LA LEGGE DELLA NECESSITÀ
E dunque la legge della necessità che grava sull’umano consorzio: non ai beni più alti, non alle aspirazioni più nobili, si mira dapprima, ma a soddisfare alle necessità di ordine fisiologico e di ordine contingente, come il lavarsi, il vestirsi, ecc., attività che rappresentano un lavoro forzato, ripetuti come sono tutti i giorni, lungo e faticoso, a cui non si pon mente nel computo del lavoro quotidiano e che invece impegna le ore importanti della giornata (han mai fatto il conto, gli economisti, dell ‘enorme quantità di tempo e di lavoro che I ‘Umanità quotidianamente spende in tali improduttive occupazioni?) e che tocca non una élite ma tutti gli uomini, compresi quelli che, o per incuria, o ignoranza, o insensibilità, non curano affari superiori a quelli che riguardano la vita animale. Anche se affranti dal più grande dolore, la legge della necessità riappare in noi: è lo spirito vitale che ci sprona a vivere, che pone in movimento tutti i congegni del nostro corpo, anche contro la nostra volontà. Quando si parla della seconda vita dell’uomo, quella dello spirito, non ci domandiamo mai a quanti esseri essa è aperta e non ricordiamo come i 3/4 dell’umanità non superino, oggi, quella dei sensi, delle necessità primordiali.
In effetti la legge della necessità regola pure la vita spirituale, ed infatti il cibo dell’anima, il pan degli angeli, è vizio e droga tali che, gustatolo, non se ne potrà più fare a meno: « Non de solo pane vivit homo, sed de omni verbo qui procedit de ore Dei ». Pane, adunque, per l’esistenza fisiologica; scienza divina, per la vita dell’anima: la legge della necessità lega la terra e il cielo. D’ altra parte non vi è profondità umana o celeste, maggiore di quella del pensiero umano, che esplora e varca, d’un solo balzo, tali immensità, e che sorrda abissi ben Più paurosi e immani, eco dell’infinità che l’ha originato e annuncio dell’infinità che lo attende.
Ed ecco che una demanda pur si pone, in questo mondo del contingente: siamo
noi necessari, bastanti a noi stessi? Come può l’uomo essere necessario (e non inutile) a sé? L’ Umanità si farà più furba e più saggia, se si porrà sovente tale domanda, se il politico, il sociologo, l’educatore, il sacerdote, il padre e la madre di famiglia, il giovine e via discorrendo, si rappresenteranno la questione di come si possa essere utili a se stessi, nell’esercizio della propria professione o semplicemente nel mestiere di uomo che tutti esercitiamo.
Orbene, prima di tutto occorre essere se stessi, presenti a noi in ogni momento (il che non è facile: basti pensare che alle volte la coscienza e il buon senso si ergono a nostri giudici, per accusarci: ma che razza di bestione sono mai io? quali idee mi sono scervellate in capo? quale orecchio ho mai io prestato ad esse? ma sono io o è « un altro » ben diverso da me, che ha potuto pensare, o commettere, simili sciocchezze, stupidaggini, oscenità, iniquità? c’ è dunque un « secondo io » in noi, che opera all’insaputa o comunque contrariamente alla volontà del primo? c’è l ‘io dello spirito e l’io dell’animale, l ‘ io eterno e l’io della materia? se un conflitto sorge fra i due, qual è dei due quello che lo vince? e in virtù di che, per quali ragioni o cause, di cui la mia persona è responsabile o non piuttosto per necessita intrinseche alla mia natura terrena, da cui non posso sempre svincolarmi? Che l’educazione sia dunque proprio liberazione dall’istinto, dall’incoscienza, dagli appetiti della natura umana inferiore e che la dottrina della metempsicosi non rappresenti invero la necessità della graduale purificazione, in bagni successivi, per essere degni dello spirito divino lievitando sempre più il peso » del corpo?) . Essere « compos sui » , come ad esempio, lo sa essere una buona, vera madre, eccellente per virtù naturale, questo è il punto. Se so stare in equilibrio con le mie necessità ed i miei obblighi, sono a posto: se me ne rendo schiavo, sono in debito; e pagherò con l’aritmia della mia vita, e la conseguente insoddisfazione, angoscia, impossibilità di godere dei beni che la vita dispensa, volontà di morire nel senso della disfatta del vinto. Se all’opposto non mi faccio comprare e pago cioè quanto il corpo e la società da me reclamano, resto libero, sovrano, tranquillo, padrone di me e del mio destino, pater fortunae meae. A questo fine sì importante, vanno convogliate le forze e le capacità dell’individuo, gli uni aiutando gli altri, per « salvarsi » a vicenda. Solo se la mia risposta alla legge della necessità è piena e positiva, potrò sperare di non far naufragio in questo mondo, che è mondo della necessità perché mondo della realtà; mondo del fare perché mondo dell’essere e quindi dell’attività: mondo del riparare ai consumi perché mondo dell’usura. Per essere bastanti a sé, occorre essere in grado di giovare anche agli altri, di cui faccio parte e che sono gli altri « me stessi ». Siamo in catena: la socialità val bene questo anello, che mi congiunge al prossimo; se soddisfo alle necessità mie e del gruppo a cui appartengo, sono a posto perché « tutti siamo a posto » : in una Umanità dove si piange, non c’è posto per chi ride; in una Umanità dove si pena e si sta male, non c’è posto per chi gode: se voglio la mia felicità, mi dice Stuart Mill e l’utilitarismo, è necessario che procuri la felicità di coloro che mi stanno attorno e con i quali vengo a contatto. A tanto ci porta la legge della necessità: a vincolarci l’un l’altro, a mettere in comune le nostre sorti e i nostri beni. Essa è dunque guida e scuola di fraternità, carità, umiltà, umanità: essa è dunque da benedire, anche se significa (o forse, appunto perché anche significa) sforzo, impegno, richiamo ai valori morali e ai nostri limiti, sacrificio, bontà e offre un significato positivo, spirituale alla vita, aiutandoci a guadagnare, su questa terra l’eterna felicita in Dio