IL PRINCIPE Dl SANSEVERO,

IL PRINCIPE Dl SANSEVERO,

ALCHIMISTA E GRAN MAESTRO

di

Sigfrido E. E Hobel

bbiamo già accennato allo Tschudy, alla sua Etoile Flamboyante, ed al Catechismo erme tico-massonico dell ‘ Ordine dei Philosophes inconnus ispirato al Novum Lumen Chymicum del Cosmopolita ed alla obnubilata del Marchese Francesco Maria Santinelli, opere di chiara ispirazione rosacrociana.

Ricordiamo che il Marchese Santinelli aveva fatto parte a Roma del circolo esoterico di Cristina di Svezia, insieme al Marchese di Palombara, a Giuseppe Francesco Borri e ad al dotto gesuita, Padre Athanasius Kircher; nel 1667 era stato a Napoli dove, secondo il Francovich  doveva pur esistere un circolo rosacrociano, collegabile in qualche modo alla esoterica di Giovan Battista della Porta ed della sua Accademia dé Segreti; è ben probabile pertanto che il Principe di Sansevero, il cui influsso fu certo molto forte sullo Tschudy, fosse stato a sua volta in contatto con un tale circolo e che la conoscenza che lo Tschudy aveva delle opere del Cosmopolita e del Santinelli risalga al periodo in cui era stato presso Don Raimondo.

Possiamo quindi-dedurre che lo stesso Principe di Sansevero, con la sua Dissertazione sulla vera cagione produttrice della luce, si sia voluto collegare ai due testi del Cosmopolita e del Santinelli, i cui titoli presentano entrambi un esplicito riferimento alla Luce. Pertanto, anche prescindendo dall’effettiva esistenza a Napoli, difficilmente dimostrabile, di un gruppo iniziatico, che doveva necessariamente essere segreto, si può tuttavia ammettere un collegamento, almeno ideale, del Principe con quella corrente di pensiero d’ ispirazione rosacrociana sviluppatasi in Europa nel corso del XVII secolo.

Il movimento dei Rosa-Croce rappresenta un momento di coagulo di diverse correnti di pensiero accomunate sia dal riferimento ad una tradizione sapienziale pre-cristiana, che da un atteggiamento etico e mistico, ma profondamente anti-dogmatico e fondato su una salda concezione della libertà nella speculazione filosofica e nella sperimentazione. La filosofia ermetica, la tradizione alchemica, la magia naturale e la Cabala costituiscono in tal senso le basi di un pensiero progressista e libertario e vengono riproposte sotto il comune denominatore dei misteriosi RosaCroce.

Raimondo Lullo e Paracelso sono punti di costante riferimento, in una rinnovata visione dell ‘ Alchimia come scienza insieme spirituale e sperimentale, la cui proposta di operatività appare come un invito ad esercitare il pensiero in modo libero e spregiudicato, ed a sviluppare una scienza di tipo sperimentale, collegandosi ad una più o meno definita Società di Filosofi.

ln tal senso è estremamente significativo il fatto che il Principe abbia fatto stampare due opere come il Conte di Gabalis e il Riccio Rapito, in cui si fa riferimento alla teoria paracelsiana degli Spiriti Elementari: questa teoria non costituisce certo né un’assurdità,- né uno scherzo fine a se stesso, ma è piuttosto un ‘ allusione a quelle “nature spirituali le quali, sebbene materiali, non possono essere percepite dai sensi a cagione della loro tenuità” . E il Pope, dedica della sua opera ad Arabella Fermor, aveva fatto un esplicito riferimento ai RosaCroce: sono gente che vi farò conoscere. Il miglior resoconto su di loro, a me noto, si trova in un libro francese, Le Comte de Gabalis, per titolo e mole assai simile a un romanzo, e infatti molte appartenenti al bel sesso lo hanno letto per errore” .

Essendo molto improbabile che il Principe di Sansevero abbia voluto pubblicare due opere esplicitamente collegate alla tradizione rosacrociana senza essersi interessato egli stesso a tale tradizione, riteniamo che soprattutto in essa vadano ricercati i fondamenti di una sua formazione alchernica, con particolare riferimento alle opere del Cosmopolita e del Santinelli, ed alla corrente di pensiero, insieme scientifico ed esoterico, sviluppatasi negli ambienti illuminati europei e soprattutto in Inghilterra

Abbiamo dunque cercato di ricostruire, per quanto possibile, quelli che devono essere stati i principali riferimenti teorici del Principe di Sansevero in materia alchemica, ma siccome, parlando di ricerche alchemiche, intendiamo riferirci anche alla pratica operativa, un elemento decisivo a favore della tesi che il Principe abbia realmente praticata l ‘ Alchimia, è senz ‘ altro l’effettiva esistenza di un laboratorio adatto a tale Opera, insieme pratica e filosofica, e allora non possiamo non ricordare la fornace da vetraio che volle installare nei sotterranei del suo palazzo, e certamente l ‘ esigenza di aver una fornace nel suo stesso Palazzo, era dettata dalla natura dei suoi esperimenti e dalla necessità di garantirne la segretezza.

Quali erano dunque le fisiche esperienze per le quali il Principe utilizzava le sue fornaci e l’annesso Lavoratorio chimico? L’ Origlia ci riferisce che “prima d’ogni altro compose un cristallo in tutto uguale a quello d ‘ Inghilterra…contraffè poscia anche varie sorte di pietre dure…. ebbe il piacere di contraffare pur delle pietre preziose di ogni sorta…. e col comporre sì fatte pietre è andato a filosofare, e chiaramente comprendere come le loro differenti spezie, e i loro differenti, colori, e gradi di durezza si vengono a generare, e perfezionare nelle viscere della terra”, in sintonia, aggiungiamo noi, con le teorie formulate da Paracelso e dal Cosmopolita.

L’ Origlia racconta quindi che il Principe “si è posto a rifare ora (siamo nel 1752-53) due sperienze fatte da lui di già altra volta prima, ma senza qué lumi di Filosofia, ch’ha di presente”. Il primo esperimento riguarda la resurrezione dei granchi di fiume “i quali dopo calcinati a fuoco di riverbero, e ridotti in cenere producono degli moltissimi insetti, e quindi da questi col fecondo giornale innaffiamento di sangue fresco di bue, usato in una particolar maniera, ne rinascono quelli di bel nuovo”: strano esperimento che sembra voler verificare il mito della, nonché le antiche credenze relative alla rigenerazione dei corpi morti.

L’esperimento del Principe di Sansevero, al di là di una interpretazione metaforica, rientra perfettamente nella logica dei lavori alchemici e rappresenta, in particolare, l’applicazione delle concezioni paracelsiane sulla generazione in vitro e sulla rigenerazione delle forme di vita organica: il grande Paracelso, sostenendo che era possibile “far rivivere i morti per mezzo della rigenerazione”, sottolineava che “la Resurrezione ed il ritorno delle cose naturali è un segreto non piccolo, ma profondo e grande nella natura delle cose, più angelico e divino che umano e naturale” e spiegava che la generazione trae origine dalla putrefazione, dal caldo e dall ‘umido, per cui si può far risorgere un essere organico dopo averlo ridotto in polvere e fatto imputridire nel letame all’ interno di una cucurbita sigillata.

In modo analogo Paracelso descriveva anche la creazione di un uomo artificiale, i ‘ Homunculus, ovvero un piccolo essere generato dalla putrefazione dello sperma umano in un vaso sigillato e quindi alimentato con “l ‘ Arcano del sangue umano”. Paracelso definisce questa operazione un “Arcano superiore a tutti gli Arcani”, uno dei più grandi segreti, finora sconosciuto agli uomini.

L’ inquietante operazione della creazione dell ‘Homunculus, che sembra precorrere le moderne idee

di fecondazione artificiale in provetta, presenta inoltre qualche affinità con la seconda delle “sperienze” ritentate dal Principe di cui parla l’ Origlia, e che consisteva nel produrre del sangue artificiale, lasciando fermentare dei cibi masticati e posti nel letame all ‘ interno di un vaso di vetro fatto in una foggia particolare, allo scopo di dimostrare “che il sangue proceda più tosto dal calor della fermentazione, che dalla triturazione dei cibi”.

Subito dopo, l’Origlia prende a narrare, con vivacità e dovizia di particolari, uno strano episodio che getta nuova luce sulle singolari ricerche del Principe di Sansevero: “non però desideriamo di defraudar il pubblico di un accidente, anche avvenuto in questo anno, che nel suo genere sembra stravagantissimo; sebbene non sia tale per quelli, che sono intelligenti delle naturali cose”.

L’Origlia racconta dunque che il Principe, “ritentando di far la materia del suo lume perpetuo, composta, secondo ha scritto nelle cennate sue lettere dell ‘ ossa del cranio umano”, giunse silenziosamente alle spalle di un suo dipendente che teneva in mano un manuaccio di vetro ermeticamente sugellato con i componenti di tale materia, e volendogli fare uno scherzo, gettò all’improvviso un grido, spaventandolo al punto da fargli rompere il vaso: dalla fessura apertasi nel vaso si vide allora uscire un fumo densissimo; questo fumo, dapprima di forma ovale, salendo verso l’alto, cominciò ad assumere una figura umana: “Una sì fatta figura che mostrava a uno a uno tutt’i suoi membri ignudi si era di colore olivastro, e colla barba, e i capelli folti, e in varie, e diverse sue parti si vedeva segnata con certe striature lustre a colore d ‘ argento diafano”. Grande spavento dei lavoranti presenti, mentre il Principe ed il Piccinino si soffermavano ad osservare con interesse ed attenzione il fenomeno, finché la figura, giunta sotto la volta dello stanzone, prese ad allungarsi e a dissolversi fino a sparire del tutto.

La fama del prodigio si sparse per la città, e il Principe, non potendo negare il fatto, prese a parlarne diffusamente, dicendo che “il Borelli, il Boyle, e altri gran Filosofi oltramontani avendo fatto l’istesse sperienze con ossa umane, avevano altresì nel matraccio di vetro una simile immagine osservato, la quale aveano con tal costanza asserito esser la stessa di quello di cui erano l’ossa, che non avevano dubitato di dire, che per vedere l’immagine di Cesare, di Cicerone, o d’ altri degli antichi, cotanto or da noi commentati, bastasse il solo poter avere un dé lor’ossi”.

La citazione da parte dell’Origlia del Borelli e del Boyle è particolarmente   importante: del Boyle, membro fondatore della Royal Society, si sa infatti che fu in rapporti con un misterioso “Collegio Invisibile”, mentre Pietro Borellio o Borelli è l’autore di un catalogo di testi ermetici, al termine del quale si trova una sua Epistola Chimica in cui si fa riferimento ai RosaCroce. Il fatto che entrambi risultino collegati alla tradizione rosacrociana, appare come un ‘ulteriore conferma, se non dell’adesione, sicuramente dell ‘interesse che anche il Principe doveva nutrire per essa e ciò appare tanto più significativo in quanto la citazione in questione si riferisce ad un tema già di per sé misterioso ed inquietante, quale la possibilità di una palingenesi umana.

Siamo così giunti nel vivo di un argomento affascinante e misterioso, quello delle “belle sperienze” fatte dal Principe di Sansevero “per rispetto alla Palingenesìa”, come si legge al termine della Breve Nota. Ecco dunque a cosa lavorava il Principe nel suo Laboratorio: alla rigenerazione della forma umana dalle sue ceneri; una ricerca la cui portata era tale da oltrepassare le stesse barriere della morte e la cui “materia prima”, come lui stesso dichiara in una delle sue Lettere sul Lume perpetuo, erano le ossa del cranio umano: “le ossa dell ‘ animale più nobile che sia nella terra; e le migliori sono appunto quelle della testa”.

Le ricerche del Principe sulla palingenesi si collegano ad un ‘altra sua strana “invenzione”, quella del Lume perpetuo: la materia era quella per gli esperimenti di palingenesi, ed stata ricavata dalle ossa del cranio umano sottoposte per diversi giorni all ‘ azione del fuoco in una vetreria cittadina. Il Lume nasce in seguito ad un fortuito accidente: il Principe racconta che in una sera di Novembre del 1752, avvicinando la fiamma di un cerino a questa materia contenuta in un vasetto, aveva provocato accidentalmente l’ accensione di una fiamma che aveva continuato ad ardere per sei ore prima che lui deliberatamente la spegnesse. Aveva poi accesa la materia di un altro vasetto e questa aveva continuato ad ardere per diversi mesi, senza che il suo peso fosse diminuito. Il Principe aveva quindi deciso di realizzare altri due di questi “Lumi eterni” per- sistemarli uno al capo e l’altro ai piedi della statua dei Cristo velato del Sammartino, nel Tempietto sotterraneo che stava facendo realizzare nella sua Cappella.

Il Principe, nelle Lettere scritte sull’ argomento, dopo essersi soffermato a lungo sui fuochi fatui, sulle fiammelle che talvolta si vedono sulle teste degli impiccati e sulle “lampade eterne” degli Antichi, conclude affermando che la sua materia ha acquisito il potere di ardere e di attrarre le particelle di “Fuoco Elementare” sparse nell’aria, in quanto i suoi sali sono stati resi fissi in seguito ai vari “cimenti di fuoco   cui le ossa sono state sottoposte.

Nella Dissertazione su una Lampada antica trovata a Monaco, il Principe riprende il discorso sull Lampade perpetue per affermare che gli Antichi “non possedettero mai l’arte di fabbricarne” e ribadir quanto aveva già sostenuto nelle sue Lettere, e cioè che le luci osservate all’ apertura di antichi sepote possono essere prodotte dai sali dalle ossa umane incendiati al contatto con I ‘ aria. Il Principe inizia quindi a parlare del Fosforo, “una materia che brucia, o che diventa luminosa senza avvicinarla al fuoco, o a un fiamma sensibile”, e spiega che tali Fosfori possono essere ricavati da tutte le parti del corpo da cui si put estrarre l’olio mediante distillazione e cita il ben noto principio alchemico secondo cui l’Arte imita l; Natura in quanto i Chimici “non hanno per scopo che imitare le operazioni della natura impiegando men« tempo e meno lavoro”.

Pertanto, la cosiddetta Lampada antica trovata a Monaco murata all’interno del pilastro di una chiesa non è in realtà una lampada, bensì una Caraffa di vetro all’interno della quale si trovava del Fosfore urinario, causa della luce che i muratori avevano scorta al momento del suo ritrovamento e che aveva fatto    pensare di trovarsi al cospetto di una Lampada perpetua.

Quindi, il Principe parla di un altro calice di vetro, custodito dal Rabbino di Costantinopoli, cui era pervenuto, passando di mano in mano, da un altro Rabbino, vissuto duecento anni prima. II Fosforo contenuto in questo vaso era definito “Fuoco nascosto”, e rappresentava, secondo le parole del Rabbino di Costantinopoli, la grande memoria della nazione giudaica “che era quella del Fuoco sacro, di cui i suoi beati erano stati un tempo depositari”. Esso simboleggiava inoltre il Messia atteso dal popolo ebraico e per mantener viva la speranza nella sua venuta, Dio aveva ispirato ad alcuni uomini eletti la realizzazione di dodici di questi Fuochi, affidati ad altrettante persone in ricordo delle dodici Tribù di Israele. E la Caraffa di Monaco sarebbe stata, secondo il Principe, un altro di tali Fuochi, mentre di un altro si sapeva che era stato affidato al Rabbino Isaac Abrabaniel, fuggito da Lisbona in seguito all’espulsione degli Ebrei, e giunto a Napoli, alla corte di Re Ferdinando d’ Aragona.

Simbolo di Luce spirituale, il Fuoco Nascosto ottenuto dal Fosforo estratto dalle urine è contemporaneamente, al pari della forma umana apparsa dai Sali delle ossa, e della luce del Lume eterno, la manifestazione di un principio vitale occultato all’interno della materia.

Ricordando che le operazioni effettuate dal Principe avevano per scopo la palingenesi della forma umana, ci chiederemo dunque se ci troviamo di fronte alla testimonianza di un esperimento allucinante ma tendente ad un effetto “vero e reale”, o se si tratta piuttosto di una metafora da riferire all’idea che l’umano intelletto, scintilla divina presente in ogni uomo, purificato ed esaltato attraverso i cimenti del fuoco, possa fissare la sua essenza e manifestarsi incorruttibile e libero dai vincoli della materia, dello spazio e del tempo?

Il discorso ci porta infine alle Salamandre, gli Spiriti del Fuoco di cui parlava il Conte di Gabalis: “se volete riconquistare il dominio sulle Salamandre, bisogna purificare ed esaltare l’ elemento Fuoco che è in noi e rialzare il tono di questa corda rilassata”. Per ottenere questo straordinario risultato occorre “concentrare il Fuoco del mondo in un globo di vetro per mezzo di specchi concavi” e nel globo si formerà una polvere solare che esalterà il Fuoco che è in noi e ci farà diventare di natura ignea. Il Principe sembra aderire a questa visione quando nella Lettera Apologetica scrive, anche se con cabalistica ironia, “e comecché possa perciò tranquillamente aspettarmi nel mio ultimo transito d’andare a godere nella regione del fuoco la felicità delle modeste e ritenute Salamandre

Emblema del Fuoco del Mondo, la Salamandra è il simbolo della Pietra fissata al rosso e dello Zolfo incombustibile, ovvero di quel Sale centrale incombustibile e fisso che conserva la propria natura anche nelle           ceneri dei metalli calcinati. ln quanto emblema alchemico del Fuoco e della parte più fissa e pura estratta dalla materia sottoposta ai cimenti del fuoco, la Salamandra è il simbolo della rigenerazione dell’uomo interiore, come si legge nello Zohar: “l ‘uomo interiore si lava con il fuoco, come una Salamandra”.

Quando dunque il Principe afferma di voler andare a godere nella regione del Fuoco la felicità delle modeste e ritenute Salamandre, il suo intento, esplicitamente dichiarato, è di esaltare la sua natura ignea, liberandosi dai vincoli della materia grazie all’ azione del Fuocofilosqfico, allo stesso modo in cui, operando alchemicamente, aveva potuto liberare il principio igneo dalla materia sottoposta ai cimenti del fuoco.                                                                                     

Alla luce di quanto abbiamo fin qui esposto, la definizione che il Principe dà di se stesso sulla sua lastra tombale, e con cui chiude la digressione autobiografica della Lettera Apologetica, sembra assumere un nuovo, più profondo significato, sottolineando il carattere straordinario del Principe e l ‘ aspetto eroico della sua audace ricerca, “e si comprenderà da tutti senza alcuna ombra di dubbio, che egli sia un di quei Eroi, che la Natura di tanto in tanto si compiace di produrre per far pompa di sua grandezza” •

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