PASCOLI MASSONE

La poesia di Pascoli, come ha detto giustamente il Piromalli, “si infittisce di trame di racconto, di meditazioni sceneggiate e dialogate in cui sono spesso due tempo distinti, passato e presente che si mescolano nei generi del bozzetto, dell’idillio”.

Pascoli non è un “isolato e ingenuo profeta dell’amore, anzi andava più coscientemente e completamente accettando e promovendo l’ideologia nazionalistica della quale la stessa invocata bontà, veniva ad essere un componente”. Nel 1897 pubblica Il fanciullino , cosciente come artista “della nuova situazione politico-sociale e della nuova funzione della letteratura” che per lui è quella di “risolvere nella poesia tutto il suo mondo culturale ed umano”.

Una delle più celebri espressioni del grande poeta romagnolo sull’Istituzione è: “Massoni sono quelli che non anelano se non a fare del bene, a fare – ogni giorno, ogni secolo – meglio; veri uomini di cui si compone la vera umanità. Con le parole – e più con i fatti, e soprattutto con l’esempio – hanno cercato sempre di disarmare i rapaci e di sollevare gli oppressi; sono nella lotta, e non per la lotta; sono pacieri e non guerriglieri; non hanno altro fine che di promuovere la umanità del genere umano”.

Come ricorda il Gentile, “Pascoli fu iniziato il 22 settembre 1882 nella Loggia “Rizzoli” all’Or. di Bologna (cfr. Mille volti di Massoni di Giordano Gamberini, Roma 1975, p.181). Il verbale della sua iniziazione fu redatto da Arturo Dalmazzoni. La povertà e le traversie dovettero certo incidere sull’assiduità di quel neofita, ma le esequie massoniche e civili conchiusero non solo le testimonianze di personali convinzioni, ma pure il ciclo di un contributo muratorio essenziale, spesso reso trasparente, oltre che dalla vita, dalla poesia. Quella partecipazione aveva avuto inizio con la originaria testimonianza di tre doveri: alla Patria la vita, alla Umanità l’amore, a se stesso il rispetto: il testamento di G. P. libero muratore (L’Acacia Roma, 1951).

Di opinioni diverse e decisamente contro l’Istituzione è il Ruggio, che nel suo libro (GIAN LUIGI RUGGIO; Giovanni Pascoli – tutto il racconto della vita tormentata di un grande poeta, ed. Simoncelli, Milano 1998) fa menzioni interessanti relative ai rapporti tra Pascoli e la Massoneria, in modo particolare, neanche a farlo apposta, nel racconto degli ultimi giorni di vita del poeta, quando già il tumore che dallo stomaco si era esteso al fegato, lo stava purtroppo portando al lento e progressivo avvicinarsi alla morte.

Il Ruggio racconta l’agonia e le ultime ore del poeta, minato dal male.

“Quella sera [5 aprile, il giorno prima della morte] Maria rimase profondamente turbata, pur continuando a non disperare del tutto. A quel punto decise, però, di fargli dare una benedizione e per questo mandò Attilia al Collegio dell’Osservanza perché chiamasse padre Paolino Dall’Olio, amico di Pascoli. E qui avvenne un episodio che incrinò per sempre i rapporti col fratello Raffaele. Lui, forse temendo che l’ammalato, riprendendo coscienza, si impressionasse alla vista del sacerdote, intuendo così che era alla fine, mandò una persona con il contrordine di non far venire il religioso. Maria, nelle sue memorie, confessa, senza mezzi termini, che quel gesto l’aveva amareggiata e disgustata. Afferma che quella fu l’unica ragione per cui il fratello fu privato dei conforti religiosi che, era sicura, avrebbe desiderato. E non perché un picchetto di massoni avrebbe impedito a quel frate di salire a casa Pascoli.” (p. 339) Il fatto curioso è come invece, nella sua Introduzione alle Poesie , il Baldacci riferisca in modo simile che “Falino, il fratello [carnale] prediletto si fece scrupolo di allontanare il sacerdote che portava il viatico”.

Un’altra, comunque dubbia, versione dell’accaduto, racconta invece che il frate giunse effettivamente alla casa del poeta ormai moribondo e che, intimoritosi di fronte al volto dei tanti massoni presenti al suo capezzale, preferì tornarsene di filata al Convento.

Pascoli morì com’è noto nella sera del 6 aprile 1912, nella sua residenza bolognese. Il testo del Ruggio continua dicendo: “Dal giorno della morte fino a quando la salma non arrivò a Castelvecchio, le campane di San Niccolò suonarono a morto. Nel frattempo, don Barrè era corso a Bologna per ottenere l’autorizzazione per i funerali religiosi. Ciò si rese necessario perché era ancora vivo il ricordo di Pascoli politico, del giovane anarchico che, in gioventù, fu intimo amico dell’attivista socialista Andrea Costa. Senza poi dimenticare che aveva avuto fugaci abboccamenti con la MASSONERIA dalla quale si era ritratto quasi subito perché aveva capito che, così, avrebbe compromesso la propria libertà.” (p. 341)

Decisamente un’opinione molto discutibile. Al di là di queste fugaci notizie, rendiamo omaggio all’illustre fratello Poeta, con la sintesi della filosofia massonica di cui sono impregnate diverse sue opere.

Una poesia molto bella che pur non racchiudendo contenuti massonici è doveroso far presente è senza dubbio la lunga e toccante poesia “La morte del Papa”, contenuta nei Nuovi Poemetti del 1909, e dedicata alla morte del Papa Leone XIII, il papa forse più anti-massone per eccellenza, al secolo Vincenzo Gioachino dei conti Pecci, di Carpineto Romano, morto a Roma nel 1903 all’età di 93 anni e papa dal 1878 al 1903; successore del grande Pio IX.

Nonostante la palese ferocia con cui il Santo Padre si scagliò contro i Massoni (basti pensare alle Encicliche Humanum Genus, Inimica Vis, ecc…) il Pascoli, già iniziato da diversi anni all’Istituzione, trasmette in questi versi una dolcezza inaudita ed un amorevole cura, nel senso latino di attenzione, nei confronti dell’evento dell’aggravarsi delle condizioni di salute del Pontefice, che culmina nella chiusa (“… e con un bianco / lino la fronte gli tergea sua mamma) quando fa accenno ad un ricordo infantile del vecchio papa, facendo presente che con la morte “si ritorna fanciulli” e da qui ne seguirebbero lunghi discorsi sulla scia del Fanciullino pascoliano.

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