. Cioè nel luogo ove nasce la vita.
Che cosa può voler dire?
Che vita e morte sono forse i due aspetti di un’unica realtà. Che ha ragione il personaggio di «Grand Hotel» quando dice: «Chi non conosce la morte non conosce la vita».
Torniamo al nostro mondo iniziatico,
La presenza della morte è una costante nell’iter massonico.
Esaminiamo la morte di Hiram.
e come impari una somma straordinaria di nozioni ln tempi brevis„ simi.
Sembra che, vivendo in terra e sollecitato dai sensi, ricordi cose, concetti, sentimenti gia ben noti.
Si direbbe che il bambino, in contatto misterioso con il Tutto, una volta allontanatosi dall’utero materno, anziché acquistare, perda una parte delle sue conoscenze. Probabilmente quelle assolute.
Ecco allora che la consapevolezza assoluta è dell’infanzia, non dell’età matura.
Forse proprio a questa magica totale comprensione si riferiva Pascoli con il suo «Fanciullino».
Ecco perché Pipino, tornando nella madre, riacquista gioia e perfezione.
L’iniziato è un Pipino volontario.
Desidera «sentire» il tutto.
Sa che per ottenere la vista adatta alla dimensione altra deve necessariamente regredire attraverso l’abbandono (proprio come Pipino) delle pseudo certezze che, fino al momento dell’iniziazione lo hanno caratterizzato.
Pipino muore o non muore?
Se dei fatti diamo una interpretazione letterale Pipino, tornando nella madre, finisce.
Il che — secondo il metro comune — significa morte.
Tuttavia Pipino va a morte nel grembo materno. Cioè nel luogo ove nasce la vita.
Che cosa può voler dire?
Che vita e morte sono forse i due aspetti di un’unica realtà. Che ha ragione il personaggio di «Grand Hotel» quando dice: «Chi non conosce la morte non conosce la vita».
Torniamo al nostro mondo iniziatico.
La presenza della morte è una costante nell’iter massonico.
Esaminiamo la morte di Hiram.A mitigare il moto spontaneo di rivalsa urlato dai Cavalieri Kadosch, la parola pacata del Commendatore.
Non è De Florian a dover essere eliminato, ma ciò che rappresenta: ignoranza, ingordigia, ingiustizia, potere mal gestito, cecità gnoseologica, intolleranza, cieco dogmatismo.
Queste sono le cose da uccidere, da eliminare per sempre. La spada del Cavaliere (come ogni arma anch’essa portatrice di morte) assume un carattere singolare.
E una spada simbolica che non farà mai grondare sangue, ma taglierà inesorabile, metterà «a morte» ogni aspetto del male. Possiamo affermare che la morte ha un aspetto ambivalente,
Da un lato indica la fine ineluttabile di un qualche cosa di vivo: un uomo, un animale, una pianta. Oppure un amore, una epoca, una civiltà.
Dall’altro la morte può essere intesa come porta che si apre alla vita dello spirito. «Mors janua vitae».
E quest’ultimo l’aspetto che interessa il massone.
La morte che introduce ai mondi sconosciuti attraverso un procedimento di carattere psicologico che deve dcmaterializzare per liberare le forze spirituali.
Un ulteriore significato, dunque.
La morte corne liberazione, ma anche come assoluta libertà,