INTEGRAZIONE RAZZIALE Opportunità e difficoltà
di
Vittorio Vanni
Non vi sono, oggi, argomenti, più difficili a trattare come quello dell’integrazione razziale, in quanto l’irrazionalità, l’emotività, l’egoismo, la xenofobia, inconsci o meno che siano, fanno parte del bagaglio psicologico di ognuno. Nessuno può dirsi veramente immune da impulsi biologici potenti come il sospetto, la paura, il rifiuto dell’altro, dell’alieno, dello straniero.
Chi afferma con sdegno di esserne privo molto spesso dimostra con i fatti una violenta preclusione verso alcune categorie umane o un’intolleranza, spesso feroce, verso delle categorie ideologiche che non collimano con le sue. Chi vive attivamente nelle nostre città deve riconoscere che la tentazione dell’insofferenza, del rigetto, dell’intolleranza, è spesso messa a dura prova dalle varie forme di mendicità, a volte violenta, che gli extracomunitari esercitano.
Chi subisce sulla propria pelle lo stillicidio quotidiano degli scippi, dei borseggi, dei furti, deve dimostrare continuamente a sé stesso di avere, tenacemente, la volontà di non generalizzare, di comprendere, di tollerare.
Questo, a volte, può esser più facile per chi ha dei mezzi economici per la difesa di se stesso e della propria famiglia, ma per le classi meno fortunate questo non sempre è possibile.
Quando, nei mass-media, i protagonisti di raid, punitivi o preventivi, o comunque esprimenti sentimenti di avversione contro gli extracomunitari sono intervistati, ognuno respinge con sdegno l’accusa di razzismo e nella maggior parte dei casi le affermazioni sono senz’altro sincere.
Può nascere cosi, in una nazione come la nostra, nel complesso bonaria ed ospitale, una forma nuova di razzismo, non più basata sul pregiudizio etnico, ma sulla paura di esser sottoposti ad atti di piccola o grande criminalità.
Ignorare le ragioni, a volte giustificate, di questi sentimenti della popolazione, o addirittura criminalizzarle, è un errore fatale alla convivenza ed alla comprensione dei popoli.
La volontaria cecità delle autorità politiche ed anche religiose di fronte al disagio della popolazione, cecità indotta da motivi ideologi spesso obsoleti, può produrre, alla fine, ulteriori lutti ed atrocità di cui l’umanità farebbe finalmente a meno. Il riconoscimento dei diritti dell’umanità nasce dall’equilibrio, dalla razionalità, dalla conoscenza, e non solo dal sentimento, che spesso è acritico ed a volte volubile.
Nella difficile opera dell’integrazione razziale, che attende l’Europa futura, non potranno esser misconosciuti i diritti della cittadinanza, che pretende di mantenere un benessere economico ed un’identità personale e di gruppo, che ha acquisito prezzi altissimi, pur senza farne, nel suo complesso, concetti ideologici
L’ansia acritica dell’immediata integrazione degli extracomunitari, a tutti costi, sia economici sia politici, è forse l’ultima, in ordine temporale, delle confessionalità nella storia del pensiero.
Quest’ansia, che può assumere dei caratteri funesti, contrasta nei fatti con la ragionata e cosciente affermazione del diritto d’ogni membro de l’umanità alla sussistenza ed alla dignità personali.
L’accoglienza calda, umana e gioiosa che noi italiani. in particolare, vorremmo riservare ai nostri fratelli d’ogni luogo e razza, non può prescinde] da una valutazione e pianificazione dei mezzi d’ospitalità.
Vi sono tuttavia dei valori che, pur non dimenticando le difficili realtà economiche e sociali della nostra patria, italiana ed europea, vanno comunque affermati e difesi.
Il principio dell’uguaglianza e della fratellanza fra i popoli non è oggi comunemente contestato, al contrario è divenuto un archetipo psicologico e spirituale della stragrande maggioranza dell’umanità. Ben diverse e sottili sono le variazioni dei principi con cui l’istinto primordiale, presente in tutti gli esseri umani, vorrebbe rideologizzarsi.
L’accusa di razzismo, sempre portata agli altri, naturalmente. oggi più concettualmente rozza del razzismo stesso. Per combattere le nuove forme dell’intolleranza, per procede. evolutivamente e civilmente verso l’integrazione, è necessario studiare e quindi conoscere le sue nuove maschere, le sue nuove variazioni concettuali ed ideologiche.
Le parole chiave di queste variazioni attuali, che degenerano sentimenti popolari rispettabili sono: personalità ed individualità: ritualità genetica.
La dottrina della razza, tipica della prima metà del XIX secolo era dapprima considerata come dominio dell’antropologia dell’etnologia, quando queste consideravano i popoli primitivi o più arretrati come selvaggi da ammansire e addomestica con usanze tipiche di una civiltà superiore.
Le supposte inferiorità di fatto erano quindi soggette ad igiene sociale, ma anche etica e spirituale. L’identità occidentale, affermata con la forza dal colonialismo, con la conoscenza dal scientismo, con i concetti dalla speculazione filosofica, non aveva in principio, dubbi di sorta sulla necessità etica della propria supremazia.
Il “bagaglio dell’uomo bianco”, il cui peso e gloria Kypling epicamente cantato, faceva parte dell’immaginario collettivo che nessun se non pochissimi, avrebbe messo in dubbio.
I mezzi che l’occidente evoluto usava verso i popoli ancora nell’infanzia erano la brutalità dei fucili, i bastoni e le fruste.
Il giudizio verso i dominati era lo stesso che gli antichi romani riservavano ai schiavi e, in parte, alle donne, esseri che bisognava proteggere, dominandoli.
Il positivismo ed il razionalismo scientista di quegli anni confermava gli aspe biologici ed antropologici della mentalità corrente, che si creava un mito, un’ide forza, una cristallizzazione d’energie creatrici relative agli istinti di un’epoca.
Le nazioni europee, tutte più o meno implicate nel
colonialismo, si creavano così una sua giustificazione, razionale ed etica nel
contempo, ai loro
interessi anti-universalistici ed anti-individualistici.
Per affermare il concetto di stato etico, tipico delle oligarchie di ogni colore politico, era necessario collegare il sentimento di nazionalità a quello, più energetico e biologico, di razza, attraverso la creazione di un “mito’ cioè ad un’idea che è più valida per la sua suggestione possibile che per la sua verità e fondatezza.
ln questo senso il razzismo è un nazionalismo potenziato, che supera i confini territoriali, giuridici, culturali. Pur opponendosi all’universalismo, non si esaurisce in semplice unità di civiltà, ma può estendersi senza limiti geografici alla ricerca, o all’affermazione, del “proprio sangue’
Questo mito, che ha segnato con una striscia di sangue il volto del nostro secolo, ha però delle evidenti limitazioni.
I popoli europei sono formati geneticamente da un meticciato bianco di cui sarebbe impossibile determinare la principale origine, sempre ammesso che questa sia o che sia importante ravvisarne le tracce.
Sarebbe oggi impossibile rilanciare l’idea di “purità o di contaminazione razziale”, ma variazioni ideologiche del razzismo, più insidiose, potrebbero ben cavalcare il disagio delle popolazioni europee di fronte all’immigrazione sempre più pressante dal Terzo Mondo.
Queste variazioni, già presenti “in nuce” nel razzismo classico, ma ripresentate insidiosamente sin dalla fine degli anni 70, potrebbero essere il maggior ostacolo all’affermazione dei diritti dell’umanità al libero spostamento e all’integrazione razziale.
Vi è, negli archetipi mentali e biologici dell’umanità, un istinto inestinguibile di sopravvivenza attraverso la specie, di mantenimento delle proprie caratteristiche fisiche e psicologiche.
Quest’istinto di natura legittimamente egoistica ha, naturalmente, delle fondate e legittime basi naturali, e si dovrebbe applicare oggi non più alla propria appartenenza “razziale” ma a quella dell’intera specie umana.
Può essere, al contrario, usato in termini opposti, per il rifiuto dell’altrui individualità, e per l’affermazione della propria maniera di vita e cultura particolare.
Se vi fosse, veramente, una civiltà superiore in termini oggettivi, è solo il contatto fra i popoli di diversa tradizione e la loro competizione non violenta che potrebbe affermarla e confermarla.
Sappiamo invece, oggi, che ogni civiltà possibile è il prodotto di una compromissione naturale fra diverse culture e modi di vivere, anche se i principi etici fondamentali devono essere comunque comuni.
Il nuovo razzismo non si lega più alle differenze genetiche, che elude come mere appartenenze materiali, ma si collega a considerazioni più sottilmente spirituali.
ln quest’ambito si presenta come una volontà di stabilire, miticamente, delle forme, dei limiti, delle individualità.
Il globalismo ed al mondialismo che si presentano insistentemente al nostro futuro, e che certamente hanno in sé dei pericoli, sono visti come l’indice di caos etnico e di snaturamento delle individualità, considerate come valore assoluto ed eterno.
Da questo punto di vista vi è una contraddizione dei termini, in quanto l’individualità è considerata, paradossalmente, come una forma comunitaria. Il razzismo, biologico o spirituale che sia, si rifiuta di considerare il singolo, in nome di un’astratta concezione di stirpe, di sangue, di tradizione. Queste hanno, in realtà, una vitalità, un’essenzialità, una sopravvivenza, quanto mai variabili, mobili, transeunti e trascendenti.
Rispettare ed affermare l’individualità di un popolo che ha, comunque, i suoi diritti non significa negare quelli dell’individualità del singolo, che nella scala dei valori etici ha valori primari, legati all’unicità momentanea della sua vita presente.
Il razzismo attuale, nel presentare la sua scala di valori etici, sociali ed economici, fa prevalere l’idea di personalità” sull’individualità, intendendo così che il “merito” può prevalere sui diritti di ognuno, anche su quelli minimali.
Il valore personale dell’intelligenza, dell’operosità, della dirittura morale non può esser messo in discussione, ma il concetto di eguaglianza non si basa su questo parametro, ma su quello degli inalienabili diritti individuali di chi ha meno intelligenza, meno operosità, meno dirittura morale.
La confusione “meritocratica” diventa razzismo quando si attribuisce agli extra-comunitari minori valori di personalità, utilità e correttezza sociale, il che può anche esser vero, ma non in relazione ai diritti minimali.
Il razzismo attuale si contrappone poi al cosiddetto “mito” democratico ed illuminista, e si schiera contro la civiltà laica e profana della società borghese, affermando che la virtù, la nobiltà, la dignità non s’impara, ma si possiede o non si possiede, secondo la razza, la stirpe, la tradizione.
E’ la consueta teoria delle élite, che, conservatrici o rivoluzionarie che siano, si autodefiniscono tali solo in valenza del successo, della forza, dell’abilità, elementi, a volte, puramente casuali, non indotti dal merito individuale e soprattutto non innati.
L’autoaffermazione del sentimento elitario, in un periodo d’estrema crisi morale, politica ed economica come il nostro, è una tentazione che può affermarsi anche in relazione al fastidio che la presenza aliena degli extracomunitari, anche se non eccessivamente numerosa, può provocare.
Ancora più pericoloso è lo scambio dialettico fra i concetti di personalità e di individualità che può diffondersi nella mentalità comune; ma il concetto di maggior efficacia del nuovo razzismo è quello di spiritualità genetica.
Le forze dell’umanità che si richiamano all’istinto, al sangue, all’ereditarietà, insomma a tutto ciò che dà forma e sostegno alla personalità, non sono viste come un’espressione individuale, ma come appartenenti oggettivamente alla natura.
Ad esempio, l’aggressività psico-zoologica dell’uomo – che Conrad Lorenz ha evidenziato essere componente naturale ed indispensabile – come espressione individuale può esser controllata, diretta, raffinata e sublimata.
Come espressione della natura ha invece un valore innato in sé e può e deve esser usata coscientemente come forza egoica opprimente sugli altri, come un impulso inarrestabile di vita, ed in questo caso la personalità trascende la natura materiale stessa, divenendo spiritualità.
Non è più, quindi, la razza, un fattore meramente biologico, un puro dato, estraneo a qualsiasi azione creatrice dell’uomo, ma un’essenza spirituale che si manifesta sì biologicamente, ma che, intrinsecamente, si rende visibile in qualità, atteggiamenti, inclinazioni, sensibilità.
La nobiltà, come confessa Dante Alighieri, è fondamentalmente “antica ricchezza e bei costumi”, ma, essendo i bei costumi molto spesso una creazione generazionale indotta dal censo, è questo, e solo questo, che forma l’élite.
Ed è questo, fondamentalmente, il nuovo ed antico razzismo contro i diritti dell’umanità e contro l’integrazione dei popoli.
La povertà è, nello stesso tempo, inferiorità economica, intellettuale, morale. Un povero mansueto ed inoperoso è considerato la feccia dell’umanità, ma un povero ribelle ed attivo è sempre negativamente negro, albanese, marocchino, come una volta era italiano.
censo è considerato sintomo di criminalità, ma una criminalità “sui generis”, corretta, civile, superiore, dotata di qualità, d’educazione, di superiorità. Un ricco è pulito, quindi puro, quindi spirituale, anche se di quell’ambigua spiritualità moderna delle classi privilegiate chiamata New Age. Questa afferma i diritti altrui coltivando i propri privilegi, ama profondamente la povertà ed i poveri quando quella e questa sono ben lontani, e disprezza profondamente il razzismo triviale di chi incolpa gli zingari per i furti subiti.
Ed è proprio a questa forma di neo-razzismo pseudo-spirituale cui bisogna riferirsi come al rifiorire di nuove forme d’intolleranza.
In questo torbido fine millennio le speranze di qualche decennio fa sembrano impaludarsi, la nuova realtà europea, sperata e sognata da generazioni, sembra fagocitata dal pragmatismo delle banche e delle multinazionali.
Le nuove generazioni, che in parte non accettano il cinismo imperante nel nuovo ordine, si rivolgono illusoriamente alla cosiddetta nuova spiritualità.
Movimenti neo-mistici, pseudo-religioni, sette sponsorizzate dalle industrie che necessitano di sempre nuovi bisogni, ricreano universi chiusi e falsamente elitari, volgendosi spesso ad un improbabile oriente, ad una metafisica grossamente ciarlatanesca.
Il movimento della New Age è come fiaccato da improbabili ansie escatologiche, non derivanti dalla profondità dell’inconscio collettivo quanto dall’introiezione d’archetipi prima rimossi dal consumismo degli anni ’80, e poi frustrati dalla crisi economica degli anni ’90.
I suoi corifei, apparentemente contrari alla tecnocrazia, all’inquinamento ecologico, al consumismo, al predominio delle considerazioni economiche su quelle etiche, ne rappresentano invece la loro giustificazione metafisica, dimostrando un’opposizione rivolta solo a finalità materialistiche, mentre vorrebbero così combattere l’arido positivismo delle multinazionali.
Il sacrificio della razionalità, secondo i neo-guru, è indispensabile alla scoperta della fede, dimostrando così che la New e la Old Age concordano nella volontà di controllo delle coscienze e nello sfruttamento del prossimo.
Il razzismo evoluto della post-filosofia della New Age ieri, e della Next Age oggi, è rappresentato dal presentare l’umanità come soggetta ad evoluzione spirituale individuale, il cui assommarsi, nel futuro, diverrebbe l’evoluzione spirituale dell’intera umanità.
L’indifferenza, e la riprovazione, verso le necessità razionali ed organizzative della società, lungi dal rappresentare un ‘ascetismo, ostentato ma mai dimostrato, dimostrano un fideismo incontrollato nei confronti di una fatalità preordinata verso il meglio.
Le preoccupazioni quotidiane dell’umanità, di fronte ad una realtà poco felice, diventano una discriminante fra gli esseri evoluti e quelli che lo saranno in un lontanissimo futuro.
Il responsabile senso di colpa che ogni essere umano ha nei confronti dei miliardi di esseri umani senza libertà, senza cibo, senza medicine, viene così rimosso e sublimato nel concetto che ognuno deve comunque evolvere nel suo ambito e nelle sue condizioni, senza interventi ed aiuti esterni.
La povertà, il disagio, l’ignoranza, divengono così il segnacolo di un’esistenza precedente rivolta verso la materialità e il male. Le responsabilità sono così dirette, individuali, senza attenuanti, senza • pietà se non formale, con indifferenza totale e sostanziale.
Neanche le deliranti teorie sulla superiorità biologica razziale arrivarono mai a discriminare l’essenza interiore dell’umanità, a condannare implicitamente una vita umana, spesso più infelice che colpevole.
Cos’è dunque possibile fare per professare ed attuare il diritto alla sussistenza, alla libertà, alla dignità di ogni uomo in quanto tale, e non soltanto come appartenente ad una particolare razza, cultura o civiltà?
Aumentare, prima di tutto in noi stessi, la conoscenza e la consapevolezza della “charitas” come la consideravano i romani, che non è la semplice pratica dell’elemosina, ma la coscienza profonda che gli uomini differiscono enormemente per intelligenza, cultura, maturazione, ma che sono uguali nei sentimenti, nei bisogni, nei desideri, negli affetti, nella capacità di gioire e di soffrire.
Praticare la “virtus”, che è soprattutto moderazione ed equilibrio delle passioni e, oggi, dei consumi, godendo più della propria personalità che del proprio status.
Esercitare la “fides”, che è speranza ed azione assieme, per l’affermazione di principi che, negati spesso dalla realtà esteriore, devono essere tenacemente riconquistati nella realtà interiore.
Bisogna esser consapevoli, come un buon padre di famiglia, che non sempre possiamo soddisfare i bisogni materiali di tutti, come vorremmo, ma possiamo dare a tutti dignità, offrendo attenzione e considerazione, aggiungendo alle mille lire dovute al lavavetri uno sguardo, un sorriso, una parola.
Non dovremo attribuire agli ospiti delle nostre nazioni europee più diritti di quelli che godono i nostri concittadini, perché la “bontà” o meglio il “buonismo” molto spesso è solo fittizio, e nasconde l’egoismo di chi vuol esorcizzare i propri complessi di colpa o ignorare, senza giustizia, l’equilibrato diritto di ognuno.
Dovremo pretendere dai nostri ospiti che compiano i loro doveri, e che si adattino ai costumi ed alle leggi locali con la diligenza e la pazienza dell’ultimo arrivato, nell’attesa di una generazione che possa imparare ed insegnare nuovi valori e quindi nuove tradizioni.
Solo allora avremo il diritto e la capacità di organizzare, produrre, legiferare, in favore del nostro prossimo più alieno, perché senza equilibrio, prudenza, equità, maturazione personali le nostre opere produrranno soltanto nuovi errori, dolori e tragedie all’umanità.