Il significato simbolico dei tre assassini di Hiram Abif
Il significato simbolico dei tre assassini di Hiram Abif costituisce una valenza fondamentale nella nostra vita di iniziati. La figura dei tre assassini è elemento centrale nella leggenda di Hiram Abif, base del terzo Grado in Massoneria e primo punto di approdo del percorso massonico.
Perché è così importante la figura dei tre assassini? Comprenderne il ruolo è cosa indispensabile al fine dell’interiorizzazione del Grado di Maestro Massone. Questo Grado si differenzia in modo sostanziale dai primi due. Se possiamo infatti dire che il Grado di Compagno sia conseguente a quello di Apprendista, continuandone e sviluppandone i significati in una chiara e palese progressione logica, il Grado di Maestro rompe gli schemi, puntando su vie nuove, su aspetti che fino a quel momento erano restati solo accennati. La morte, che fin dall’iniziazione ci viene presentata, sotto forma di “memento mori”, col teschio nel gabinetto di riflessione, nell’Elevazione al terzo Grado diviene tangibile, palpabile. Non c’è più un accenno moralistico e rappresentativo della fine della vita, c’è una morte violenta, truce e tragica. Ci viene raccontato un omicidio odioso, ancor più odioso in quanto ingiusto e determinato da stupida ambizione.
La prima domanda che mi feci, la sera stessa della mia Elevazione, fu: perché? Che necessità c’è di una leggenda così forte nella via iniziatica della Massoneria? Analizzando la leggenda, leggendola e rileggendola ho cercato di comprenderla a fondo, di coglierne il significato andando oltre il velo superficiale che lo nasconde. Mi sembrava che gli assassini dovessero rappresentare i vizi e Hiram la virtù, che si narrasse la lotta tra il bene e il male, tra il bianco e il nero che ogni volta vedevo sul pavimento dei nostri Templi Augusti. Questa interpretazione si adattava alla narrazione ed era confermata inoltre dalle parole del rituale stesso. Eppure non mi convinceva. Ero sicuro della giustezza delle mie osservazioni, ma ero altresì certo che ci fosse un altro modo di vedere le cose. Un aiuto insperato è venuto dal rituale di passaggio al secondo Grado. In esso sta scritto che nulla di ciò che esiste è estraneo alla Libera Muratoria.
Mi chiedevo come ciò fosse possibile. Una visione dualistica delle cose, come quella manichea, impone una scelta fra gli opposti. Se concepiamo l’esistenza di due assoluti come il bene e il male, la virtù e il vizio, il bianco e il nero, ci si pone l’obbligo morale di scegliere l’uno o l’altro. Se così fosse la Massoneria non potrebbe tutto comprendere come dice. Non si può essere nel bianco e nel nero contemporaneamente. Dunque il pavimento non è simbolo di dualismo, ma dell’unità degli opposti che pur presentandosi come forme diverse non possono che essere una sola cosa e quindi uniti. Per questo l’iniziato si muove sul limite tra la piastrella bianca e quella nera. Virtù e vizio divengono quindi solo indicativi, non più di due assoluti, ma di due forme che l’iniziato usa come fari per dirigersi sulla strada che conduce oltre le forme stesse.
Gli assassini non potevano quindi essere l’incarnazione del male, o, meglio, lo sono solamente in quanto simboli, in quanto forme. Il male in sé, come essenza e realtà tangibile, non esiste e quindi non può essere incarnato. Stessa cosa vale per il bene.
Tornando alla leggenda e al ruolo dei tre assassini possiamo dire che essi rappresentano una parte di noi tanto quanto il Maestro Hiram Abif. Se Hiram è la parte più nobile del nostro Spirito, essi sono gli istinti più bassi, le pulsioni della bruta emotività animale. Ciò che però fa più riflettere è che sono utili, anzi, necessari. L’utilità è una delle cose più importanti nel percorso massonico. A differenza di altre vie, come quelle religiose, la Massoneria si pone come percorso di perfezionamento attraverso un lavoro su noi stessi. Per farlo abbiamo bisogno di agire usando gli strumenti che la Liberia Muratoria ci dona. Ciò che vediamo nel Tempio non è mero simbolo, ma reale attrezzo, strumento di lavoro. Se uno strumento è inutile al perfezionamento, non va mantenuto, ma gettato. Dopo secoli la Massoneria ha raggiunto il giusto equilibrio nei suoi rituali tra la semplicità e la complessità degli strumenti tanto da non dover più pensare a cosa scartare, ma la stessa cosa non vale per noi.
Ognuno di noi ha degli aspetti, dei desideri, delle ambizioni o anche solo delle piccole manie che a nulla gli servono e che magari lo mantengono fermo, immobile. A volte perfino ciò che ci può sembrare il massimo apice della nostra scala può divenire in realtà la fine della nostra evoluzione. La soddisfazione si può trasformare in auto glorificazione fino a farci dimenticare che il percorso non è finito, ma continua senza sosta. Questo aspetto è ben rappresentato dai numeri pari nei tarocchi. Il quattro significa stabilità, ma anche staticità. Il limite tra le due cose è lieve e facile è finire dalla parte sbagliata.
Ecco dunque che proprio quando eravamo divenuti esperti delle scienze liberali, conoscevamo gli stili architettonici e il pensiero dei grandi saggi dell’antichità, quando avevamo imparato a usare i nostri sensi per creare il bello, quando, insomma, ci poteva sembrare di essere divenuti dei Maestri, la nostra morte (perché non va dimenticato che noi siamo Hiram) pone fine a tutto ciò per regalarci una vita nuova. Ma in questo processo non tutto si salva. La Parola è perduta. Perché? Semplicemente perché non serve più. Il nostro percorso è una continua morte e rinascita, un continuo abbandonare parole e idee che non fanno più parte di noi, che non sono più utili alla nostra crescita, per cercarne delle nuove, più grandi, più forti. Hiram giunge al suo massimo punto di grandezza con l’edificazione del Tempio di Salomone. Cosa avrebbe potuto realizzare di più grande? Nulla. Ecco perché la morte lo reclama, ecco perché egli diviene leggenda. Perché la sua fine, la fine della sua vita in questo mondo, lo porta in un piano superiore dove può ricominciare essendo ciò che ha raggiunto ormai fatto e scontato. Se non fosse morto la sua persona, la sua gloria sarebbero divenute solo effimere ombre di ciò che erano, sarebbero decadute poiché una volta raggiunto il massimo grado due sole cose sono possibili: decadenza o morte. Naturalmente all’iniziato non è richiesto di morire fisicamente, ma di abbandonare la propria identità attuale per una nuova, per divenire più perfetto.
Hiram Abif viene ucciso perché la morte dell’iniziato è sempre in qualche modo violenta. Abbandonare ciò che ci trattiene è spesso faticoso e accompagnato da sofferenza. È difficile abbandonare le cose e le idee che ci rendono sicuri, felici di quel che siamo. È necessario quindi divenire assassini di noi stessi, usare violenza su di noi distruggendo quel che siamo per divenire altro, per ricostruire un nuovo edificio più grande e glorioso di prima.
Anche su questo aspetto la riflessione non può procedere per assoluti. Si deve valutare la possibile ambivalenza di ogni cosa, la sua capacità di simboleggiare e significare più aspetti, più sfumature. Come si può infatti dire che ambizione e orgoglio sono sempre negativi? Non è ambizione il desiderare il proprio miglioramento? Non è orgoglio il pensare di poter raggiungere l’obiettivo prefissato? Non è forse l’orgoglio che ci trattiene spesso dal cedere al vizio per mantenere la nostra onorabilità, la nostra dignità? Ciò che dobbiamo evitare è permettere che tali vizi divengano i nostri padroni, che possano distruggere il nostro percorso, il nostro miglioramento in nome dell’autocelebrazione e della soddisfazione del nostro bisogno di riconoscimento. Al contempo sono proprio l’ambizione di elevarsi e l’orgoglio di esserne degni che ci spingono ad affrontare le difficoltà e le prove per superarci. Dove sta il limite, la differenza? Sta nella misura. Del resto basta dare un’occhiata veloce alla simbologia massonica per vedere come molti dei simboli richiamino in diverso modo la misura stessa. Basti ricordare il compasso che misura e riporta le misure di angoli e distanze, il regolo, la riga, la squadra: tutti attrezzi che pongono limiti e danno la precisa grandezza delle cose. È dunque la mancanza di misura, in eccesso o in difetto, che porta certi aspetti dell’uomo a divenire vizi. Se un uomo non ha ambizione non può crescere, semplicemente perché non lo desidera. Se ne ha troppa si lascerà trascinare dal desiderio, dall’emozione che lo porterà a volere titoli e onori senza merito e soprattutto senza comprensione.
I tre assassini sono quindi dannosi o utili in virtù di quanto noi li valutiamo, di quale misura il nostro ego dà loro e dell’importanza che essi assumono per noi. Essi divengono orribili aguzzini che uccidono l’iniziato quando il vizio prende il sopravvento, ma divengono strumento di auto modificazione se sappiamo usarli come e quanto serve. Oterfut, Eterkin e Mohabon dunque sono lo strumento principale della nostra crescita. Dobbiamo conservarli dentro di noi, saperli usare quando ci servono e cacciarli quando sono dannosi. L’iniziato deve imparare a non attaccarsi all’esteriorità e all’aspetto, per quanto bello, di ciò che ha raggiunto, ma deve cercare di migliorarlo anche a costo di distruggere completamente ciò che ha fatto.
Anche sull’utilità, come dicevo prima, ho riflettuto parecchio. In particolare mi sono chiesto a cosa servisse la leggenda e in particolare i tre assassini per la mia crescita. Purtroppo, o forse per fortuna, la vita profana (sempre che veramente esista la profanità per un iniziato), mi ha messo davanti a delle prove forti, in cui ho dovuto abbandonare le idee che avevo prima, ho dovuto rendermi conto che il mondo non era come l’avevo pensato fino ad allora. Queste esperienze sono state spesso improvvise come delle slavine e le ritrovo molto nell’assassinio di Hiram e nella sua rinascita simbolica. Una delle esperienze, positiva questa, che mi ha costretto a cambiare parametri e misure di giudizio è stata la mia permanenza in Africa. Prima di andare avevo un’idea forse buonista e idilliaca del continente nero, avevo tante belle ideologie a tal proposito che si sono rivelate semplicemente errate al confronto della realtà.
L’amore viscerale che ho per l’Africa e per l’Etiopia in particolare è potuto nascere solo grazie allo sforzo di distruzione che ho dovuto fare su me stesso per eliminare i miei pregiudizi e sostituirli con dei dati di fatto non inquinati da ideologie e credenze errate. Anche grazie a questo ho potuto avere una visuale non canonica sulla leggenda di Hiram. Me ne rendo conto ora, a due anni di distanza, perché le esperienze e le parole della leggenda hanno dovuto maturare lentamente dentro di me. Oggi, in tutto quello che faccio, cerco di valutare la situazione e soprattutto di capire se veramente il mio essere è in sintonia col mondo in quel momento o se invece devo abbattere e ricostruire o magari solo limare un po’ gli spigoli. Di sicuro non do più nulla per scontato, non interpreto i fatti semplicemente attraverso i miei schemi predefiniti. Se mi accorgo di avere certezze assolute, pregiudizi di ogni sorta, cerco di abbatterli anche se a volte mi costa, se per far questo devo ricredermi su cose che mi rendevano più sicuro, tranquillo o anche se per ricostruire devo prima ammettere la mia iniquità e il mio errore. Questo è forse l’aspetto che più ho fatto fatica ad apprendere. Ho faticato ad accettare l’arrivo dei tre assassini forieri di morte, ma anche della certezza del mio torto e della possibilità del superamento. A questo si è sommata certamente la paura dell’ignoto, del vuoto lasciato dal crollo e dall’incertezza della ricostruzione. Continuo a faticare, continuo ad aver paura, ma sempre più, soprattutto grazie al percorso massonico, riesco ad accettare quello che forse è inevitabile e che sicuramente è utile e necessario alla mia crescita.
In questo io trovo l’utilità dei tre assassini, li ritengo una parte di me e forse, anche se primitiva, bestiale, violenta e irrazionale, una parte dotata di una sua nobiltà data dalla funzione distruttrice, ma anche in certo qual modo salvifica.
Ho impiegato quasi due mesi a scrivere questa tavola. Solitamente impiego molto meno: il tempo di fare le opportune ricerche su libri vari, meditarle e rielaborarle per esprimere la conoscenza del grado che avevo. Per questa non ho fatto ricerche. Non sui libri. Ho riguardato i rituali, ovviamente, ma a poco mi è servito. Quel che mi serviva lo sapevo già. La fase difficile è stata la ricerca interiore, il tentativo di capire, perché conoscere e comprendere sono cose ben diverse. Per la prima basta leggere dei buoni testi, per la seconda bisogna impegnarsi nella riflessione e nella ricerca interiori. Non so se ho compreso, non sta a me dirlo, ma sicuramente ho fatto un piccolo passo in quella direzione capendo come dovevo agire. In passato alcuni Fratelli, che ringrazio moltissimo, mi hanno criticato dicendo che i miei interventi e le mie tavole soffrivano di accademismo. Avevano ragione.
Pensavo che bastasse conoscere simboli e rituali per sapere cosa fosse la Massoneria. Non è così e, anche grazie alle critiche ricevute, ho cambiato visione. Fare una tavola del tenore di questa è per me molto più faticoso che fare ricerche dotte citando autori esimi.
Spero di essere riuscito nella mia impresa.
Enrico Proserpio