LA LUCE NELLA CABALA

LA LUCE NELLA CABALA

Michele C. Del Re

                La luce e il mondo

Le cose che ci circondano, senza luce, sono soltanto ostacoli pericolosi ed ostili; con essa il mondo prende forma ed ordine, diventa il cosmo regolato da leggi; per coglier questo non c’è bisogno di filosofia, ma basta l’esperienza quotidiana di ogni uomo, a qualunque cultura appartenga. La luce è intangibile ma presente, ritorna ogni giorno ed è inspiegabile nell’origine; da ciò, facile illazione nella mentalità pre-logica che la luce è manifestazione visibile nel mondo degli uomini e delle cose, della realtà divina ultraterrena senza forma e adimensionale; la luce dunque è il tramite tra la sfera celeste e quella sublunare, la luce dunque accompagna ogni teofania 1. Chiave di volta delle concezioni che vedono come realtà cosmica essenziale la luce, è la contrapposizione del mondo delle tenebre a quello luminoso, con due equazioni, luce-bene-vita, tenebre-male-morte.

Così, nella dottrina manichea, l’elemento caratteristico dell’essere supremo è appunto la luce, concepita come sostanza dell’essere divino. Tale sostanza luminosa, diversa dall’intelletto e dalla materialità, è espressione di Dio, “padre della luce beata” e in quanto tale, signore del regno della Luce. Ma questo regno, fatto di terra-luce e di etere-luce, si identifica, nella sua essenza, con la stessa suprema divinità, poiché esso, corpo della divinità, non è stato creato da Dio, ma è assoluto e coesistente con esso dall’eternità, è espressione della sua essenza. Se una singola parte del regno della Luce fosse nata o fosse stata creata in un dato momento, il regno della luce non potrebbe aspirare a essere assoluto. Il regno della luce non potrebbe aspirare a essere assoluto.

Il regno della Luce è illimitato da tre lati: a nord, a est e a ovest. A sud, invece, la Luce si scontra con l’Oscurità, cosicché qui la sfera di potenza del “Padre della Grandezza”, come lo chiama Mani, e l’armonia più perfetta. Le condizioni del regno delle Tenebre sono in forte contrasto con la pace che domina nel regno della Luce. Gli abitanti del mondo della Materia si scontrano, si spingono l’un l’altro, corrono pazzamente intorno. Nel suo moto vorticoso, il popolo delle Tenebre arriva, ad un certo momento, al limite superiore, dove l’oscurità confina con la luce. Guardando in alto, verso il mondo della Luce, il principe delle Tenebre e il suo popolo vengono presi da un violento desiderio di questo splendido regno e, abbandonati i loro contrasti, si consigliano sul modo di diventar partecipi della luce, di mescolarsi con la luce. I tenebrosi irrompono dal basso nel regno della Luce, così il re e padre della Luce deve difendere se stesso e il regno uscendo dal maestoso “riposo in se stesso” e dalla compiutezza del suo essere, passando da una esistenza contemplativa ad una esistenza attiva 2.

I miti poetici che si sviluppano su questa trama sono numerosi e ispirati, ma interessa comparatisticamente con il nostro tema l’idea dei due regni, dell’aggressione delle tenebre, della corrispondenza luce-bontà-essere.

Lasciando le accennate fantasmagorie del manicheismo e tacendo quelle complesse ed elaboratissime dell’emanazionismo gnostico ellenistico, ricorderò un esempio dal cuore della Palestina 3. Nella comunità di Qumran, quella conosciuta dai manoscritti del Mar Morto 4, la luce e la tenebra sono personificate: la creazione è realizzata attraverso due spiriti, quello della luce e quello del buio; su di essi è fondata ogni opera (Manuale di disciplina, 3, 25). Naturalmente questi due spiriti opereranno finché non verrà il tempo della visitazione di Dio. Il Principe della luce e l’Angelo delle tenebre, tendono a realizzare rispettivamente la giustizia-verità e l’errore-menzogna. L’Angelo delle tenebre insidia i figli della luce per portarli a distruzione. Tenebre e luce vengono così personificati, ma le denominazioni di prìncipe e di angelo, salva forse il principio monoteistico, senza aprirsi al panteismo gnostico.

Si può dire, semplificando, che la concezione cabalistica della luce si trova tra queste due estreme posizioni, ma ha caratteristiche di forte originalità. L’immagine bipolare luce/buio è chiave del cosmo nella speculazione cabalistica 5. Secondo la dottrina della Cabala, l’irraggiamento luminoso ha creato l’estensione, ha creato la dimensione terrena, operando come vibrazione ordinatrice del caos.

D’altronde, nel mondo ebraico-cristiano, la luce è all’origine del mondo e delle sue vicende. La genesi segna l’inizio dell’ordine del mondo con il fiat lux. L’apparizione della luce in apertura del Vangelo di San Giovanni, annuncia il verbo 6. La potenza creatrice precedentemente nascosta nella notte dell’inconoscibile si manifesta con il comando divino che separa la luce dall’ombra, originariamente confuse, l’epifania messianica si realizza con la luce, come la potenza divina viene espressa attraverso il potere di dominare la luce, il volto di Mosè ispirato emana una luce insostenibile, e così via.

Nella Genesi confluiscono diverse narrazioni dell’origine del Cosmo. Quella che più ci interessa è la narrazione del cosiddetto documento sacerdotale poiché in essa protagonista della creazione è appunto la luce:

    All’inizio Eloim creò il cielo e la terra e la terra era deserta e vuota e le tenebre si stendevano sull’abisso e il soffio di Eloim planava sulle acque. Eloim disse allora “che vi sia la luce” e la luce fu. Eloim constatò che la luce era cosa buona, Eloim poi separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. Si ebbe una sera, poi il mattino: primo giorno.

    Eloim disse “che vi siano delle luci sulla volta del cielo per separare il giorno dalla notte e per servire di segno alle feste, ai giorni e agli anni e che dalla volta del cielo i luminari rischiarino la terra”, Eloim pose in essere i due luminari, il più grande per il giorno, il più piccolo per la notte e poi le stelle. Eloim li distribuì sulla volta del cielo in modo tale da rischiarare la terra per comandare il giorno e la notte e per separare la luce dalle tenebre. Eloim constatò che era buona cosa. Si ebbe così un giorno ed un nuovo mattino: quarto giorno.

Nel discorso incomparabile per grandiosità nel quale Jahvé parla a Giobbe (Gb 38, lsgg.), la luce ritorna come protagonista, segno e frutto della potenza inarrivabile di Dio:

    hai mai dato tu ordine al mattino, hai mai fatto conoscere all’aurora il suo posto perché impugni le frange del mondo, ne scuota i cattivi quando tutto divenne come la rossa argilla che si tinge come un pezzo di stoffa quando ai cattivi viene ritirata la luce e il braccio che minaccia, fermato? Hai visto le porte dell’ombra? Da quale lato abita la luce e le tenebre dove risiedono, perché tu le riconduca presso di loro e tu sappia il sentiero della loro casa? 7

Arcobaleno, tra luce ed estensione

La luce si manifesta come luce raggiante, splendore, luminosità, biancore, lucore, balenio, scintillio; si diffrange nei colori. La luce, in quanto dà potere di vedere, assegna anche il potere di agire, poiché senza luce c’è soltanto incomposto movimento, non azione. Essa si manifesta attraverso entità-forme particolari come l’arcobaleno che è sostanziato di luce, ma per dir così gode già di certe caratteristiche delle cose materiali. Esso è strutturato e diviso in parti luminose diverse, è già del mondo della molteplicità, insomma. Appunto per questo l’arco celeste è un ponte tra la luce come espressione immediata, manifestazione visibile del mondo adimensionale informale e il mondo terreno fatto di materia estesa non penetrabile, non trasparente, di cose pesanti. Traccia di questa speciale realtà dell’arcobaleno sospesa tra luce e materia, è presente nel folklore: si formano diamanti e perle là dove poggia l’arco del cielo, anello di giunzione tra materia volgare e pesante e realtà celeste, secondo questo schema, che ha poi valore iniziatico:

En sof

Luce arcobaleno  perle materialità

Nella Bibbia l’arcobaleno rappresenta il ponte di salvezza: le intemperie del mondo sublunare non romperanno mai il patto di sopravvivenza che Dio vuole con l’uomo dopo il diluvio (Gn 9, 9_17): è il segno del ritorno dalla luce solo offuscata dalla tempesta, è la strada di luce solo offuscata quale Dio riversa di nuovo la sua luce sul mondo degli uomini, dopo la tempesta che ha ridato libertà sia pur limitata alle forze cieche (non per traslato, nel racconto! cieche perché non vedono, perché non contro la luce) del caos, delle acque spesse e soffocanti.

Proprio in quanto ponte tra Dio e l’uomo, l’arcobaleno simbolizza le prove della via iniziatica, quando l’iniziato si avventura a ripercorrere verso l’alto le linee di irradiazione, che si manifestano nell’arcobaleno: anche nella tradizione cabalistica è segno e via per la risalita verso Dio 8. Esso per l’uomo è un ponte stretto e pericoloso, come ogni passaggio che conduce dal greve al lieve, dalla materia ottusa e non trasparente (carente di luce) allo spirito, che non si frappone allo sguardo, ed è pertanto luminosità.

Dallo Zohar

Il cuore della Cabala è certamente il libro dello splendore, Zohar (splendore, irraggiamento) libro di segreta saggezza 9, per certi aspetti inaccessibile, che ha esercitato una immensa influenza sul pensiero ebraico e di riflesso su tutta la meditazione occidentale sui grandi problemi. “Sotto la superficie dei simboli mistici dello Zohar, i cabalisti hanno visto pulsare la vita nascosta del mondo e hanno sentito di avvicinarsi alla verità totale e profonda dell’essere” 10.

Il Libro dello splendore presenta e manifesta le idee mistiche e gnostiche della Cabala. Essa lascia da parte la filosofia intesa in senso razionalistico e realizza – senza abbandonare il richiamo costante alle fonti tradizionali bibliche, sia pure interpretate spesso in modo assai lontano dalla lettera – una visione del mondo che è madre di meraviglia, poiché anche il pensatore meno recettivo d’una cosmologia per grandi immagini, più legato ai concetti definitori e all’analisi razionale, coglie la ricchezza profonda del messaggio espresso attraverso immagini, richiami, evocazioni, colori.

E la luce inonda l’intero libro, in quanto protagonista della storia cosmica:

    All’inizio quando si manifestò la volontà del Re, egli pose alcuni segni nella sfera celeste; nel ricettacolo più segreto la scura fiamma si levò dal mistero di en sof infinito come un vapore che si forma dall’adimensionale senza forma, racchiusa nell’anello di questa sfera, né bianca né nera, né rossa, né verde, né di alcun altro colore. Quando la fiamma cominciò a prendere ampiezza produsse colori irraggianti. Dal centro più segreto della fiamma nacque una polla nascosta nel segreto di en sof, e ne uscirono colori che si diffusero su tutto quello che vi era al di sotto.

    La polla zampillò ma senza attraversare l’etere della sfera. Essa non poteva essere conosciuta prima che un punto supremo e segreto avesse fatto espandere la sua luce sotto l’azione dell’ultima frattura 11. Al di là di quel punto non si può conoscere nulla, perciò esso è chiamato “inizio”, ed è la prima delle dieci parole con le quali fu creato l’universo.

L’inizio Gn 1,1, dunque è luce incolore, vibrazione pura dell’essere, fatta di visibilità, di percepibilità che resta nascosta, finché misteriosamente non viene superata la sfera dell’en sof. La manifestazione della luce è rappresentata dalla mandorla che racchiude la persona divina e che irradia una vibrazione di raggi luminosi attorno a sé. Nella creazione ebraica, la mandorla è un punto ed è il nocciolo dell’immortalità. La luce poi prende caratteristiche particolari nella tradizione ebraica e non soltanto in quella e non soltanto nella cabala.

Il palazzo di luce

Il centro d’origine è un punto, cioè una realtà che anche secondo la geometria elementare è qui, ma non ha dimensioni. Attorno ad esso si svolgono come veli avvolgenti succedentisi, strati di luce sempre più spessa fino a concretizzarsi in materia: la luce più segreta (di una diafanità, di una delicatezza, di una purezza al di là di ogni concepibilità umana), espandendosi dal punto centrale diviene un palazzo di luce, quasi un involucro del centro. Anch’esso è traslucido ed irraggiante al di là di ogni possibilità di conoscenza. Il palazzo riveste il punto interiore inconoscibile; esso stesso è un irraggiamento ineffabile, ma ha tuttavia una sottilità e una diafanità minore del punto originale; attorno vi sono strato su strato ulteriori involucri. Ogni forma che si avvolge alla precedente è lieve, protettiva, ma più densa della precedente, stando allo strato più vicino al centro come la membrana al cervello umano; ed ogni membrana diviene come il cervello per lo strato successivo. Secondo lo stesso modello l’uomo in questo mondo associa cervello e membrana, spirito e corpo per un migliore ordine del mondo.

La luce e la storia del mondo

Nella speculazione cabalistica, non soltanto la creazione, ma tutta la dinamica storica del mondo è fatta dalla luce e dall’antiluce che sono le tenebre. È continuamente presente e attivo l’aspetto terreno della luce come l’aspetto celeste, anzi, sovraceleste. E Dio disse: “Fiat lux” (Gen 1,3). La luce originale che Dio creò è la luce dell’occhio, la luce che Dio mostrò ad Adamo, grazie alla quale fu capace di vedere il mondo da una estremità all’altra 12. La stessa luce che Dio mostrò a Davide che vedendola cantò le sue lodi “Quanto grande è la bontà che tu tieni in riserva per quelli che ti onorano” (Salmo 21,20). Questa è la luce con la quale Dio rivelò a Mosè la terra di Israele.

Alle generazioni peccaminose, quella di Enoch, quella del diluvio, quella della generazione della Torre di Babele, Dio dissimulò questa luce ed essi non potettero goderne; la dette a Mosè ma gliela ritirò quando Mosè si recò dal Faraone, gliela dette di nuovo quando andò sul monte Sinai. La luce del volto di Mosè era tale che i figli di Israele potevano avvicinarlo soltanto quando copriva il suo viso con un velo (Es 34,30).

Rabbi Isacco ha detto: “Con la creazione Dio illuminò il mondo da una estremità all’altra”. La luce poi fu ritirata perché i peccatori che sono al mondo non potessero goderne. Resta in riserva, viene serbata per i giusti come dice il salmo: “la luce è seminata per i giusti” (Salmo, 97, 11).

Questa luce sgorgò dalle tenebre percosse e squarciate dai colpi dell’inconoscibile. E proprio a partire dalla luce che fu nascosta per qualche via segreta furono formate le tenebre dei mondi inferiori dove risiede la luce. Queste tenebre sono chiamate notte del versetto “e le tenebre le chiamò notte” (Genesi, 1,5).

Il fuoco e le luci

Quando la luce prende concretezza di cosa acquista la dimensione delle cose terrene, si manifesta in fuoco e fiamma. Già la luce poteva essere pura vibrazione o esser colorata; la fiamma, ancor più della luce si diversifica. Del fuoco, Rabbi Simeone dice:

    È scritto in un versetto ‘perché il Signore tuo Dio è un fuoco divorante’ (Deut 4,4). Secondo altri sapienti, esiste una sorta di fuoco più potente di ogni altro fuoco che divora e consuma ogni altro fuoco. Così chi ha cuore di cogliere il mistero della Santa Unità di Dio, contempli la fiamma che si eleva dal carbone ardente o da una candela.

    Bisogna sempre che ci sia qualche sostanza materiale da cui si innalzi la fiamma. Nella fiamma si possono vedere due luci, una è bianca e brillante una è nera o blu. Delle due la luce bianca è la più alta e si innalza senza vacillare; al di sotto vi è una luce blu o nera sulla quale riposa la prima, come su uno zoccolo. Le due luci sono legate e indissociabili. La bianca riposa sul trono della nera. A sua volta la base nera è legata a qualche materia che è al di fuori di essa e che l’alimenta e la fa aderire alla luce bianca, al di sopra.

    Qualche volta la luce blu o nera diviene rossa ma la luce di sopra resta sempre bianca.

    La luce inferiore, nera che sia, blu o rossa, è tramite e legame tra la luce bianca al di sopra di essa e la sostanza materiale in basso. La luce inferiore per natura, è uno strumento di morte, di distruzione che consuma tutto ciò che le si avvicina, ma la luce che sta sopra non consuma né distrugge.

Con questa rappresentazione del misterioso legame e passaggio tra il mondo terreno dimensionale delle cose e la realtà suprema, la cabala da una chiave – naturalmente nel suo quadro spirituale di non facile acquisizione – per prospettare una soluzione, o per meglio dire per suggerire una lettura del problema cosmologico e cosmogonico, e di conseguenza una lettura dei rapporti tra il bene (legato all’assoluto, all’inconoscibile, alla luce) e il male legato al contingente, all’errore: due luci nella stessa candela, nello stesso fuoco, nella stessa fiamma. La luce bianca e la luce inferiore. La prima è divina, costruttiva, invariabile, non consuma né distrugge. Il Saggio commenta “ecco perché Mosè ha detto ‘il Signore tuo Dio è un fuoco divorante”, divora cioè tutto quello che è al di sotto di Lui. Ha detto il tuo Dio non il nostro Dio perché Mosè era tenuto nella luce celeste che non consuma né distrugge.

Anche la missione di Israele viene collegata a questo misterioso gioco di luci. Israele porta la luce blu a bruciare e ad aderire alla luce bianca; funge così da tramite, tra i due mondi.

Finalmente, in questa misteriosa strada delle luci colorate e poi bianca si aggiunge un’altra luce appena percettibile simbolo dell’essenza suprema 13.

La Cabala ha la sua scaturigine nell’interpretazione numerica e letterale dei simboli dell’alfabeto; essa ritrova nel nome YHVH il processo delle luci: nell’ultimo H si esprime la luce blu o nera, mentre nelle prime tre lettere è presente la luce bianca e scintillante. Talvolta l’H della luce blu diviene l’iniziale della parola che vuol dir miseria, miserabilità.

Israele, Luce blu, Luce bianca, Luce impercettibile

La sensazione, a questo punto della lettura dello Zohar, è di meraviglia incantata, di desiderio di sentirne di più, ma anche di sgomento o smarrimento intellettuale, poiché ci si rende conto della inadeguatezza, come strumento di analisi, dei termini e dei concetti della tradizione razionalistica occidentale. Le parole del saggio sembrano decadere e disperdersi col loro vorticoso gioco di luci in elucubrazioni difficilmente comprensibili, ma esercitano un richiamo alla mente, offrendo una ricchezza di senso che non permette di abbandonare il campo, quasi ci trovassimo soltanto di fronte ad una costruzione fantastica o ad un semplice gioco di esempi esplicativi.

In realtà, come è stato detto tante volte, la Cabala ha un suo linguaggio che consiste in rappresentazioni ed immagini che possono essere solo con approssimazione trasprogrammate, per così dire, nell’usuale linguaggio appreso sui banchi del liceo o comunque dai libri, legato storicamente alla filosofia del mondo greco-romano. Ma non basta. È impossibile andare al di là del significato verbale delle affermazioni cabalistiche per coglierne il senso se si pretende di interpretarle con i dati e le leggi dello sperimentalismo della scienza moderna, altrettanto inadeguato dello strumentario concettuale della filosofia aristotelica. Diciamolo in termini di cabala: se il Sole si identifica con lo spirito e la sua luce è la conoscenza diretta, mentre la conoscenza lunare è razionale e riflessa, il saggio cabalista direbbe di non limitarsi alla conoscenza diretta, mentre la conoscenza lunare, qual è certo la nostra per la sua tendenza a definire e rappresentare per quantità e forza vettoriale le cose.

La luce e il sacrificio

E le domande che si pone il saggio cabalista sono le stesse che continuiamo a porci noi razionalisti, viandanti sulla stessa strada, anche se con altri abiti mentali. Un esempio soltanto: il sacrificio, il mistero del sacrificio, perché, quale ne è il senso? La nostra logica raziocinante non dà risposta; anche nella Cabala costituisce problema cogliere il senso di questa soppressione rituale di un essere vivente. La strada alla risposta non si limita a considerazioni scientifico-naturalistiche; esso viene riportato al discorso delle luci:

    Il fumo che si eleva infiamma la luce blu che si unisce allora alla luce bianca e così la candela è tutta intera illuminata da una sola ed unica fiamma poiché è natura della luce blu di annientare quello che entra in contatto con essa in basso, il fuoco discende e consuma l’olocausto ed è questo che rivela che la Catena è completa. La lue blu aderisce in questo caso alla luce bianca divorando la carne e il sacrificio in basso. La pace regna nei mondi perché si ricostituisce la catena. Quando la luce blu ha divorato ogni cosa in basso il canto e la preghiera dei sacerdoti e di fedeli formano una catena per cui vi è una sola luce che rischiara il mondo.

Olocausto, fumo, luce blu, luce bianca. Il continuum del mondo

Insomma, il fascino che esercita lo Zohar e in genere le opere maggiori della Cabala viene da questo: nella riflessione aristotelica, tomistica e kantiana che sono fondamento metodologico prima che contenutistico della nostra cultura, e più in particolare, della nostra speculazione filosofica, i due mondi, quello della spiritualità e quello della materialità sono nettamente distintie si accetta pacificamente la dicotomia res estensa/res cogitans cartesiana quasi fosse un dogma inattaccabile.

La Cabala non crede in questa separazione e si pone alla ricercatezza attenta del legame tra pensiero e materia; tra queste due entità che vengono colte come modi diversi dell’essere, necessariamente deve esservi un ponte, una sostanza di passaggio e collegamento. Il ponte è la luce, come si è visto, luce che tra l’altro nella nostra scienza moderna ha due aspetti, energia ondulatoria e massa materiale. Sebbene io sia estremamente diffidente nei confronti di paralleli tra dati della scienza naturalistica e ricerca spirituale, è certamente soprendente questa inafferrabilità fisico-matematica della luce la quale sembra assumere nella scienza altri aspetti per così dire metafisici se è vero che nessun corpo potrebbe mai superare la velocità della luce, se è vero quindi che raggiungerla vuol dire annichilirsi, certo, questa distinzione così netta tra ciò che non si tocca e la materia comincia a sembrare meno sicura.

Idee e cose, princìpi e luce

D’altronde si ritrova in una certa tradizione collaterale, non accettata per così dire dal pensiero ufficiale, il modo di procedere intellettuale che conduce a dubitare della dicotomia del mondo. Scriveva Artaud 14, con una penetrazione del campo nebbioso di incertezza tra cose e astrazioni, che impone di riportarne il brano:

    “Vi sono veramente dei princìpi? Voglio dire dei princìpi separati e che esistono dietro le cose? O, in altri termini, gli dèi della nomenclatura pagana hanno un’esistenza meno affermata e meno valida che i princìpi di cui ci serviamo per pensare? E questa domanda ne fa sorgere un’altra: Vi sono nello spirito dell’uomo delle facoltà veramente separate?

    Ci si può del resto chiedere se un principio sia altro che una semplice facilitazione verbale; e questo riconduce alla questione di sapere se vi è qualche cosa al di fuori dello spirito che pensa, e se, nell’assoluto, dei princìpi esistano come realtà o come esseri che ripartiscono le loro energie.

    In qual misura, e per quanto in alto si risalga verso l’origine delle cose, dei princìpi, viventi come realtà separate, sfuggono a un giuoco dello spirito intorno ai princìpi? E vi sono nell’uomo stesso delle specie di facoltà-princìpi che avrebbero una esistenza distinta e potrebbero vivere separate?

    Ma se nella continuità, nella durata, nello spazio, nel cielo in alto e nell’inferno in basso, i princìpi vivono separati, essi non vivono come princìpi, ma come organismi determinati.

    L’energia creatrice è una parola, ma che rende possibili le cose eccitandole col sostegno del proprio fuoco-essenziale. E come nel mondo creato ci sono tutte le qualità della materia, tutti gli aspetti della possibilità, degli elementi che si contano per mezzo di numeri e si misurano per mezzo della loro densità, così il flusso creatore che prende fuoco a contatto con le cose – e ogni colpo di fuoco della vita sulle cose equivale a un pensiero – questo flusso negli organismi chiusi, e che vanno dalla nostra grossolanità materiale alla più improbabile sottigliezza, compone ciò che chiamiamo Esseri, e che non sono altro che dei soffi nella durata.

Le fonti del sapere

Naturalmente la cabala è lontana dalla mentalità scientifico-naturalistica anche per il richiamo costante e necessario al testo sacro, considerato fonte di scienza: oltre i testi già citati, ricordiamo che la Cabala costruisce la sua interpretazione sul buio che colpisce gli egiziani e non il popolo eletto (Es 21,23), sull’episodio della colonna di fuoco che conduce il popolo eletto fuori dell’Egitto (Es 13, 21; 14,19, 2; Salmi 78, 14) e sui brani in cui le scritture ripetutamente associano la luce con il Creatore:

    O Jahvé mio Signore hai provato di essere veramente grande; Tu ti sei avvolto nella dignità e nello splendore e la luce è il Tuo ornamento (Salmi, 14, 1-2).

    Mi apparve una figura di uomo, da quelli che parevano i suoi fianchi in su lo vedevo splendere come l’elettro, come una visione di fuoco all’interno e intorno a sé e dai fianchi verso il basso mi sembrava pure una figura di fuoco con uno splendore tutto attorno assai simile allo splendore dell’arcobaleno che appare nelle nubi in un giorno di pioggia (Ezec 1, 27, 28).

La luce del giorno (Gb 35,12,15) è la nemica dei malvagi:

    da che vivi hai tu comandato al mattino? hai tu additato all’aurora il suo posto ond’ella serri i lembi della terra e ne scacci i malvagi? si trasforma allora come la creta di un sigillo e si presenta con un vestimento ed è sottratta agli empi la loro luce e il braccio eretto è spezzato.

La luce, la luna

Nel discusso e spesso frainteso Tramonto dell’Occidente si metteva in evidenza che il senso che noi uomini del 2000 diamo ad una scultura gotica è profondamente diverso dal senso che le dava l’uomo del medio evo, nonostante che se usiamo un metro, le misure sono ovviamente le stesse per noi e per lo scalpellino medievale che si preparava a scolpire la pietra.

È lo stesso per la luce, se vogliamo. La luce per noi è necessariamente inquadrata in un mondo di scienza naturale necessariamente inquadrata in un mondo di scienza naturale per il quale deve avere delle spiegazioni galileiane, mentre nella visione cabalistica la luce ha valore come si è detto di anello di congiunzione tra il mondo senza dimensioni o informale e il mondo delle tre dimensioni.

In quel quadro di idee, è profondamente erroneo parlare di simbolismo della luce, se per simbolo si intende una sorta di appiglio analogico per spiegare un fenomeno. La luce è un segno, e attraverso il momento intuitivo, proprio dell’arte ma non ad essa esclusivo, arriviamo anche noi a cogliere il senso della luce, senso restato vivo in alcune espressioni apparentemente insignificanti del nostro parlar quotidiano.

Certo venire alla luce (per nascere) è espressione in cui luce è qualcosa di più della gelida lampada elettrica della sala parto odierna. Chi dice luce del volto, o racconta la gioia dell’uomo dicendo gli si illuminò il volto vuol esprimere certamente qualcosa di più del fascio di luce di un riflettore da teatro. Mille altre espressioni ritrovano questa luce come momento di penetrazione dello spirituale oltre la soglia della materia.In questa visione della luce, non così aliena alla nostra Gestalt spirituale, l’aspetto più ambiguo e di più difficile interpretazione è quello del buio della notte, (del quale fa parte, anche se per schiarirlo) la luce della Luna, luce sì, ma inestricabilmente connessa alle tenebre.

In questa visione si inserisce l’antica tradizione della Luna la quale nei tempi più antichi quando riappare durante il mese scatena la gioia dell’uomo, sicché nel Talmud si parla della Luna che si rinnova e si ricorda che i buoni un giorno ringiovaniranno come fa la Luna; poi la meditazione si sposta sulla deficienza della Luna nell’alternanza delle sue fasi, tanto che in una spiegazione del Talmud, si afferma che Dio ha menomato la luna che originariamente aveva la stessa luminosità del Sole. Dio proclama di sacrificargli una vittima, in espiazione del fatto che Egli ha ridotto la Luna 15.

La Luna come la Shechinah come la Luna riacquista la luminosità e poi decade di nuovo fino a uno stadio di completa oscurità, di povertà. La redenzione potri riportare la luna ad uno splendore originario. È insomma la luce della Luna quella più vicina alla luce della grande crisi del distacco di Adamo dal Creatore e dal suo giardino. La perfetta scomparsa della luna rappresenta la discesa nelle terre dell’esilio e l’esperienza dei terrori. La Luna nuova è anche il momento però in cui inizia la meditazione sul Messia, che nella visione cabalistica è evidentemente riconquista della luce:

    Da nord si eleva il vento, una scintilla scaturisce dalla forza del nord dal fuoco di Dio e colpisce sotto l’ala l’Arcangelo Gabriele e il suo grido sveglia i galli a mezzanotte. Da quel momento fino all’alba il pio si dedica allo studio della Torah.

Ed è l’ora della Luna, la mezzanotte, contrapposta al mezzogiorno, quella in cui si svolge una veglia praticata dal circolo dei cabalisti dello Zohar 16: a mezzanotte Dio entra in paradiso per andare a passeggio con i giusti, a mezzanotte si svolge un dialogo, che giunge fino all’unione mistica, tra Dio e la Shekinah.

Il riflesso di luce

Nello Zohar il processo della creazione corre dall’assoluto purezza immateriale alla progressiva materializzazione del mondo. Nella dottrina lurianica, in ogni livello della emanazione si ritrova non soltanto la luce diretta, la luce che proviene dal centro luminoso dell’en sof, ma anche la luce diretta, la luce che proviene dal centro luminoso dell’en sof, ma anche la luce che proviene dal centro luminoso dell’en sof, ma anche la luce riflessa in direzione opposta, la luce riflessa dunque risale, per così dire lungo la catena della emanazione, cioè tende a ritornare all’originale sorgente. In ogni sefirah esiste quindi un doppio corso della luce. Se il raggio viene filtrato verso il basso, dal basso però viene un riflesso verso l’alto. La struttura globale del mondo dell’emanazione come di ciascuna parte di esso dunque è costituita dalla simultanea attività della luce diretta e della luce riflessa.

La ritrazione consiste nel fatto che prima ancora di porre in essere l’universo da sé stesso attraverso l’emanazione di luce, il creatore compie un ritrarsi da sé stesso in sé stesso e si crea quindi uno spazio vuoto. Questo spazio vuoto (infinitesimale per en sof) è invece l’immensità tridimensionale nella quale si realizza l’intero en sof, nel sistema lurianico diviene un punto di vuoto; l’idea della ritrazione e della luce riflessa, aspetto uguale e contrario alla luce primordiale, fa parte dell’essenza divina. Forze, luci ed attributi destinati ad esser resi manifesti più tardi (includendo anche le forze di risposta, di pietà e di giudizio) erano già presenti in uno stato indifferenziato di realtà indistinta all’interno di en sof, ove pietà e giudizio sono naturalmente soltanto le radici nascoste e potenziali delle forze corrispondenti che divengono manifeste ed esistenti nel mondo: “la radice del divino giudizio non era riconoscibile come tale, era dissolta nell’abisso infinito dell’essenza divina come un grano di sale nell’oceano”.

Come il popolo va in esilio, così en sof si ritrae; nello spazio vuoto lasciato dalla sua luce creatrice, che illumina lo spazio primordiale della creazione e agisce sulla residua che mette in movimento il processo cosmico secondo la struttura ordinata delle dieci Sefiroth.

La dottrina della ritrazione è basata – come scrive Scholem – su un’asserzione semplice, crudamente naturalistica: come è possibile per il mondo esistere se l’en sof, la divinità infinita l’occupa tutto quanto? Se la luce di en sof si trova in ogni dove, quale spazio resta? Evidentemente Dio, nel proiettarsi al di fuori riduce, ritrae la propria nascosta essenza. Il processo di ritrazione e di emanazione è l’ultima realtà della creazione. I due princìpi, le due forze, agiscono e reagiscono per cui si può in qualche modo pensare ad una sorta di ritmico respiro del Dio vivente attraverso appunto il chiudersi e l’aprirsi, il ritrarsi e l’emanare.

La suprema manifestazione prodotta dal primo raggio di luce, cioè dalla linea diretta che penetra nello spazio primordiale è l’uomo primordiale Adam Kadmon. Da questo essere che non è niente altro che il modo di esistenza delle luci naturali dello spazio primordiale si formano varie luci con un processo che è descritto in termini simbolici come spezzare i vasi o morte di re.

Per cogliere il senso di questi termini è necessario far presente che il vaso è il contenitore usato dall’artigiano e quindi le Sefiroth sono vasi contenitori, nel senso che sono gli strumenti usati da Dio emanante nel processo della creazione 17.

Luce attiva e luce resistente

Elaborata da Natan di Gaza che riprende la dottrina lurianica dello zimzum insistendo su alcuni aspetti della luce. All’inizio in en sof vi sono due specie di luci o aspetti che possono essere chiamati attributi in senso spinoziano. La luce pensante e la luce non pensante. La prima è diretta, è focalizzata allo scopo della creazione, ma nella infinita ricchezza dello en sof – scrive Scholem – ci sono forze o princìpi che non sono diretti alla creazione e il cui unico scopo è sapere che cosa essi sono e restare dove sono.

Questa è la luce non pensante che è estranea al processo creativo.

Quando per la formazione del processo di nascita dell’universo distinto da Dio, la luce pensante si ritrae per lasciar spazio alla creazione stessa, alle altre essenze, la luce non pensante che rimane nell’assoluto totale perché non ha preso parte alla dinamica creativa, resiste per così dire, si oppone, fa da inerzia nei confronti del trattamento negativo e allora attraverso un paradossale meccanismo essa diviene ostile e distruttiva quindi il potere del male è in definitiva fondato e non radicato nella luce non creativa di Dio. La dualità della forma e della materia prende dunque un nuovo aspetto, ambedue sono fondate in Dio. La luce non pensante non è male in sé stessa ma prende questo aspetto perché si oppone all’esistenza di ogni cosa che non sia en sof e pertanto è posta, si pone a distruggere strutture prodotte dalla luce pensante. Così l’infinità riempita con la luce non pensante, mescolata con qualche residuo della luce pensante restata dopo zimzum è chiamata Golem, la materia primordiale senza forma. L’intero processo della creazione procede pertanto dalla dialettica di due luci, in altre parole attraverso la dialettica praticata nel vero en sof.

Così la luce senza pensiero costruisce strutture di sua propria natura, il mondo demonico il cui solo intento è di distruggere che cosa la luce pensante ha prodotto. Queste forze sono chiamate i serpenti che si svolgono e si avvolgono nel grandi abisso. I poteri satanici chiamati nel Zohar sitra ara, ‘altra parte’ non sono niente altro che l’altra luce dell’en sof.

Dunque anche la dottrina così elaborata di Sabatay Zevi evidenzia il grande problema della sussistenza del male, ma per la prima volta esso viene visto come una parte di Dio cioè la parte che si oppone alla creazione non quindi come un principio creato, come accade nel cattolicesimo e nel cristianesimo in genere, non quindi come nella gnosi dualistica nella quale ha capacità di Dio anche il male e soltanto al di là dei due poteri si pone la abraxas inconoscibile che in quanto è il tutto non può non comprendere ogni forza.

Dunque la resistenza della luce senza pensiero alla attualizzazione della luce che contiene pensiero deriva dal fatto che l’unico impulso della luce senza pensiero è quella che niente esista all’infuori di en sof. Ad ogni stadio della creazione si rinnova la lotta tra le due luci.

Per la dottrina della contrazione nel pensiero lurianico “egli contrasse la sua luce quasi come un pugno in concordanza con le sue proprie misure e il mondo era lasciato nel buio e in quelle tenebre egli innalzò rocce e acque scure. In altri termini la creazione non viene intesa come concentrazione di un potere di Dio in un luogo, ma come ritrazione da un luogo. Il luogo dove egli si ritira è puramente un punto a paragone della sua infinità ma comprende dal nostro punto di vista ogni livello di esistenza sia spirituale sia corporeo. Questo punto è lo spazio primordiale chiamato tehiru 18.

Ma il punto dal quale Dio si è ritratto ha in sé un residuo per così dire di luce che è come la goccia d’olio che resta nella bottiglia quando essa è vuota e la hyle la materia prima su cui si svolge la creazione è proprio questa, rescimu, questo residuo del fondo della bottiglia.

Per la dottrina più comune 19, viene lasciato uno spazio libero e questo spazio libero è riempito da un raggio di luce dell’en sof; là, per forza naturale si crea l’Adamo che precede tutta la creazione. Lo sviluppo avviene in forma di circoli concentrici e questa luce è lo stesso en sof o è una sostanza diversa. I cabalisti distinguono le loro posizioni, ma su ciò rinviamo alle analisi storiche della cavala, limitandoci a dire che dall’Adam Kadmon creatosi si proiettano luci, alcune onnidirezionali, sfericamente irraggiantisi, altre che procedono linearmente, come raggi unidirezionali; queste si concretizzano poi nella forma delle lettere. Si collegano così due aspetti tipici della speculazione cabalistica, quello relativo ai segni alfabetici e numerici con quello della luce.

Le Sefiroth

I cabalisti pongono dieci forze operative, Sefiroth, di natura divina emanate (ma il termine è già troppo definitorio); l’energia di ciascuna delle Sefiroth si rivolge verso l’alto attraverso la pietas cabalistica positiva e verso il basso per la forza negativa del peccato. Questa è la linea di fondo della dottrina segreta.

Per denominare e descrivere le Sefiroth vengono utilizzati i termini allegorico simbolici, biblici e della tradizione rabbinica. L’intera Bibbia ebraica non è più studiata come narrazione storica, bensì viene interpretata – decifrata, se così si può dire – come velata esposizione del processo dinamico delle Sefiroth. I simboli delle Sefiroth sono numerosi e variati nella Cabala classica che poi si ricollega al libro dello splendore.

Nel mondo, che è immagine somigliante a Dio, le Sefiroth costituiscono una costellazione che ripercorre la forma umana 20. Al di sotto v’è il mondo degli esseri singoli, il mondo degli angeli e degli spiriti, poi il piano dell’essere materiale. Il processo della emanazione conduce dunque dall’unità al molteplice. Il senso e lo scopo della meditazione e della prassi cabalistica è appunto la risalita fino all’unità ripercorrendo i gradi della emanazione.

L’attesa messianica

Nella Cabala, nel tardo medio evo e dell’evo moderno l’attesa messianica prende sempre più spazio e l’uomo spera che la fine della storia possa essere in qualche modo sollecitata se non provocata dall’uomo con le grandi operazioni cabalistiche. Da questo orientamento operativo, si svolge in alcuni circoli una volgarizzazione semplificativa; dalla dottrina segreta nasce una nuova generale teologia ebraica, talvolta con aspetti superstiziosi e/o di magia operativa 21, la cosiddetta Cabala pratica.

I cabalisti come Luria e i suoi discepoli esercitano un notevole influsso in questo senso. Il tema dell’origine del male, del destino dell’anima, specialmente il problema del Messia, luce che si espone alle tenebre, è al centro degli interessi. Dopo il movimento messianico forte e tragico dei Sabatiani del 1600, lo studio della Cabala ritorna ad essere compito di circoli ristretti, anche se gli eventi storici vengono spesso interpretati da molti credenti sulle tracce dei principi cabalistici 22.

Luce di paradiso, luce di cabala

Non prendo posizione in questa sede, per non perdere il filo del discorso, sui problemi dei rapporti tra la speculazione cabalistica e le concezioni di Dante, che hanno fatto versare fiumi di inchiostro per l’eventuale iniziazione di Dante alla setta d’amore; certo il modo in cui Dante presenta la parte alta del cielo dove v’è sublime contatto tra Dio e la realtà del paradiso (che non è fuori del mondo, bensì fa parte di un continuum fino all’altro polo, quello satanico), è quanto meno di una analogia impressionante con la visione dell’en sof e del mondo che intorno all’en sof si raccoglie. Resta naturalmente la distinzione di fondo per la quale Dante si preoccupa costantemente di parlare di creazione esterna, di distinzione netta, di distanza infinita tra creato e creatore, mentre questa distinzione non è così chiaramente proclamata nel pensiero della Cabala, poiché le creature sono scalarmente meno divine, per dir così, quindi non sono sentite così diverse da Dio, tanto che si arriva, come s’è detto, nella Cabala Lurianica, a vedere un movimento di ritrazione dell’assoluto per lasciar spazio alla sua creatura, in un eterno respiro del cosmo Dio/universo.

Nel canto XXVIII del Paradiso, Dante vede “un punto quindi che irraggiava lume acuto / sì che il viso che egli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume”. Intorno a questo punto che irradia luce così potente che l’occhio si abbaglia e deve chiudersi a causa della intensità, intorno a questo punto che non ha dimensioni, si avviluppa un alone che è un cerchio di fuoco che gira con velocità immensa e poi successivamente si presentano i diversi cerchi angelici che in qualche modo sono sempre più – se si vuole – materiali tanto che aumenta la loro grandezza e diminuisce la loro velocità e luminosità. La struttura cosmologica, come si vede, ha parecchi punti di consonanza con quella dell’alta Cabala 23.

Di solito, invero, si pone l’accento sulla organizzazione geometrica di questo mondo dantesco. Sembra particolarmente significativo, invece, questa proiezione della luce dal punto luminoso di Dio, senza dimensione, alle diverse forme di realtà.

E l’accostarsi di Dante a Dio è ripercorrere verso l’alto la strada delle Sefirot, se si accoglie l’analogia cabalistica. Nel canto XXX del Paradiso, alla soglia dell’empireo nell’incerta attesa “immersi nel silenzio più profondo e in una luce che ha il carattere indefinito di quella del cielo prima dell’alba”, Beatrice annuncia che Dante è uscito dal primo grande cielo per entrare nell’empireo che è pura luce, l’occhio viene dapprima abbacinato, poi acquista forza visiva incommensurabilmente superiore, per cogliere Dio 24.

Nella visione dantesca, il passaggio tra il creatore ed il creato, quindi (in terminicabalistici) il contatto tra l’en sof e ciò che è al di fuori avviene attraverso il fulgore, fulgore che non è puramente intellettuale ma è di partecipazione, tanto che viene definito come amore, come compresenza.

Dante con una nuova ‘luce degli occhi’ vede il mondo come lume “in forma di rivera / fluvido di fulgore infra due rive / dipinte di mirabil primavera”. È inutile certo ripercorrere le dottissime disquisizioni teologiche che si sono svolte attorno a questi punti.

    Lume è lassù che visibile fece

    lo creatore a quella creatura

    che solo in lui vedere ha la sua pace.

    e si distende in circular figura

    in tanto che la sua circonferenza

    sarebbe al sol troppo larga cintura.

    Fassi di raggio tutta sua potenza

    riflesso al sommo del mobile primo

    che prende quindi vivere e potenza.

Una visione, quella dantesca, della gerarchia degli esseri, dal punto sublime adimensionale tutto-luce, agli astri sublimi, alla umanità anelante al cielo, al mondo organico sottoposto a ferree leggi, alla bruta materia disorganizzata, lontana dal punto centrale, tenebrosa. Così questi versi difficili e apparentemente lambiccati a prima lettura, diventano di chiaro significato una volta che si tenga presente la dottrina cabalistica: luce come sostanza e come energia trasmettitrice del potere, della verità, della vita.

Il senso odierno della cabala

Ma qual è il senso di quel ‘modo di pensiero’ (così definirei la cabala; infatti metodo è un modo che richiede una procedura prestabilita, atteggiamento è troppo poco determinato in senso finalistico conoscitivo) per il nostro Zeitgeist che dà forma all’attuale figura di mondo?

“Il nostro mondo, scriveva Sergio Quinzio 25, è ormai radicalmente secolarizzato, carico di tecnica, di nichilismo e quindi assolutamente disincantato”. Quanto scrive non vale per il mondo spirituale percorso da forze non soltanto geometriche e secolari, ma è vero per la nostra scienza, che addirittura si va disumanizzando (staccandosi dall’uomo, in senso proprio, non solo inaridendosi!) visto che la ricerca sfugge sempre più all’essere umano per essere praticamente portata avanti dai computer.

Quale che sia l’estensione del fenomeno, vi è una alternativa a questo totale disincanto, che teniamo per vero perché efficace fondamento d’una scienza potente ed operativa qual è l’attuale, ma paradossalmente vissuto come menzogna perché assolutamente non appagante?

Una delle possibili alternative è certamente quella del reincanto, quello della rilettura in chiave di forze affascinanti (direi: di magia) dell’immenso universo; è la strada che viene seguita dalle mitologie dei nuovi gruppi religiosi, sorgano essi fuori o all’interno delle grandi religioni.

Il pensiero mitico

Ma forse vi è una terza strada tra il pensiero disincantato e la visione magica del mondo. La terza strada – seguo ancora Quinzio che si ispira a Givone – la terza strada è il pensiero tragico, il pensiero mitico nel quale sussistono conflitti e contraddizioni. “In tale pensiero incanto e disincanto, tecnica e poesia, identità e differenza, finito ed infinito, vengono pensati insieme. In realtà è la grande strada imboccata da Hölderlin e da altri autori che hanno sentito questa tragicità del pensiero; se la verità implica il suo contrario, se può convivere il momento dell’incanto col momento del nichilismo e della tecnica secolarizzata, resta la gioia dell’osservazione che è nel fondo anche di ogni tragedia”.

Sotto questo profilo, riprende senso la via della Cabala come visione della luce che si diffonde nel cosmo che anzi costituisce il cosmo, in qualche modo restringendo addirittura il posto di Dio; non si tratta di ridurre col godimento estetico l’ansia, essenziale all’uomo, d’osservare, di sapere; piuttosto, a questo nostro tragico pensiero nel quale convive la nostalgia del mondo incantato, la tecnica e il nichilismo, la cabala può dare l’intuizione meravigliosa dell’armonia del cosmo, ritrovare il cantuccio lasciatoci da Dio nel suo ritrarsi, che nulla gli toglie (ritrarsi di un punto adimensionale, non riduce lo spazio di Dio), ma dona a noi un espandibile universo.

La Cabala e il suo fiorire di luci presenta un mondo – l’espressione è di H. Corbin in il paradosso del monoteismo – che può essere indicato come mondo immaginale. In qualche modo, riassume Quinzio, “tra il mondo della percezione sensibile e il mondo astratto dell’intelletto c’è l’intermondo dell’immagine, luogo dove i corpi si spiritualizzano e gli spiriti prendono corpo, luogo del realismo visionario della manifestazione teofanica”.

Soltanto quando ci si rende conto dell’esistenza degli angeli, cioè l’esistenza delle gerarchie divine, se vogliamo, delle Sefiroth, si ritrova la controparte celeste dell’uomo, quella archetipica angelica.

Devo confessare che Corbin per me esplicita una sensazione che ho sempre provato nel pensare ai massimi problemi: il monoteismo esoterico (chiamiamolo filosofico, per approssimazione; forse razionalistico?) è in qualche modo ancora idolatrico in quanto vuole afferrare Dio e la sua forza (che anzi, propriamente non è ancora forza e luce, è pre-forza e pre-luce: ha/è in sé forza e luce), vuole com-prendere l’assoluto trascendente e inconoscibile, come se fosse un oggetto osservabile ed apprensibile. Sotto questa prospettiva non appare così paradossale e assurda la tesi della necessità degli angeli, sostenuta dal Corbin nel suo paradosso 26.

In altri termini, si può ritrovare attraverso la luce della Cabala, quella natura che oggi è soltanto un oggetto di preoccupazione per gli esiti catastrofici che minacciano la vita, ridotta dunque a strumento tecnico della nostra salute, vagheggiata come un ambiente ‘pulito’ in cui abitare comodamente e senza pericoli.

Forse dobbiamo ritrovare, attraverso la via della tenebra e della luce, quel senso “di tremebonda venerazione, di sacra paura di fronte al maestoso, insondabile mistero della potenza soverchiante della natura, in cui vita e morte, ordine e sopraffazione si alternano e si mescolano senza fine”.

Ma non è più possibile, secondo Quinzio, raggiungere questa meta. Io credo invece che la battaglia contro la disperazione tecnica, la disperazione nichilistica che ci sovrasta, possa avvenire in questa fine di millennio proprio con l’arma della contemplazione – contemplazione critica, consapevole dello stridore con gli assiomi della nostra scienza/tecnica potentissima – della luce della Cabala che in questo mondo fatto soltanto di forze insensatamente operanti, cieche e solo causalistiche, ci racconta di un Dio che ritira un poco il suo luogo, per lasciare un angolo dell’immensità anche all’uomo, all’interno dell’assoluto en sof. E quest’angolo, Egli inonda di luce, di stelle, d’arcobaleni.

Beninteso, lettore che mi hai seguito lungo la strada del pensiero tragico o mitico, non parlo di ingenua fede, così difficile per il nostro Zeitgeist critico (il grande Pan è morto, e non soltanto il grande Pan), ma di un impegno esistenziale. Mi accontento di fronte al mistero, di un commitment guardingo, fondato sulla certezza che il raggio di luce non ha soltanto fotoni e vibrazioni, ma è anche lume degli occhi. Questo, la fisica quantistica non può togliercelo, né può toglierci gli arcobaleni, le stelle, i luminari del cielo 27.

Note

    Benoist K., Signes, symboles et mytes, Parigi 1978: La luce è dunque energia: nelle credenze del sufismo il cuore dell’uomo è come una lanterna di vetro nel quale si trova la sua coscienza più segreta sotto forma di una lampada accesa dalla luce dello spirito. Per un dotto esame biblico e storico-teologico dal punto di vista cattolico, vedi J. Ratzinger, Licht, in Handbuch theologischer Grundbegriffe, Monaco 1970.

    Widengren G., Il manicheismo, Milano 1964.

    Rinvio a Raffaello Del Re, in E. Zeller e R. Mondolfo, La filosofia dei Greci, Firenze 1979.

    Shubert K., The dead sea community, Londra 1960.

    La Cabala – propriamente ricezione, tradizione – espressione originale del pensiero, designa un orientamento speculativo che si sviluppa nella cultura ebraica del sud della Francia, della Spagna del nord, dal tardo XIII secolo.

    Essa si fonda su una visione del mondo che in prima approssimazione può essere definita neoplatonica ma che comunque viene sviluppata con riferimento costante alle fonti tradizionali, la Bibbia, il Talmud e la Midrach; la ricerca cabalistica vuole rispondere alla domanda ultima, quella che chiede di spiegare, di mostrare ed anche di giustificare il rapporto tra la realtà assoluta trascendente (en sof) e il mondo che ci circonda contingente e pieno di difetti.

    Mi limito a richiamare l’opera di Sholem G., Kabbalah, New York 1988, con riferimenti alla amplissima letteratura.

    l Vangelo giovanneo viene letto spesso in termini assai vicini a quelli della cabala; v’è naturalmente da intendersi, poiché negli autori cristiani si tratta la luce come simbolo più che come segno, come immagine non come realtà. Resta l’obiettivo fatto che Giovanni vede la storia cosmica come lotta tra luce e tenebre. “La vera luce è una energia increata vivente che ritma i giorni della nuova genesi, Dio è luce (Gv 1, 5-7); Essa si irradia per l’azione di Gesù, come l’energia-luce si irradia nel mondo materiale per mezzo dei grandi luminari (J. Goettmann, Saint Jean, évangile de la nouvelle Genèse, Parigi 1982).

    P. Teilhard De Chardin, La messe sur le monde, scrive: “siamo dominati dall’illusione tenace che il fuoco sorge dalla profondità della terra… si deve rovesciare la visione… All’inizio non c’era il freddo e le tenebre, c’era il fuoco, spirito bruciante, fuoco fondamentale e personale, è la luce preesistente che pazientemente ed infallibilmente elimina le nostre ombre”.

    Cfr. Bottero J., Naissance de Dieu, Parigi 1986; Nordio M., (a cura di), La genesi, Milano 1977.

    Benoist, Signes, cit., 58. Budda si manifesta nel mondo degli uomini discendono i sette gradini, i sette colori, dell’arcobaleno.

    In Zohar, The book of splendor, New York 1990, una scelta curata da G. Sholem.

    A. e K. Toaff, Il libro dello splendore (scelta, con introd.), Pordenone 1994.

    Questo punto primordiale è stato spesso riportato all’atomo di massa nulla e di energia infinita del big-bang, che la scienza fisico-matematica pone all’inizio temporale del mondo. Nonostante il fascino di questi parallelismi, mi attengo al principio che si tratta di espressioni che hanno unità di misura tra loro incommen- surabili. Potrei aggiungere che le teorie scientifiche cambiano per adattarsi alle nuove scoperte, le immagini come questa della luce segreta sono immutabili nella loro capacità evocativa.

    In un discorso di Gesù (Mt 6, 22-23) si segue la tradizione (presente anche in altri passi del Vangelo) della luce. “L’occhio è lume del corpo, se dunque l’occhio tuo è sano tutto il tuo corpo sarà illuminato, ma se l’occhio tuo è guasto tutta la tua persona sarà illuminato, ma se l’occhio tuo è guasto tutta la tua persona sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che in te è tenebre, quanto grandi saranno queste tenebre?” In tale brano no solo si richiama la dicotomia tenebre-luce, ma si considera ovvio un modo di intendere la luce cui la cabala darà grande rilievo operativo: l’occhio non è solo recettore passivo ma è esso stesso lume per la persona, è un anello della lunga catena che dalla spiritualità dell’en sof conduce allo spessore materiale delle tenebre fitte.

    La scienza naturalistica è partita dalla stessa osservazione della fiamma, che effettivamente si divide in parti diverse, più o meno calde, più o meno vivide di luce. Naturalmente queste parti della fiamma sono determinate dalla percentuale d’ossigeno, dai moti convettori, etc., basta accendere un becco Bunsen e variare il rapporto conbustibile / comburente per rendersene conto. Le risposte di chi non si limita ad osservare la fiamma soltanto come addensamento di particelle in combustione sono due: la fiamma è soltanto una immagine analogica, che permette di comprendere per somiglianza il processo spirituale; questa è la risposta spiritualistica, per la quale la fiamma è un esempio come un altro. Per la cabala, la spiegazione scientifico – naturalistica è una descrizione, una definizione; la realtà della fiamma è quella del ponte tra adimensionale e dimensionale.

    Artaud A., Eliogabalo, l’anarchico incoronato, Milano 1977.

    Scholem, Kab, 186 sgg. Quando la Luna era collegata al Sole, essa era luminosa di luce propria. Quando si separò dall’astro del giorno, l’impero delle sue proprie regioni, il suo rango nella scala degli esseri divenne inferiore e così pure la sua luce.

    Scholem, Kab, 187.

    Il sabatianismo, sconvolgente e tragico movimento messianico che al di là degli esiti storici arricchì d’un fermento di idee la religiosità mistica (G. Scholem, Sabatai Sovi, il messia mistico, Princeton 1989) si fonda sull’idea della ritrazione e ristorazione, della cabala Iurianica: il messia riconduce lungo il sentiero di luce alla realtà suprema. L’abiura di Sabbatai per taluni discepoli rientra in questo flusso e riflusso di luci dirette e riflesse.

    Scholem, Kab, 129.

    Scholem, Kab, 231.

    I Sefirah, corona è la suprema manifestazione della divinità trascendente, è volontà e pensiero di Dio, II Sefirah è la saggezza divina, la ancora indifferenziata idea della Torah, III sinistra è la intuizione, meglio dire penetrazione, nelle idee dei segni numerici e letterali; essa ha già una nota di concretezza, poiché manifesta l’essere nei simboli alfabetici, La triade dei più alti Sefiroth costituisce una unità in sé. Le sottostanti sette Sefiroth si suddividono sotto questa triade in una colonna destra, sinistra e media. IV destra Abramo, assoluta Grazia, V sinistra Isacco la assoluta forza; Vi Giacobbe la Torah scritta, la VII di destra e l’VIII di sinistra hanno minor portata, IX e X si trovano di nuovo sulla colonna del centro, XI è la legittimità, cioè la colonna del mondo, il princìpio maschile, mentre X, signoria regale, rappresenta la comunità di Israele, la Torah centrale, il princìpio femminile.

    Per la cabala numerologica, rinvio a M. C. Del Re, La divination informatique, Parigi 1994.

    Per la comprensione del movimento che sembra abbia ritrovato forza e significato nella teologia della terra promessa di alcuni gruppi israeliani, rinvio ancora, in prima istanza, alla ricerca di Scholem, 1897-1992, ricca di informazioni e sensibile al messaggio della linea di pensiero cabalistica. È restaurazione della base della fiamma che porta all’ineffabile luminosità, o è soltanto un aggregato politico? Ma non questo il tema che ci siamo proposti.

    Richiamo soltanto le classiche ricerche di Gabriele Rossetti, La Beatrice di Dante, Roma 1988, riedita dalla Atanòr, che meritoriamente ripubblica classici altrimenti introvabili; L. Valli, Dante e i fedeli d’amore, Roma 1928.

    Ricominciò: Noi siamo usciti fore

    del maggior corpo al ciel che è pura luce,

    luce intellettual piena d’amore.

    Come subito lampo che discetti

    gli spiriti visivi sicché priva

    dall’atto l’occhio dei più forti obietti,

    così ne circonfulse luce viva

    e lasciommi fasciato di tal velo

    nel suo fulgor che nulla m’appariva.

    Sempre l’amor che queta questo cielo

    accoglie in sé con siffatta salute

    per far disposto a sua fiamma il candelo.

    In Radici ebraiche del moderno, Milano 1990, p. 178.

    Quinzio, Radici, 164.

    “Immaginosamente, la luce gnostica, la coscienza dei sensi, è ben altra cosa dalla combinazione di fotoni, dalla luce fisica. La luce gnostica è una illuminazione per partecipazione al senso. I fotoni apportano la luce soltanto ad un essere illuminato o illuminabile dalla partecipazione al senso e alla propria memoria del senso. I fotoni non hanno in loro stessi niente di luminoso, lo spazio se non coltooda occhi viventi è altrettanto buio del centro della terra, anche se è pieno di informazioni in ciascun angolo… Qui dovrei aprire il discorso sulla scienza neo-gnostica, per la quale, almeno per ora, rinvio a R. Ruyer, La gnosis de Princeton, Parigi 1974, dal significativo sottotitolo, des savants à la recherche d’une religion. Anche nella tradizione cattolica e ortodossa troviamo però interpretazioni assai vicine allo spirito, mi sembra, della luce cabalistica, salva l’idea del Cristo come persona. Commentando il passo giovanneo Egli è la vera luce, che illumina ogni uomo, venendo nel mondo, versetto che per la sesta ed ultima volta usa iltermine ‘luce’ (“secondo un procedimento giovanneo, il sesto e ultimo uso d’una parola essenziale designa il Cristo nell’attività che dà il suo senso all’insieme del testo), J. Goettman, cit., scrive “figlio del padre delle luci, luce di luce, il verbo è fonte e legge di tutte le altre luci, Egli luce increata, luce autentica… La luce, che era nel mondo creato da essa, viene nel mondo presso i suoi, quindi 1 – la luce fisica fotonica è materia, 2 – la luce di vita che ci permetta di vederla è l’intelligenza, 3 – la luce del verbo incarnato è quella reale, che sconfigge le tenebre.

Zenit Indice

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