I VALORI DEL 1799:
IL CONTRIBUTO DEI PENSATORI PUGLIESI
di
Roberto Sciarrone
Il Settecento fu il secolo che portò la Borghesia a prendere coscienza di sè stessa ed a rivendicare una maggiore presenza nei momenti decisionali. La Rivoluzione americana prima, la Rivoluzione francese poi ed in ultimo la Rivoluzione napoletana del 1799 furono tre esaltanti momenti di quel secolo, come tappe di un inarrestabile processo che portò l’uomo, ed il borghese in particolare, dall’infimo ruolo di suddito a quello di cittadino, da oggetto a soggetto di diritto. Questi tre eventi del diciottesimo secolo nacquero per motivi diversi ed ebbero sorti diverse, ma che sicuramente un nesso tra loro, dal momento che uomini illustri, gli Homines Novi, furono in contatto stretto, scambiandosi notizie, informazioni, opinioni, come il rapporto epistolare tra i Liberi Muratori Gaetano Filangieri e Beniamino Franklin o gli incontri a Parigi tra esuli meridionali ed esponenti della neonata Repubblica Francese. Il Massone Domenico Forges Davanzati, barlettano, rivolgendosi al senatore Gregoire, ebbe a dire:
“I lumi della Scienza eran così avanzati nel Regno di Napoli che anche prima che la Rivoluzione francese avesse proclamato la sovranità dei popoli, gli uomini di lettere napoletani l’avevan proclamata nei loro libri, sorpassando i francesi con quel moto lento, ma progressivo e sicuro, che proprio del Carattere italiano”.
La catena che legava tra loro questi uomini era rappresentata, soprattutto, dalla Libera Muratoria, che, nata in forma speculativa in Inghilterra nel 1717, si diffuse in Francia, nel resto d’Europa e negli Stati Uniti d’America. La Massoneria si diffuse nel Mezzogiorno d’Italia, nonostante nel 1751 la Bolla di Papa Benedetto XIV ed un Regio Editto borbonico proscrivessero le società segrete.
In Puglia sorsero Logge massoniche: nella Capitanata, a Bari, a San Severo, Acquaviva delle Fonti, Gioia del Colle, Altamura, Spinazzola, Giovinazzo, Bisceglie.
Ma quali erano le idee degli Homines Novi, che portarono a quella utopia durata soli sei mesi, e la cui fine il Mezzogiorno, secondo alcuni, paga tuttora in termini di arretratezza e di scarsa coscienza civile? Tutto nasce da una visione laica dello Stato, dove il trinomio massonico Libertà, Eguaglianza e Fratellanza rappresenta il cardine della politica. Nello specifico i punti salienti inizialmente erano due: a) abolizione della potestà feudale, rinnegatrice di ogni diritto umano; b) abolizione della potestà ecclesiastica, che respingeva ogni libertà di pensiero ed aveva nelle sue mani tanta parte dell’Aagro meridionale e pugliese in particolare. In riferimento a questo secondo aspetto, che da dire che alcuni tra i più ragguardevoli Dignitari della Chiesa di Puglia, tra i quali Monsignor Capecelatro, Arcivescovo di Taranto, erano tra i più acerrimi avversari della Curia Vaticana, proponendo una Riforma del Cattolicesimo che si rifacesse alla originaria purezza del Vangelo, ovvero:
abolizione del potere temporale dei Vescovi sulle Signorie e le monarchie locali (il Regno di Dio non è di questo Mondo!) ;
libertà di stampa e diffusione di testi ritenuti contrari alla Curia Vaticana;
abolizione del tribunale dell’Inquisizione;
abolizione del dogma dell’infallibilità papale;
abolizione del celibato per i preti, sancito dall’ultimo Concilio di NIelfi;
abolizione dei Monaci, ritenuti guardie pretoriane del Papa;
abolizione della clausura per le fanciulle;
riforma dei sistemi educativi con docenti modello di civili e cristiane virtù;
lotta al fanatismo religioso ed alla superstizione.
I propugnatori di queste idee non erano però dei rivoluzionari radicali, bensì dei riformatori, ad esempio il criminologo gallipolino Filippo Briganti sosteneva di essere più per la Monarchia che per il cosiddetto Governo libero, ovvero la Repubblica, purché ci fossero delle leggi che proteggessero i cittadini da vessazioni, arbitrii, violenze. L’altro salentino Giuseppe Palmieri respinge la. libertà intera e male intesa. della Repubblica Francese, ma dice altresì:
…La libertà civile deve essere illimitata per fare bene, ma ristrettissima e quasi nulla per fare male à” Gli Homines Novi erano consci che le genti del meridione e della Puglia, soprattutto, non erano abbastanza virtuose, nè abbastanza illuminate, da accogliere tutte le innovazioni libertarie rivoluzionarie della Francia. Briganti, Forges Davanzati, Palmieri, Ciaia, durante tutto il periodo che precorse la Rivoluzione Francese, furono tutti monarchici, devoti alla dinastia borbonica.
Le cause che portarono molti di questi uomini moderati ad abbracciare la causa rivoluzionaria in un secondo tempo, tanto da essere impropriamente definiti ” Giacobini”, sono da ritrovare nel comportamento opportunistico della Monarchia Borbonica: illuminata nella prima metà del Settecento con la direzione politica del Ministro Bernardo Tanucci, quando serviva porre un argine alle pretese dei Vescovi e del Vaticano ed alla baldanza degli aristocratici terrieri; foscamente
oppressiva con la Rivoluzione Francese, che aveva portato alla morte Luigi XVI e sua moglie Maria sorella della Regina Maria Carolina. La Puglia, in quel particolare periodo, presentava una grande arretratezza sociale, una sorta di società feudale dove i proprietari terrieri, rappresentati dal clero e dagli aristocratici, erano quasi sempre non residenti, le cui rendite erano per lo più dirottate ad abbellire ricche dimore nella Napoli capitale o altrove e dissipate nel fastoso e dissennato stile di vita.
La condizione era: le plebi sempre più ignoranti, affamate e povere ed i pochi ricchi, sempre più ricchi, con una distanza tra le classi incolmabile, con forme di sopraffazione sancite dal diritto scritto o consuetudinario, consolidate dalla rassegnazione. Con Carlo III di Borbone cominciò un corso nuovo dopo anni di Spagnoli ed Austriaci, che avevano gestito il potere sovrapponendo il loro fiscalismo a quello dei baroni feudali e del clero, mortificando ancora di più le genti del Sud. Si aprì con Carlo III di Borbone un dialogo con le menti illuminate del Mezzogiorno, che avrebbe portato a delle prime riforme economiche e sociali, consentendo che nuovi e numerosi ceti possidenti emergessero, imprenditorialmente attivi ed interessati alle riforme, nonché all’incremento della produttività.
In questo contesto si inseriscono due figure di uomini nuovi, che dalla Puglia, aprirono un dibattito fecondo sulle prospettive economiche e sociali di questa terra. Due uomini molto diversi tra di loro, essendo l’uno ricco proprietario terriero salentino e l’altro abate di umile estrazione sociale di origini molisane, ma che svolse la sua attività nella nostra Puglia, in particolare nel territorio della Capitanata ed in Terra di Bari. Questi due uomini dettero un notevole contributo a quell’era delle Riforme che portò poi alla Rivoluzione del 1799; i loro nomi non sono conosciuti dal grande pubblico come quelli dei Filangieri, Genovesi, Forges Davanzati; Ciaia, ma proprio questo dimostra come fosse diffusa in Puglia e nel Mezzogiorno “l’idea nuova”. D’altra parte esisteva già da tempo una scuola in tal senso, se si considera che il Sud aveva già espresso nei secoli precedenti uomini come Giordano Bruno e Tommaso Campanella. Ma, torniamo ai due novatori allievi entrambi di quell’Antonio Genovesi, più noto illuminista napoletano. Il primo dei due è Giuseppe Palmieri nato a Martignano in Terra d’Otranto nel marzo del 1721. Egli da giovinetto, provenendo da una famiglia aristocratica, intraprese la carriera militare, che lasciò a quaranta anni col grado di Tenente Colonello, per ritirarsi nei suoi possedimenti nel Salento, laddove la sua dimora divenne un crocevia obbligatorio per i liberi pensatori meridionali e pugliesi, come Filippo Briganti, giurista gallipolino, e Giovanni Presta, medico ed agronomo, suoi cari amici. E fu proprio nella sua Terra che il Palmieri espresse le sue riflessioni economiche e sociali, frutto dei suoi incontri napoletani, ai tempi del militare, con Antonio Genovesi e che lo portarono ad una certa notorietà, tanto da fargli affidare nel 17831’Amministrazione della Dogana della provincia di Otranto e, quindi, nel 1791, su incarico dell’Ammiraglio Acton, l’allora capo del governo del Regno di Napoli, la direzione del Ministero delle Finanze, incarico che ricoprì sino alla sua morte il 30.1.1793. Egli scrisse dapprima ” Riflessioni critiche sull’arte della Guerra due grossi volumi che come ebbe a dire Antonio Genovesi, cui fu affidata la revisione dell’opera omicida cagione della malvagità degli uomini”. Successivamente il Palmieri si occupò più specificatamente di società ed economia con l’elaborazione in successione temporale di: “Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli”, quindi “Pensieri economici relativi al Regno di Napoli” ed infine “della Ricchezza Nazionale”
Ma qual’era il pensiero di Giuseppe Palmieri? Innanzitutto egli colse l’esistenza di un nuovo ceto possidente terriero con mentalità imprenditoriale, tanto da scrivere nelle sue Riflessioni
” Tra le classi non produttrici si suole annoverare quella dei proprietari. Questo è un abbaglio: bisogna almeno distinguere e suddividere tale classe. I Proprietari che ritengono per sè medesimi la cura dei loro fondi, e i fittaiuoli, formano la principalissima classe produttrice. Da essi riceve moto ed azione la classe dei braccianti. Senza il salario, che ne ricevono, non potrebbero nè lavorare, nè vivere. La sorte dunque dell’Agricoltura e degli operai dipende dalla quantità del denaro che possono spendere i proprietari dei fondi”
Ancora a difesa della nuova classe imprenditoriale agricola e contro la demagogica posizione rivoluzionaria francese: “La divisione della terra in porzioni più piccole non è necessaria al vantaggio dell’agricoltura come si è creduto, la gran coltura supera nell’utile di gran lunga la piccola: e siccome la gran coltura non può adoprarsi che nelle grandi tenute. così queste saranno alla società più utili delle piccole”.
E, infine, sulla questione della terra ai contadini: “Si dividano per ipotesi le terre ai poveri; come le coltiveranno? Come vivono fintanto che percepiscono il frutto? Noi vediamo che alcuni di essi, i quali posseggono qualche pezzo di terreno, lo trascurano per fatigare per altri, e poter vivere col salario. Non basta dunque dare terreno ai poveri. Bisogna ancora somministrare loro gli aiuti necessari per coltivarlo e per vivere
Interessante anche l’indicazione sulla bonifica del territorio: “Questa provincia, il Salento, bagnata da due mari, si estende nell’Adriatico per lo spazio di circa cento miglia dal capo di Leuca fino all’antica Egnazia e nel Jonio forse per altrettanto spazio dal medesimo capo fino a Torre di Mare. Oltre i fertili campi dei suoi contorni, per cui conserva il pregio dell’Antica Metaponto, ed oltre pochi tratti di terreno verso Taranto e verso il Capo, tutto il rimanente litorale è incolto.
I luoghi che avrebbero bisogno di aiuto e direzione, sono quelli ingombrati da paludi o di acque stagnanti. I presenti possessori non pensano, o non possono, o non sanno disseccar le paludi, né dar con fossi e canali lo scolo alle acque. Questa intrapresa di massima importanza per l’aumento della rendita pubblica e privata, per l’aumento della popolazione, e per conservare la salute di quella che presentemente ci è nella Provincia, è propria e degna del Principe’
Il Palmieri si conferma, quindi, filosofo del pubblico bene.
Di tutt’altro tenore le idee dell’altro novatore: Francesco Longano, abate di umile famiglia, nato il 3.2.1729 a Ripalimosani vicino Campobasso; ritenuto da Forges Davanzati uno dei più vicini e fedeli allievi di Antonio Genovesi. Nella sua autobiografia egli descriveva i suoi conterranei:
“Generalmente son tutti frugali, laboriosi e pieni di senso di libertà. Di tale provincia pochissimi servono a Napoli e quelli che ci capitano per evitare la tirannide baronale o la povertà amano meglio far da famigli che da servidori. A questo modo evitan essi la servitù dei loro simili ed imperano sulle bestie à la mendicità loro è in odio.’
Di qui il senso della loro industria. La vita campestre “nei bestiami o nella cultura dei campi forma la loro occupazione universale. Ma da quel Molise, per tanti legami naturali ed amministrativi collegato alla Capitanata, partì anche lui per la Capitale Napoli, per istinto d’evasione e sete d’apprendimento. Dopo essersi abbeverato alla fonte illuministica del Genovesi e degli ambienti riformatori partenopei, condusse una vita di insegnamento, di polemiche e di sacrifici. Negli ultimi anni ebbe un piccolo beneficio ecclesiastico, con la cui modica rendita acquistò un cavallo e si mise in viaggio per il suo Molise, per la Capitanata e per la Terra di Bari al fine di aiutare la gente di provincia, rilevandone lo stato, per rappresentarlo al Sovrano affinchè si decidesse ad intervenire. Ma la umile sua esistenza, i quotidiani mille ostacoli, che mai gli furono risparmiati, non impedirono a Francesco Longano, fino all’ultimo, di vivere con quella luce che Antonio Genovesi gli aveva acceso nell’animo.
Morì il 28.4.1796. Oltre alla sua autobiografia scrisse: ” Piano d’un corpo di filosofia morale”; ” Raccolta di saggi economici per gli abitanti delle Due Sicilie”; “Viaggio per lo contado di Molise”; “Filosofia dell’uomo”; infine una serie di traduzioni di saggi economici di illuministi francesi. In Francesco Longano, povero prete di povera provincia, è più animoso il contrasto nei confronti dei ceti privilegiati: il feudalesimo con il suo tetro retaggio di disuguaglianze, pregiudizi e povertà è l’ostacolo da rimuovere lungo il cammino della rinascita della Puglia e del Mezzogiorno. Come ebbe a dire: “sono troppe le ingiustizie. che i baroni esercitano nei loro feudi donde nasce la mancanza della libertà” Ovviamente l’appello si rivolgeva al Sovrano: “Rompete, augustissimo padre e monarca, le ignominiose catene che tanto avviliscono i vostri figli” Ma in una Napoli sospettosa delle novità, Longano era ormai senza interlocutore. Ormai ogni moderata proposta di cambiamento veniva trattata come “giacobino”. Pertanto non restava che l’utopia: la Rivoluzione, riassunta in questa riflessione: “lo Stato è giunto all’ultimo suo punto di declinazione quando è ridotto a due sole classi, delle quali una abbonda del superfluo ed all’altra manca il necessario fisico. Dunque tale Stato è tanto più lagrimevole quanto è meno curabile”
Si spegnevano, così, le possibilità di un dialogo moderato sulle Riforme tra i novatori e la Monarchia borbonica, correndo verso la tragedia della Rivoluzione del 1799.
Palmieri e Longano non videro quella Rivoluzione, ma sicuramente le loro idee vi parteciparono con pieno diritto.