L’EVOLUZIONE DELLO SPAZIO NEL TEATRO CLASSICO E MEDIEVALE: analogie con la deambulazione nel Tempio
di
Blasco Mucci
Premessa
Fra i miracoli della storia umana il più grande si chiama “Grecia”, piccola nazione anche se si comprendono, come è giusto, le terre italiche della Magna Grecia. Ma è in questo breve e chiaro paese, o meglio ancora in alcune delle sue cittadine piccole e pettegole, come i nostri capoluoghi di provincia, che sono venute al mondo la Filosofia, l’ Arte, la Poesia, la Scienza e il Teatro. Da dispute di gente a passeggio per quelle piazze o sotto i portici, sono state formulate le soluzioni dei massimi problemi dello spirito umano: dalla parola modulata ritmicamente o dalla contemplazione dei corpi giovanili esposti negli agoni sportivi, poeti e artisti hanno scoperto i segreti dell’eterna armonia; da contingenti necessità locali sono state determinate una volta per sempre le leggi dell’ Architettura; da certe feste religiose è sbocciato il Teatro drammatico nelle sue due forme tipiche: Tragedia e Commedia.
L’ antica religione della Grecia, paese di civiltà agraria, divinizzò, personificandole, le forze della natura. Dai culti primitivi — delle pietre che si credevano cadute dal cielo; degli alberi e dei boschi che la fantasia animò di esseri viventi; di certi animali che erano ritenuti sacri a certe divinità — il popolo greco, sotto l’impulso del suo genio plastico, passò alla concezione degli “dèi antropomorfi”, la cui più alta espressione è già nei poemi omerici, dove i numi che sovrintendono alle sorti del mondo paiono costituire una sorta di società superumana, in forma monarchica, con a capo Zeus.
Ma questa traduzione delle forze naturali in altrettante personalità più o meno fulgide o grandiose, capricciose o crudeli, non esclude l’esistenza di un ‘altra forza, superiore a tutte: quella del Fato, della Mòira, a cui le stesse divinità, compreso Zeus, sono soggette. Ma potrà questa forza, o altra superiore agli dèi, difendere l’uomo dall’essere, come la vita ci mostra tutti i giorni, il loro labile trastullo? A questo quesito che l’essere umano si pone, dubitando e tremando, risponderanno più o meno ambiguamente i “misteri” , manifestazioni religiose di varia origine, comprendenti dottrine e riti segreti, conosciuti e praticati da soli iniziati, ai quali erano ammessi soltanto coloro che si erano sottoposti a varie prove, anche cruente, superandole. Il possesso della verità, e di conseguenza la possibilità di salvezza, è pertanto riservata soltanto ad una “élite”. La sopravvivenza nell’ Aldilà non sarà concessa a tutti gli uomini, ma soltanto a coloro che sono stati partecipi a quei misteri.
Le origini del Teatro classico
Dai riti di Dèmetra nei misteri eleusini: “Felice è colui che, fra tutti gli uomini dimoranti sulla terra, ha veduto queste cose “. Dall’Inno a Dèmetra di Omero: “… chi invece non s ‘accostò ai sacri riti, chi non ne fu partecipe, non avrà una simile sorte, ma svanirà nella tenebra oscura
I misteri di Eleusi proponevano all’iniziato, nella vicenda di Dèmetra — “Terra madre”, dea della vita vegetativa e delle messi — l’idea che, come la vegetazione alterna la nascita alla morte, così la sorte dell’uomo è quella di nascere, vivere, morire e poi ancora rinascere e rivivere e rimorire in perpetua vicenda. Altro “mistero”, quello dionisiaco, è legato al culto agricolo: Diòniso è il dio della vigna e dell ‘ebbrezza. Pare, che sin dall’ inizio, la massima solennità rituale di questo culto consistesse in una festa campestre dove gli iniziati si davano alla caccia di un animale che in qualche modo personificava il nume adorato.
Il corteo di Diòniso è composto da satiri e mènadi, la stessa apparenza mista dei satiri, metà uomini e metà bestie selvatiche, dà l’idea della mitica fusione fra umanità e natura. Le mènadi, o baccanti, incarnano la frenetica voluttà dell’amore. In epoca di civiltà agricola le piccole e grandi dionisiache, feste campestri in onore di Diòniso, assumono, nel tempo, importanza sempre maggiore. A poco a poco si celebrano in più occasioni: per l’ approssimarsi della vendemmia, per il tempo in cui si pigia l’uva, per quello in cui si gusta il vino e infine per piangere Diòniso morto con ia morte annuale della vigna. E in queste feste che si intona il “ditirambo “, ossia l’inno in onore del nume, che preride il nome di “tragodìa — canto del capro — quando ad esso si accompagna il sacrificio di un capretto, particolarmente sacro a Diòniso perché animale lascivo o forse perché è il nemico che distrugge la vigna. Il ditirambo, in principio improvvisato in onore del nume, ebbe poi una forma stabilita e scritta in versi. Il primo ditirambo scritto sarebbe stato opera di Arione. Il Coro dei cantori si indirizzava all’ara, o thymele, dove si offriva il sacrificio e si disponeva intorno ad essa, in circolo, cantando e camminando in senso antiorario. Da questo canto epico-lirico, in cui si invocava il nume, sorse il Dramma.
Il Teatro greco
In seguito il Coro si divise in due semicori, uno dei quali rispondeva all ‘ altro. Siccome ogni semicoro era guidato da un corifeo, questi cominciarono a dialogare fra loro. Ai canti dei due corifei e dei loro semicori celebranti le gesta del nume, rispose un personaggio, l’hypocritès, con le parole di Diòniso in persona. Da quel momento — da quando cioè la invocazione lirica, e la narrazione dei fatti, dettero luogo alla presenza del nume che parlava in prima persona — si ebbe un embrione di rappresentazione teatrale. È così che l’originaria tragedia di canto epico-lirico comincia a diventare teatro come “proiezione dei personaggi invocati dal Coro “. E il Coro che, per così dire, la partorisce da sé; è la potenza del suo canto che fa apparire il nume invocato. Quando poi, oltre a Diòniso, si corninciano ad evocare altri dèi, o eroi con cui egli si incontra, o quando, messo da parte lo stesso Diòniso si comincia ad esaltare qualsiasi eroe e a farlo apparire e parlare durante il canto che lo celebra, la Tragedia ha già conquistato le sue essenziali libertà di movimenti e di argomenti. Sicché presto i fedeli del nume si stupiranno di non trovarvi più nulla che rammenti Diòniso: oudèn pros ton Dionyson.
L’edificio architettonico
La tragedia è dunque nata intorno alla Thymele, l’ara del dio sulla quale gli sarà offerto il sacrificio. Per il suo carattere religioso ed assembleare l’edificio si presenta quindi come una càvea gradinata di notevole capienza, e a forma di settore circolare di oltre 1800 in quanto il punto di intersezione — l’ara — è posto al centro del settore circolare della càvea. Il teatro romano è simile per concezione architettonica ma, essendo essenzialmente profano, il centro di interesse si sposta sul palcoscenico e la càvea si riduce a forma semicircolare. Dal punto di vista costruttivo e ambientale le due tipologie si differenziano dall’essere quello greco adagiato in concavità naturali del terreno, mentre quello romano è totalmente costruito in muratura. La struttura definitiva del modello greco si ebbe, secondo la tradizione, all’epoca di Pericle. Vitruvio, I secolo a.C. e Polluce, II secolo d.c. ci forniscono questi dati:
- — Summa kòilon: le gradinate superiori
- — Imea kòilon: le gradinate inferiori
- — Proedria: gradini di prima fila riservati alle autorità
- — Orchestra: piattaforma circolare ove si svolgeva lo spettacolo
- — Thymele: altare, posto al centro dell ‘orchestra, per il sacrificio in onore di Diòniso
- — Diazomata: pianerottolo di divisione tra la summa kòilon e l’imea kòilon
- — Skene: edificio in legno che chiudeva l’orchestra dalla parte opposta alla struttura teatrale, rappresentante — in prospettiva — il palazzo reale
- — Proskenion: sipario che copriva la skene
- — Logheion: spazio tra la skene e l ‘ orchestra
- — Parodos: ingressi alle due kòilon (le càvee dei latini)
- — Kerkides: gradini sulle càvee dove sedevano gli spettatori
- — Klimares: gradini di acceso ai kerkides
- — Analemmata: mura strutturali dell ‘ edificio
- — Euripos: canale di scolo delle acqua piovane.
Lo spettacolo
Da principio il regista è lo stesso poeta-autore del testo. Famosi registi furono Eschilo e Sofocle. Gli attori, tutti uomini anche per le parti femminili, erano probabilmente più simili ai nostri cantanti che non ai nostri attori. Dovendo raffigurare eroi al disopra della comune umanità e perciò, nello spettacolo, elevati nella statura e ingranditi, dovevano apparire come enormi fantocci, grazie ai coturni, calzature con una suola spropositatamente alta, alle imbottiture di tutta la persona e alle grosse maschere. Quanto alla scenografia non bisogna ritenere che lo sfondo fisso del palazzo reale fosse l’unica scena ammessa nella tragedia. Un tale sfondo si poteva e si doveva trasformare tutte le volte che il dramma l’esigesse, camuffandolo o modificandolo con altre scene costruite e dipinte. Ingegnosi meccanismi furono largamente usati nei teatri greci. Fra i tanti impiegati rammentiamo i principali: l’ekkyklema, piattaforma mobile che si avanzava da una porta; la mechànè, per far volare dal cielo gli dèi e certi eroi; il theologhèion, mobile per far apparire gli dèi in luoghi elevati; il keraunoscopeion, macchina per i fulmini e i lampi; il brontèion, macchina per i tuoni ecc. ecc.
La rappresentazione si svolgeva secondo la seguente fasi:
- — Entra in scena, da sinistra, il Coro, composto dai coreuti e con a capo un corifeo. Quando il Coro si divide in due semicori i corifei sono due e l ‘ ingresso avviene da due lati. Nella tragedia greca il Coro rappresenta il popolo e quindi la pubblica opinione
- — Lo spettacolo inizia con il Prologo, cioè una scena preliminare che, però, può anche mancare
- — Segue il Parodos, cioè il canto del Coro, a volte ritmato dalla danza
- — Entra l’ attore che declama. Questa fase, che noi chiamiamo atto, è l ‘ Episodio
- — Il Coro, che è stato in questa fase separato, rientra in scena e recita, a piè fermo, una risposta all’attore: lo Stasimo
- — Rientra l’ attore e recita un nuovo Episodio
- — Esce l’attore e rientra il Coro che recita un nuovo Stasimo
Così di seguito fino al completo svolgimento del dramma. Dopo l ‘ ultimo Episodio e l’ ultimo Stasimo viene recitato il Kommos, cioè la lamentazione in onore dell ‘ eroe morto. Al termine viene cantato, mentre tutti escono da sinistra verso destra, l’Exodus.
In origine la tragedia aveva un solo attore: il Protagonista. Eschilo ne aggiunge un secondo: il Deuteragonista; Sofocle ne aggiunge un terzo: il Tritagonista; quando appariva un quarto attore questo — per fortuna del pubblico — taceva. Nella tragedia erano obbligatorie le tre famose “unità”: di tempo, di luogo e d’ azione.
Importante è, nella tragedia greca, la funzione del Coro che, come vedremo, ritroveremo nel teatro medievale. Il Coro non ha niente a che vedere con quello del nostro melodramma, ma è la “voce del poeta”; è lo “spettatore ideale” che ha il compito di stabilire una “barriera morale” tra la rappresentazione e il pubblico. Esso adempie anche ad uffici pratici: espone gli antefatti e fa conoscere quanto avviene, tra un episodio e l’ altro, fuori dalla vista degli spettatori. A volte, addirittura, svolge le veci di una didascalia e supplisce anche al compito del sipario.
Le attribuzioni del Coro nella tragedia greca possono senz’ altro essere paragonate a quello dello “Storico” nel teatro medievale. Entrambi non freddi espositori, ma “personaggi” lirici e commossi che partecipano idealmente a quanto avviene sulla scena. Con il tempo l’ interesse per questa strana “creatura”, metà spettatore e metà personaggio, diviene tale da far dimenticare lo stabilito ruolo “sui generis” per attribuirgli quello di attore principale che, dialogando con gli astanti, arriva addirittura a minacciare, nelle vicende sceniche, un intervento trascendente.
Il Teatro medievale
Gli storici della Letteratura accettarono per molto tempo, insieme con la leggenda di un Medioevo tutto tenebre, ferocia e barbarie, quella dell’inesistenza di un Teatro medievale. Niente di più falso e di inesatto in questa asserzione. Non esistono “teatri” medievali, come costruzioni di pietra o di mattoni, solo per il motivo che sede delle rappresentazioni del Medioevo non furono edifici stabili destinati a questo scopo. Ma il Teatro medievale esiste e, mentre per certi aspetti continua la tradizione del Teatro classico, per altri, d’ importanza infinitamente maggiore, sviluppa caratteri suoi originalissimi, dai quali nascerà il Teatro moderno.
Nel Medioevo il Teatro è di natura liturgica e a carattere processionale. Viene pertanto a configurarsi in spazi liberi e scene multiple, denominate “luoghi deputati”, che ospitano ciascuna particolari azioni drammatiche. pubblico, sovente, si sposta da un luogo deputato all ‘altro per assistere alle varie fasi dello spettacolo.
I curiosi risultati di una influenza classica li troviamo, principalmente in una tragedia, l’ Exagoghè, scritta nel I secolo d.c. da un poeta giudeo ellenistico di nome Ezechiele e della quale ci restano 270 versi suddivisi in sei scene. Sulla fedele scorta del racconto biblico la tragedia rappresentava le vicende dell ‘esodo degli Ebrei dall’Egitto. A questo primo dramma di ispirazione religiosa si allaccia una corrente dalla quale sarebbe derivato tutto il “Teatro Sacro” di concezione cristiana. Dunque, anche nel mondo cristiano, il Teatro nasce dal rito, nasce spontaneamente per evoluzione naturale, nei due mondi eredi dell’antico Impero romano, quello orientale e quello occidentale, rimasti per lunghi secoli nella comunità di una fede religiosa sostanzialmente identica fino allo scisma dell’ XI secolo quando la Chiesa greca rifiutò il primato del Pontefice romano e si separò dalla Chiesa cattolica.
L’impianto scenico e architettonico
Non esiste nel Teatro medievale un impianto architettonico perché, come già descritto in precedenza, gli spettacoli non erano rappresentati in ambienti all’uopo preposti, ma in luoghi che erano scelti liberamente a seconda delle manifestazioni, per la maggior parte sacre, indette per le ricorrenze legate, principalmente, alla vita, alle opere e alla Passione di Gesù Cristo. Il fatto nuovo è l’unità di tutto il mondo redento da Cristo e pertanto il centro del rudimentale spettacolo non è più, come nel teatro classico, l’ altare ma il “monte”, ideale accostamento al luogo della Passione di Cristo — il Calvario — e al monte del “Discorso delle Beatitudini”.
Il Dramma greco era semplice, essenziale e lineare. Tutto fondato sulla rappresentazione di un fatto unico e recitato da un limitato numero di attori e quindi a carattere statuario. I confronti che esso ci ispira sono quelli legati, ovviamente, alla scultura. Il Dramma cristiano medievale ha invece caratteri pittorici. Tutto diffuso e svolto in estensione richiama, anche tecnicamente, i dipinti dei Primitivi del Duecento e del Trecento. Delle tre unità fondamentali del dramma greco — tempo, luogo e azione — non ne risente nemmeno la nostalgia. Prende un eroe — per esempio Gesù Cristo — bambino e lo segue attraverso tutte le età; prende un popolo, l’intera umanità e ne mette in scena tutta la storia: dalla creazione d’Adamo alla predicazione e al martirio degli Apostoli, collegandosi addirittura alla fine del mondo e al Giudizio Universale. Il palcoscenico medievale non rappresenta un “luogo” bensì l’intero Universo. Cioè una quantità di episodi e avvenimenti, descritti non uno dopo l’altro, ma offrendoli tutti simultaneamente allo sguardo dello spettatore.
Differenti sono, nelle diverse nazioni, i luoghi preposti alle rappresentazioni: in Francia le chiese e i sagrati delle stesse; in Spagna le piazze e le spiagge; in Germania prevalentemente i boschi e le colline. In Italia, si manifesta un particolare fenomeno: la nascita della “Lauda”, tipico esempio di esaltata religiosità popolare, che si propagò in tutta la penisola fra l’imperversare delle guerre e delle lotte feroci. Preposte a queste rappresentazioni erano le Compagnie itineranti dei “Laudesi”, dei “Flagellanti” e dei “Disciplinanti” i cui appartenenti, vestiti di sacco e flagellandosi a sangue, predicavano pace e penitenza.
A Firenze gli spettacoli erano celebrati su un palco eretto in una piazza — il popolo vi accorreva all ‘ora del Vespro — e diretti dal “Festaiolo” che svolgeva contemporaneamente i ruoli di regista, di buttafuori, di macchinista, di suggeritore, di costumista e anche di presentatore, quando recitava un prologo.
Lo spettacolo
Le diverse letture del Teatro medievale, drammaturgiche, antropologiche narrative e sociologiche si visualizzano in modo differenziato nelle varie nazioni europee, ma in modo pressoché identico nella dislocazione spaziale dei luoghi deputati.
Quale esempio di spettacolo, del quale esiste una dettagliata relazione nelle miniature del manoscritto della “Passione di Valenciennes”, prendiamo in esame il “Mistero di Villingen”.
Lo spazio preposto alla rappresentazione consta di una superficie a forma di ovale, secato alle due estremità poste sull ‘ asse maggiore. Le dimensioni che così si ottengono sono nella proporzione di AB 4 AD e corrispondenti esattamente a due “quadrilunghi”, cioè due rettangoli formati ciascuno da due quadrati. Pertanto un “luogo” geometrico disegnato entro quattro quadrati.
Lo spettacolo descrive la Passione e la Resurrezione di Gesù Cristo; i luoghi deputati, ove si recita l’episodio deterrninato, sono 22; il percorso seguito dagli attori che si recano nelle varie stazioni è antiorario e il “monte”, rappresentato dal Calvario, è su un livello superiore inserito in uno dei quattro quadrati formanti i due quadrilunghi.
01 — Prima porta | 10 — Caifa |
02 — Inferno | 11 — Anna |
03 — Orto del Getsemani | 12 — L’ultima cena |
04 — Monte degli Ulivi | 13 — Terza porta |
05 — Seconda porta | 14 — 17 — Tombe |
06 — Erode | 18 -19 -Croci dei ladroni |
07 – Pilato | 20 — Croce del Cristo |
08 — Colonna della flagellazione | 21 — Santo Sepolcro |
09 — Colonna del gallo | 22 – Cielo |
E opportuno infine ricordare il “Pianto de la Madonna de la Passione del Figliolo Jesu Cristo” di Jacopone da Todi, 1278-1306, laude drammatica considerata un vero capolavoro teatrale e letterario e, fortunatamente, conosciuta per le mirabili interpretazioni delle più prestigiose Compagnie teatrali.
Analogie del percorso nel “Mistero di Villingen” con la deambulazione nel Tempio massonico
Il percorso che gli attori, nel “Mistero di Villingen”, seguono per recarsi ai luoghi deputati alla recitazione dell’episodio rispetta rigorosamente il senso antiorario e, soltanto per questo, potrebbe accostarsi alla deambulazione che noi massoni pratichiamo durante i rituali lavori.
Risulta, però, anche evidente la completa identità dell’ impianto scenico e spettacolare del “Mistero” con l’ albero delle “Sephiroth”, oltre a una sorprendente analogia delle quattro zone preposte allo svolgimento del tema teatrale con le quattro “Triadi” determinate dall’ Albero Sephirotico.
Secondo quanto è descritto a pag. 101 de “La Simbologia massonica” di Jules Boucher, Dio può
–
essere considerato in sé o nella sua manifestazione. In sé, prima di ogni manifestazione, Dio è un essere indefinito, vago, invisibile, inaccessibile, senza attributi definiti e non può essere rappresentato sia con una immagine, sia con un nome, sia con una lettera e nemmeno con un punto. Il meno imperfetto dei termini che si possono impiegare è il “Senza fine”, l’Indefinito: Quindi l’En Sof che si manifesta in dieci modi con o nelle Sephiroth. Ciascuna di queste, la Corona, la Saggezza, l’Intelligenza, la Grazia, la Forza, la Bellezza, la Vittoria, la Gloria, il Fondamento e il Regno, costituisce un modo speciale di rivelazione o di notificazione dell ‘En Sof e perrnette di nominarlo. Ogni cerchio, limitazione o determinazione dell’ En Sof è una Sephiroth.
Le Sephiroth sono simili a vasi di varia forma che l’En Sofriempie, ma senza esaurirsi in essi, perché li fa traboccare; o a vetri di varia tonalità che attraversa e colora in vario modo, sfumandosi, ma senza perdervi il suo candore. I vasi rappresentano i limiti dell ‘essenza divina, i vetri, invece, i gradi di oscurità sotto i quali l’En Sof vela il suo splendore per lasciarsi contemplare.
È così che dalla prima e più elevata delle Sephiroth, che domina la testa dell ‘ Anziano dei Giorni, derivano due altre Sephiroth, l’una maschia e attiva, la Saggezza o Padre; l’altra, femmina e passiva, l’Intelligenza o Madre, che circondano il Gran VISO, la Bianca testa dell’ Anziano. Saggezza e Intelligenza danno nascita alla Scienza, mediatrice o anello di congiunzione che però non conta nel numero delle Sephiroth.
Dalla Scienza derivano due altre Sephiroth, l’una maschia e attiva, la Grazia; l’altra femmina e passiva, la Forza. Esse sono come le braccia dell’Adam Kadmon, e si concentrano in una nuova Sephiroth, la Bellezza, localizzata nel petto, nel cuore e realizzazione di tutte le cose. Infine dalla Grazia deriva la Vittoria, Sephiroth maschia e attiva e dalla Forza la Gloria, Sephirot femmina e passiva. Da esse dipartono le due gambe concentrandosi nel Fondamento il cui simbolo è l’organo della riproduzione. E nello stesso modo che una Sephiroth, la Corona, è sopra la testa, un’altra, il Regno, è sotto i piedi dell’Adam Kadmon.
Nel considerate queste dieci Sephiroth tra loro e relativamente al posto loro assegnato si trova, nel senso veftcale, la colonna di destra, quella delle Sephiroth maschili: Saggezza, Grazia e Vittoria; la colonna di sinistra, quella delle Sephiroth femminili: Intelligenza, Forza e Gloria e la colonna di mezzo: Corona, Bellezza e Fondamento che domina il Regno.
Nel senso orizzontale: la Corona sostenuta dalla Saggezza e dalla Intelligenza, formanti una triade superiore di ordine metafisico; la Grazia, la Forza e la Bellezza formanti una triade di ordine morale: la Vittoria, la Gloria e il Fondamento formanti una triade di ordine fisico o dinamico. Infine, un’ultima triade composta dalla Corona, dalla Bellezza e dal Regno che corrisponde alla Sostanza, al Pensiero e alla Vita.
A differenza di quanto sopra descritto, molti studiosi e ricercatori ritengono che, pur concordando “in toto” nella analisi, in realtà l’Albero Sephirotico debba essere esaminato “specularmente”, come la riflessione di uno specchio. L’En Sofpuò essere identificato soltanto in modo “virtuale” in quanto appartiene a una dimensione trascendente e non umana. Accogliendo questa ipotesi avremmo pertanto una lettura “ribaltata” di 180 gradi. Come indicato a pagina 317 della stessa fonte, quello che appare a destra, in “realtà” è a sinistra.•
1a