PULCINELLA: SUE TRACCE ATTRAVERSO I MILLENNI

PULCINELLA: SUE TRACCE ATTRAVERSO I MILLENNI

di I.P., Secondo Diacono

Cercherò, in questa indagine quasi poliziesca, con la ricerca di prove ed indizi, a togliere la maschera ad un mito, ad una maschera, anzi, “la maschera” più antica, se non la più nota, che ebbe origine in un lontano passato, calcò la scena del palcoscenico italico fino alla seconda guerra mondiale e fu infine ridotta in burattino, per divertire i bambini nelle “edicole” dei burattinai delle località estive, per di più meridionali.

Pulcinella è una maschera con caratteristiche peculiari, una maschera, che se guardata con occhi, adusi a scoprire celati messaggi, ci racconta la sua millennaria storia misteriosa, e possiamo leggerla come un codice antico, tramandatoci da saggi, ormai ridotti in polvere.

La maschera campana, napoletana o come alcuni puntigliosamente precisano, originaria di Acerra (col cognome Cetrulo), stimola la mia curiosità da tempo ormai. Il suo nome ha un’origine incerta. Potrebbe derivare da “pulcinello”- pulcino o dal nome di Puccio d’Aniello, popolano d’Acerra, che, come si racconta, s’unì ad una compagnia di saltimbanchi in vece di buffone.

Oppure dall’antico personaggio osco chiamato Maccus, che era capace di imitare i versi delle galline e degli uccelli e chiamato anche “Pullus gallinaceus” o dal tardo latino “pullicens”, nel senso di sempliciotto. In diversi scritti ho riscontrato la notizia, che la maschera sarebbe stata inventata da Silvio Fiorillo da Capua nel 1620.Indubbiamente però il personaggio ed il suo abbigliamento si sono trasformati e codificati lungo i secoli.

Altri interpreti della celebre maschera a teatro, nella commedia in musica, detta opera buffa (teatro di S. Carlino 1740 in piazza Castello a Napoli) furono i Cammarano, Gaspare De Cenzo, Andrea Calcese, Michelangelo Fracanzani (che lo porta in Francia nel 1685, facendogli assumere caratteristiche diverse da quelle originali), Pasquale Altavilla, Salvatore ed il figlio Antonio Petito, forse il più famoso, e poi Enrico Petito, Giuseppe De Martino, Salvatore De Muto. Nel 1628 Pulcinella compare per la prima volta in due opere teatrali “La trappolaria” di Della Porta e “La colombina” del Verrucci.

La maschera ottiene tanto successo, da essere adottata sia in Francia, dove diventa “Polichinelle” (poi Pierrot), che in Inghilterra dove prende il nome di “Punch”, in Germania dove viene chiamata Polizinelle e in Spagna Pulchinelo. Anche la scrittrice George Sand e suo figlio Maurice riscontrano in Pulcinella alcune somiglianze con certe maschere osche e propriamente con Macco, personaggio caratteristico, che impersonava un ghiottone sciocco in certe rappresentazioni farsesche latine, dette “Fabulae Atellanae”. A Roma venne rinvenuta nell’anno 1727 una statua di bronzo di Maccus con caratteristiche simili a Pulcinella. Altri ancora raccontano la sua invenzione da parte di un giureconsulto, un contadino ecc.

E’ curioso che i Celti veneravano il cinghiale MOCCUS, raffigurato spesso vicino ai druidi e ad una grande quercia, che rappresentava un archetipo solare, virile (frenesia sessuale e furor guerresco) e anticamente il simbolo dell’Inverno, mentre in epoca tarda e sotto l’influsso della religione portata dai Romani, viene ad identificarsi con Mercurio.

L’abbigliamento della maschera consisteva inizialmente in una MASCHERA NERA col NASO aguzzo lucido, lungo (il volto che si scorgeva sotto la maschera era coperto da baffi e barba incolta), un camiciotto largo BIANCO, stretto in vita da una corda, sotto il quale si intravvedeva una maglietta di color ROSSO, pantaloni larghi, bianchi e di un copricapo bianco FRIGIO. L’abbigliamento era simile a quello del contado partenopeo, mentre il cappello sembrerebbe più affine a quello portato dai pescatori e marinai partenopei.

La VOCE risultava chioccia e petulante. Alla cintura portava un BASTONE o una spatola.

Più tardi cambia il suo aspetto, la faccia si ripulisce, il volto è sbarbato, acquista una doppia gobba, però il naso diventa adunco, a becco, bitorzoluto, il mento prominente e rivolto all’insù. Infine nel seicento il suo cappello diventa a pan di zucchero.

Alla fine del 17. secolo non ha più la gobba ed il cappello diventa grigio, ad ali rialzate ed al collo porta un fazzoletto verde. Alla fine del seicento il capello diventa di feltro grigio, nell’ottocento al posto del camiciotto indossa una fusciacca bianca. Lo caratterizza un’indole arguta, spesso volgare, una goffaggine e ignoranza indolenti e buffoneschi, la parlantina sciolta, la voracità, la sfrontatezza ed una disincantata saggezza, però non acquista mai un carattere ben definito. Un napoletano sicuramente affermerà, che Pulcinella rappresenta in maniera comica lo spirito stesso della plebe partenopea. Spesso finisce per farsi bastonare, bastona e spesso muore e risorge. Venne dipinto da vari pittori in varie epoche e paesi e persino il pittore veneto Giandomenico Tiepolo si cimentò col ritrarlo.Al museo Ca’ Rezzonico a Venezia è esposto tuttora un suo celebre affresco “Saltimbanchi e Pulcinella (1791-1793). Richiama alla mente vari archetipi, come possono esserlo Dioniso, il dio frigio Mitra, il Matto nei tarocchi.

Pulcinella rappresenterebbe dunque una commistione degli antichi culti agrari locali con culti giunti dall’Oriente, dalla Grecia e dall’Egitto (Osiride). Potrebbe essere interessante, studiare il significato d’insieme delle sue molte e variegate caratteristiche.

Approcciando per esempio una persona, la prima cosa, che attrae il nostro sguardo, è il suo volto. Nel caso di Pulcinella, il volto risulta coperto da una maschera e per di più nera, con il naso ricurvo. La maschera può indubbiamente ricollegarsi al culto di Dioniso, di cui le maschere erano il simbolo.

Anche la tragedia greca era connessa con il sunnominato culto e la stessa parola tragedia deriva dalla dizione greca “odè tou tragou” significando “il canto del capro”. Gli antichi adoratori del dio erano avvezzi a sacrificare in suo onore un capro, probabilmente nero e ne bevevano il sangue, per essere posseduti dallo spirito divino. Sappiamo che in seguito il sangue venne sostituito dal vino rosso.

E’ noto, che la persona che indossa la maschera, si trasforma interiormente e si identifica con un determinato essere soprannaturale, assumendo nel contempo tutte le qualità attribuite a quella divinità.

La curvatura del lungo naso ed il mento all’insù potrebbero richiamare la Luna (ma anche il culto fallico del dio Priapo, figlio di Dioniso e dio della Natura rigogliosa e fertile).Il cappello frigio richiama alla memoria il copricapo, che indossava il dio frigio Mitra-Sole, l’uccisore del Toro cosmico di cui, a Napoli si sono ritrovati diversi luoghi di culto.

Insomma, la maschera potrebbe risultare una sovrapposizione di antichi culti e significati, che nello scorrere dei millenni si sono amalgamati, intrecciati in modo inestricabile.  Al popolo partenopeo l’intrinseco significato della maschera tuttora solletica la memoria collettiva e nel loro animo antico genera una corrente positiva di attrazione verso l’antico inossidabile dio.

Interpretando in modo alchemico il colore nero (nigredo) viepiù possiamo arguire il cinquecentesco ermetico suggerimento dell’inizio dell’Opera. Esaminando la figura ci balza agli occhi il colore bianco (albedo), lunare (spesso Pulcinella viene rappresentato seduto su di una falce lunare) del suo abbigliamento, che ci indica il proseguire dell’Opera al bianco. Nella concezione esoterica-iniziatica la morte (nero) precede la nascita (bianco-rinascita).

Bianco, che rappresenta la Luna, l’iniziato, il sacerdote. Bianco, che si collega alla figura del “Matto” dei Tarocchi, l’unico Arcano Maggiore a non avere il numero, e che immancabilmente si identifica con Dioniso.

Il bianco ci ricorda ancora l’agnello, antica e comune vittima propiziatoria, simbolo della primavera, del transitorio prevalere della vita, del rinnovarsi delle stagioni e nel colore stesso ritroviamo il simbolo della purezza, dell’aria e vedi caso del mercurio, menzionato precedentemente come una curiosità. Infine sotto al camiciotto s’intravede il rosso, simbolo del principio vitale, l’Eros trionfante e libero dei riti dionisiaci, il colore che in Oriente veniva abbinato alle festività primaverili (o volendo l’amaranto della maglietta, che spesso sfugge-è celato) ed esprime il fine nell’Opera al rosso (rubeo). A mio parere tutti questi significati e simboli si nascondono amalgamati nel magico personaggio, che si può leggere come un libro. Anche il bastone, che porta alla cintola e di cui spesso si serve, potremmo interpretarlo come il tirso dell’antico Dioniso, come il bastone delle maschere dell’agro, che donava la fertilità ed infine come una versione della bacchetta magica degli antichi magi.

La sua voce chioccia mi riporta in mente gli scongiuri, le filastrocche e cantilene, che utilizzavano gli alchimisti per scandire il tempo delle loro operazioni ed in particolare il tono nasale di voce che assumevano, per raggiungere delle particolari tonalità o vibrazioni, necessarie “all’apertura” della loro materia.

Questo tipo di voce si può ancora sentire a Napoli, nel Duomo, durante l’attesa dello scioglimento del sangue del patrono della città, s. Gennaro. Le cosiddette “parenti”, eredi di arcaiche sacerdotesse di culti dimenticati, stanno ore ed ore a cantilenare antichi ritmi temporali segreti, sino a che il fenomeno non si verifichi.

Anche l’antica maschera “Carnevale a cavallo ‘a Vecchia” ci porta a ritroso nel tempo. Raffigura Pulcinella a cavallo d’una vecchia, simboleggiando Pulcinella il Carnevale (Dioniso-Sole) a cavallo della magra Quaresima (anno passato, rinsecchito-Luna). Nelle grotte e nei misteriosi ipogei (come quel mitreo ritrovato nel 1994, nel rione Forcella) su cui poggiano le fondamenta della grande, misteriosa città, essa stessa più volte rinata su precedenti insediamenti sanniti, oschi, greci, alessandrini, romani e moderni, si sono perpetrati riti antichi, che tuttora albergano seppur inconsapevolmente nel cuore del popolo napoletano e hanno dato alla luce un mito, un nuovo dio, che tutto comprende e che rinasce di anno in anno, proteggendo il popolo negletto, ridandogli speranza.

La maschera rappresenta in questo modo l’antico androgino, l’alchemico Rebis (fase intermedia dell’Opera) o l’ermafrodito dei riti dionisiaci.

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