TOTO’, MASSONE DAL 1° MAGGIO 1925
Totò, massone dal 1° maggio 1925
Certo la “notizia” non mette sottosopra l’universo, però è significativa e merita spazio. Il 1° maggio 1925 Antonio De Curtis, in arte Totò (Napoli, 15 febbraio 1898-Roma, 15 aprile 1967), solennizzò a modo suo la festa del lavoro: cinse il grembiule di muratore, anzi di libero muratore, e venne registrato massone nella loggia “Nazionale” di Roma, all’obbedienza diretta di Raoul Vittorio Palermi (1864-1948), sovrano e stratega della Gran Loggia d’Italia. Si sapeva da anni del suo ingresso nella “Fulgor” di Napoli nel 1945. La novità sulla sua iniziazione di vent’anni prima è emersa nell’affollato convegno su “L’impresa di Fiume, 1919 1920. Tra leggenda e realtà”, organizzato dalla Delegazione Magistrale friulana della Gran Loggia d’Italia al castello di Villalta (Udine), con la partecipazione del sovrano e gran maestro Antonio Binni e degli storici Enrico Folisi, Lijubinka Toseva Karpowicz e Valerio Perna, presenti “fratelli” di diverse Comunità e molti “profani”. Durante il “Ventennio” Totò conservò sotto la bombetta quel segreto che aiuta a comprenderne meglio la tetragona libertà di pensiero e la distanza siderale dal “regime”. Ma, poiché si parla di un Ordine iniziatico, andiamo per ordine…
Primavera di bellezza?
Roma, primavera 1925. Il 3 gennaio da Capo del governo, Benito Mussolini, Collare della Santissima Annunziata (e quindi “cugino del Re”), con un infuocato discorso alla Camera respinge l’accusa di complicità nel “delitto Matteotti” e sfida il Parlamento a denunciarlo e a tradurlo in giudizio dinnanzi al Senato, costituito in Alta Corte di Giustizia in forza dell’art. 36 della Carta Albertina “per giudicare dei crimini di alto tradimento e di attentato alla sicurezza dello Stato, i ministri accusati dalla Camera dei Deputati”. Nessuno fiata. La maggior parte dei deputati d’opposizione (socialisti, repubblicani, seguaci di Giovanni Amendola e ala sinistra del cattolico partito popolare italiano) dall’estate precedente non partecipano alle sedute, arroccati in un immaginario “Aventino”. Re rigorosamente costituzionale, Vittorio Emanuele III (1869-1947, sul trono dal 1900) a chi gli chiede di revocare Mussolini risponde che i due rami del Parlamento sono i suoi occhi e le sue orecchie. Chi ne vuole la caduta deve farlo alla Camera, ove i deputati iscritti al Partito nazionale fascista sono ancora una minoranza (227 su 545).
Ma tra diserzioni e accelerazioni, il Paese sta rapidamente precipitando dalla democrazia parlamentare, fondata sui collegi uninominali a doppio turno, al governo di partito unico. La svolta ha una premessa strategica: dal 1914-1915 due forze si contendono la primogenitura del Risorgimento e della completa unificazione con la vittoria nella Grande Guerra. Da una parte i nazionalisti (nati intorno al 1908, nel clima rovente dell’annessione di Bosnia ed Erzegovina da parte di Vienna), irrobustiti dalla confluenza nel Partito Nazionale Fascista (febbraio 1923), gonfio di voti ma ancor privo di un progetto politico univoco. Dall’altra la massoneria che non a torto vanta un secolo di lotte per unità, indipendenza e libertà, dalle cospirazioni nel 1820-1848 sino ai governi che in Italia avevano introdotto elettività delle cariche, istruzione obbligatoria e codici d’avanguardia.
Tira vento di tempesta. Il 12 gennaio Mussolini deposita alla Camera la legge sull’appartenenza dei pubblici impiegati ad associazioni. Il 14 “L’Idea Nazionale”, organo dei nazionalisti, pubblica un estratto della relazione della “Commissione dei Quindici” distillata dai deputati Gioacchino Volpe e Francesco Ercole. L’obiettivo è esplicito: “Qualsiasi specie di società occulta, anche se per ipotesi il suo fine sia eticamente e giuridicamente lecito, è da ritenersi, pel fatto stesso della segretezza, incompatibile con la sovranità dello Stato e la uguale libertà dei cittadini di fronte alla legge”. Di lì a poco lo slogan sarà: tutto nello Stato, nulla al di fuori dello Stato. Poi diverrà: tutto nel partito, niente al di fuori né contro il partito, cioè l’unico consentito: il Partito nazionale fascista. Il Partito imporrà il colore della camicia, l’ingresso nel lavoro (tramite i sindacati fascistizzati) e intrupperà milioni di italiani nel Dopolavoro per controllare corpo e anime dei cittadini. Una nuova “chiesa”, non meno opprimente dell’altra, con la quale l’11 febbraio 1929 il regime “concorderà”, salvo poi scontrarsi come fatalmente accade tra dogmatismi.
In quel maggio 1925 le due principali Comunità massoniche italiane (Grande Oriente d’Italia, con sede a Palazzo Giustiniani, oggi popolato di uffici del Senato; e Gran Loggia, a Piazza del Gesù 47, nel sontuoso Palazzo Artieri) ormai navigano a vista. Il dibattito sulla legge viene calendarizzato alla Camera dal 16 maggio. Si chiuderà il 19 con approvazione pressoché unanime e alcune significative assenze non giustificate, a cominciare da Italo Balbo, “quadrumviro” della mai avvenuta “marcia su Roma” ma antico “oratore” della loggia Girolamo Savonarola della sua Ferrara e già astenutosi nella dichiarazione del Gran Consiglio del Fascismo che il 23 febbraio 1923 aveva dichiarato l’incompatibilità tra fasci e logge.
L’iniziazione massonica di un “uomo di mondo”
Malgrado tutto, mentre la massoneria è sotto assedio e le libertà individuali stanno per essere soffocate, qualcuno nuota impavido controcorrente. È il caso di Totò. È un uomo sofferente. Mentre il Tempio sta per crollare decide di passare tra le sue colonne e di sedere in silenzio fra gli apprendisti, proprio lui, parlatore forbito, mago della parola, principe dello scilinguagnolo. È tempo di guardare all’Oriente prima che la Luce venga spenta a Occidente. Il marchese De Curtis non è affatto uno sprovveduto. Sa benissimo di compiere un passo rischioso. Conta sulla riservatezza della Fratellanza. Offre la sua “testimonianza” a quel che resta dell’Italia nella quale si riconosce: quella degli uomini liberi. L’attore vive una tra le stagioni più angustiate della sua travagliata esistenza terrena. Ha ventisette anni. La madre, Anna Clemente, lo voleva prete. Lo aveva avuto dal marchese Giuseppe De Curtis, frutto di una relazione extraconiugale, e lo aveva fatto registrare all’anagrafe come Antonio Clemente “di N.N.”. Chierichetto di passo come tanti coetanei, più malinconico che giocoso, lasciata alle spalle infanzia e adolescenza tristissime, Totò fece i conti col servizio militare tra Pisa, Pescia, Alessandria e Livorno. A Cuneo non mise mai piede, ma coniò il celebre motto “Sono un uomo di mondo, ho fatto tre anni di militare a Cuneo”… cioè “in capo al mondo”, in un angolo sperduto, “ai confini dell’Impero”. Si compiacque anche di dire che vi era stato seminarista. Cuneo era un “tòpos”. Anche se aveva dato e continuava a dare i natali a politici, scienziati, storici, scrittori e militari di primaria grandezza (bastino i nomi di Vittorio Bersezio, Giovanni Giolitti, Marcello Soleri, Vittorio Cian, Ettore Pais, Balbino Giuliano, Pietro Gazzera…) era dipinta come “Beozia d’Italia”. Proprio perché non lo è e sa sorridere di sé e delle leggende che la circondano, su impulso di Gianni Vercellotti, avvocato e profeta del turismo in plaghe povere di vere autostrade, ferrovie, strade, aree attrezzate ma ricche di umanità, la “Provincia Granda” è stata al gioco e da molti anni ha costituito l’Associazione “Uomini di Mondo a Cuneo”, brevius “UdM di Cuneo”. Ora presieduta dall’esilarante vignettista Danilo Paparelli, con tanto di Totò quale emblema, viatico e “angelo protettore”, l’UdM ha appena celebrato l’ennesima edizione dedicata a D’Artagnan, il più celebre dei Quattro Moschettieri di Alexandre Dumas, che si ispirò al conte Charles di Batz-Castelmore, fuggevolmente ma effettivamente militare a Cuneo. “Uomo di mondo”, dunque. Già. Ma come era il mondo conosciuto e vissuto da Totò, uomo e non “caporale”, sino al fatidico 1° maggio 1925? Una sequenza di umiliazioni e di speranze, di sogni e di delusioni. Navigazione tra i flutti della vita con la barra a dritta ma con l’occhio alla sua Stella Polare: la libertà di pensiero (e anche un po’ di costumi). Sin da ragazzo voleva divertirsi e far divertire, procurarsi piacere e dispensarne. Intraprese la carriera di attore nella sua città, che presto però gli divenne stretta. Tardivamente riconosciuto dal padre e passato a Roma in cerca di miglior fortuna, si esibì in una “compagnia” di second’ordine, senza fisso compenso. Spiantato, spesso alla “fame nera” (come egli stesso narrò), fu licenziato in tronco quando osò chiedere all’impresario, Umberto Capece, almeno gli spiccioli per il tram da casa al teatro. Gli si spalancò dinnanzi l’abisso dell’isolamento. Optò per il varietà, di gran lunga più congeniale con le due anime che convivevano nella sua persona, il sorriso scherzoso (ma quanta malinconia nei suoi occhi) e lo sconforto più cupo. Totò divenne “la Maschera”. Incarnò gli italiani che uscivano feriti dalla Grande Guerra e si inabissavano in un regime liberticida che li avrebbe precipitati in un secondo irreparabile disastro.
La Gran Loggia dal tramonto…
Il suo nome fu iscritto nel repertorio degli “apprendisti” della Gran Loggia, annotati con la grafia tipica degli scritturali del tempo: uno svolazzante corsivo pulito pulito con cognome, nome, data e loggia di appartenenza. Gli iniziati/affiliati della Gran Loggia avevano superato largamente quota 28.000. Altri ne vennero segnati lo stesso 1° maggio. Il 19 accanto a un numero matricolare in uno spazio bianco compare la formula arcana: “Segreto”. Era il giorno dell’approvazione della nefasta legge “contro la massoneria”. Gli ingressi continuarono sino al 17 novembre 1925, cioè alla vigilia del forzato autoscioglimento decretato da Raoul Palermi mentre era in viaggio negli Stati Uniti d’America per ottenere la solidarietà dei Supremi Consigli di rito scozzese antico e accettato di cui la Gran Loggia faceva parte dal Convento mondiale di Washington (dal 1912): riconoscimento solennemente confermato a Losanna nel 1922. In Italia le logge erano perseguitate, invase, incendiate. I loro arredi e archivi venivano dispersi (anche per iniziativa di transfughi decisi a cancellare le tracce della loro affiliazione), ma all’estero l’Acacia continuava a fiorire. Il regime stesso non poté fare a meno di confrontarsi con massoni di spessore culturale e patriottismo indiscutibile: da Vittorio Valletta, Ugo Cavallero, futuro maresciallo d’Italia, Luigi Mascherpa, ammiraglio, Edmondo Rossoni (capo dei sindacati fascisti), Curzio Malaparte (tutti della Gran Loggia), Giuseppe Belluzzo, Balbino Giuliano e Alberto Beneduce (del Grande Oriente).
… alla Palingenesi e al Fulgore
Chi sapeva sapeva. Il massonismo non andava sbandierato ma vissuto. Fu quanto fece Totò. Alternò la rivendicazione del titolo nobiliare (Sua Altezza Imperiale Antonio Porfirogenito, Duca Comneno di Bisanzio, principe di Cilicia, di Macedonia, Dardania, Tessaglia, Ponto, Moldava, Illiria, Peloponneso, duca di Cipro e di Epiro..: d’altronde anche il Re d’Italia si rivendicava Re di Cipro e Gerusalemme, al pari di tanti altri sovrani in Europa) alle tournées dai successi crescenti e all’esercizio della beneficenza, praticata con discrezione e senza mai chieder conto del frutto della sua proverbiale generosità, proprio perché aveva conosciuto la miseria, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, il dolore (anche negli affetti più cari), la prepotenza esosa degli impresari, l’arroganza dei “potenti” antichi e nuovi.
Di quest’ultima ebbe un saggio nel gennaio 1945 durante una tournée in Toscana in cui presentava “Imputati, alziamoci”, un sorridente invito a un “esame di coscienza” da parte di quanti stavano rapidamente cambiando il colore della camicia, dal nero al rosso fiammante. Come in “Totò massone. Il principe Antonio De Curtis e la massoneria del suo tempo” (ed, Atanor) narra Ruggiero di Castiglione (autore di dottissimi saggi e repertori) gli si presentò nel camerino un energumeno che gli domandò a bruciapelo: “Veramente per lei camerata e compagno è la stessa cosa?” e alla risposta “Mah, non so” gli sferrò in faccia un pugno partigiano che gli spaccò le labbra”. “Spaventatissimo” per il clima di odio dilagante Totò riparò a Roma e poi a Capri.
“Resurrexit… sino al grado 33°”
Il 9 aprile seguente il “Marchese De Curtis Gagliardi Antonio” sottoscrisse il Testamento massonico nel “gabinetto di riflessione” della loggia “Fulgor” di Napoli (Gran loggia d’Italia) per l’accettazione tra i Fratelli. Alla domanda: “Che cosa dovete a voi stesso” rispose “Niente all’infuori del miglioramento spirituale”. Chi ritiene che il “re della risata” si esaurisse nell’esibizione nei teatri di tutta Italia, in un centinaio di films, spesso a costi irrilevanti, e in un profluvio di presenze televisive, non ne coglie la profondità umana, fatta di riservatezza, riflessione, tormenti appena leniti dalla compagna, Franca Faldini e dalla figlia, Liliana, che gli furono a fianco negli anni difficili dell’incipiente vecchiezza e delal cecità. Proprio alla compagna una volta accennò quasi distrattamente ai segni di riconoscimento in uso tra massoni.
Secondo Giordano Gamberini, gran maestro del GOI e collettore di memorie e confidenze di massoni di antica data e di varie Obbedienze (come Dunstano Cancellieri), nel 1944 Totò fu iniziato (o più correttamente si ridestò dal forzato “sonno”) nella loggia “Palingenesi” di Napoli per transitare poi nella citata “Fulgor”, che aveva sede in via Monte di Dio, sulla quale si affaccia Palazzo Serra di Cassano, sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, presieduto da Gerardo Marotta e ora da suo figlio, Massimiliano. Lì Totò presenziò all’iniziazione di Mario Castellani e Vittorio Caprioli. Come documentano le carte che da Piazza del Gesù migrarono al Grande Oriente con Francesco Bellantonio quando gran maestro era Lino Salvini, Totò fondò poi una loggia in Roma, la “Fulgor Artis” mentre poche e vaghe voci rimangono sulla “Ars et Labor” , forse sua reincarnazione.
Gli impegni “professionali” e qualche delusione per i poco fraterni dissensi tra la diverse Comunità liberomuratòrie e per le gare tra i diversi aspiranti a cariche apicali (quant’è difficile deporre i metalli al di fuori dei Templi) coincisero con il suo definitivo assonnamento. Aveva raggiunto il grado 30° del Rito scozzese. Il 19 ottobre 2012 la Gran Loggia gli conferì il grado 33° “alla memoria”, presente sua figlia, Liliana.
“’A Livella”
Il suo più autentico testamento massonico rimane la celebre raccolta di poesie intitolata “’A livella” (1964). Totò scelse per insegna l’attrezzo del lavoro di loggia. Sormontata dal compasso, la livella, simbolo di equilibrio, armonia e uguaglianza, forma un triangolo equilatero attraversato longitudinalmente dall’archipendolo, che coniuga il piano “terraqueo” con lo Spirito. Nel film “Letto a tre piazze” (1960) Totò si rivolse a Peppino De Filippo: durante un’immaginaria quanto allusiva “scalata” gli disse: “professò’ , la lego ad un masso…, n’ho trovato uno magnifico, questo resiste, è un bel massone, un massone”. Con una delle sue ultime partecipazioni filmiche in “Uccellacci, uccellini” di Pier Paolo Pasolini (1966), stupì tutti per la sua drammatica forza interpretativa, che gli meritò anche una menzione speciale e un nastro d’argento al Festival di Cannes. Precocemente invecchiato ma indomito, generoso con tutti (consigliò a Pasquale Zagaria di mutare il nome d’arte da Lino Zaga in Lino Banfi…), non dimenticò l’amarezza per la sua esclusione dalla televisione per aver entusiasticamente esclamato “Viva Lauro” durante una puntata del Musichiere di Gigi Riva (1958). Non era una ingenua captatio di voti pro-monarchia ma un omaggio a Napoli che, disse una volta, è l’unica vera grande città d’Italia. Roma ne è solo una “periferia”.
Si avviò alla fine senza rimpianti ma col timore di essere presto dimenticato. Invece il pubblico gli si affezionò ancor più. Capì la sua libertà di spirito. L’Italia ne aveva e ne ha bisogno. A nessuno verrebbe in mente di ignorarlo per la sua scelta del 1° maggio 1925, ribadita vent’anni dopo, il 9 aprile 1945. D’altronde nella sua originaria “Fulgor”, nella “Fulgor Artis” o nell’officina intitolata al celebre Gustavo Modena o in altre ancora delle due diverse liberomuratorie italiane si raccolsero nel tempo attori, cantanti, scrittori quali Gino Cervi, Carlo Dapporto, Aldo Fabrizi, Giovacchino Forzano, Silvio Gigli, Francesco Gorni Kramer, Amedeo Nazari, Tito Schipa, Odardo Spadaro, Paolo Stoppa, Johnny Dorelli e il Claudio Pica, noto come Claudio Villa, membro della “Propaganda massonica” n. 2, come il grande e sfortunato Alighiero Noschese: un patrimonio morale del Paese Italia. Allora, proprio l’Associazione cuneese Uomini di Mondo potrebbe forse promuovere una rivisitazione di quell’Universo in omaggio al principe Antonio De Curtis, il Totò del quale ben si può dire “semel abbas, semper abbas”.