QUANDO ABRAMO ERA UN ARAMEO ERRANTE
di
Biasco Mucci
Premessa
Francesco Maria Arouet detto Voltaire apre il suo “Dizionario filosofico”, documento di importanza fondamentale per la storia politica e morale universale, con “Abramo” (Abraham) e certamente non perché la lettera “A” è la prima dell’alfabeto ma per le ragioni che si affretta ad esporre immediatamente dopo. Testualmente: “Abramo è uno dei personaggi più celebri in Asia minore e in Arabia, come Thotfra gli egiziani, Zoroastro in Persia, Ercole in Grecia, Orfeo in Tracia, Odino presso i popoli del settentrione e tanti altri assai noti per le loro vicende storiche. Parlo, s ‘intende, della storia profana
Proprio il lato storico profano è opportuno esaminare e analizzare, distinguendolo dal contesto religioso e dogmatico e separandolo dalla leggenda, ampiamente divulgata ed enfatizzata, che tutta la vita e le opere di Abramo siano state stabilite e dirette da una volontà trascendente. Sfugge la ragione che per realizzare i disegni dell ‘Onnipotente sia stato prescelto un “arameo errante”, obbediente sino a rendersi esecutore di azioni crudeli e irrazionali, privo di una personale capacità di giudizio e che assurge a capostipite di due popoli che si vantano di discendere dai suoi “virili lombi’
A giudicare le cose solo in base agli esempi della nostra storia moderna, risulterebbe molto difficile stabilire che Abramo sia stato il progenitore di due nazioni così differenti. L’unica caratteristica che accomuna gli ebrei e gli arabi, i primi discendenti da Giacobbe, nipote di Abramo, e i secondi da Ismaele, figlio di Abramo, è che entrambe le razze sono state razze di predoni. Ma i predoni arabi sono stati molto superiori ai predoni ebrei. Infatti, mentre i discendenti di Israele non hanno conquistato che un piccolo paese, che poi hanno perduto e non ancora oggi stabilmente riconquistato, i discendenti di Ismaele, cacciando gli ebrei dalle loro spelonche che essi chiamavano la “Terra promessa”, hanno ancora oggi saldamente possesso, in gran parte dell’Asia dell’Europa e dell’Africa, di un impero più vasto di quello che fu quello romano.
La storia
Un tempo era opinione generale che Abramo discendesse direttamente da un popolo nomade, un popolo che viveva di pastorizia, lontano dalle grandi città e dalle regioni densamente popolate. Tuttavia se egli nacque, come indica la Bibbia ad Ur dei Caldei, allora crebbe in una delle più grandi, progredite e importanti città del mondo antico. Ur era infatti un fiorente centro commerciale e politico molto prima che Abramo nascesse, e tale restò a lungo anche dopo la sua morte. Gli studiosi hanno creduto per molto tempo che Ur si trovasse, in quel periodo, assai più vicina alle rive del Golfo Persico, ma ricerche recenti hanno dimostrato che la linea costiera era quasi identica a quella di oggi. La città si trovava sulla riva dell’Eufrate, in cima ad una altura artificiale e, racchiusa da mura enormi, pullulava di oltre duecentocinquantamila abitanti. Essa giaceva su un’isola delimitata dal fiume e da un canale che, grazie a una rete di altri canaletti, forniva acqua a una vastissima pianura irrigata. Questa pianura comprendeva campi coltivati a cereali, orti e palme da dattero, giacché le bocche da sfamare, nella città sovraffollata che si trovava al centro, erano molte. Per tutta quella zona agricola erano disseminate fattorie, borghi e villaggi.
Entro le sue robuste mura, Ur era un enorme e intricatissimo labirinto di stradine anguste, la maggior parte delle quali non superavano i due metri e mezzo di larghezza. Lungo tali vicoli si allineavano, sui due lati, senza interruzione, file di case quasi tutte prive di finestre. Si trattava quasi sempre di costruzioni cubiche, a due piani, col tetto piatto, erette attorno ad un cortile centrale, su cui le stanze si aprivano per ricevere aria e luce.
Al piano terreno erano disposti i locali destinati ad uso pubblico, e talvolta adoperati per tesservi, per lavorarvi metalli o compiervi altri mestieri. Le camere da letto si trovavano al primo piano e la vita familiare si svolgeva in gran parte sul tetto, riparato da tende.
Così suonano ai nostri orecchi, da oltre tremila anni, le parole della Bibbia: “Tareh adunque prese Abramo suo figlio, e Lot figlio del figlio suo Aran, e Sarai sua nuora moglie del figlio suo Abramo, e li condusse fuori da Urdella Caldea “. (Genesi, I l, 31).
Tareh, padre di Abramo, apparteneva presumibilmente alla classe media, cioè a quella dei mercanti, e la sua doveva essere una bella casa, se si pensa che contava dalle dieci alle venti spaziose stanze. Probabilmente suo figlio frequentò una scuola pubblica, dove imparò a leggere, scrivere e fare di conto e non è da escludere che imparasse anche un mestiere. Abramo raggiunse la maggiore età in uno dei centri più civili e progrediti del tempo. Perché mai allora suo padre raccolse le proprie cose e, con un viaggio di quasi mille chilometri, si trasferì a Haran, nell ‘estremo nord della valle dell’Eufrate? Il quesito non ha risposta sicura, ma l’archeologo Leonard Woolley, che rinvenne molte cose interessanti nei resti della città di Ur, ritiene di averne scoperta una valida nelle cappelle di famiglia, incorporate in tutte abitazioni salvo le più povere, in cui si venerava un “dio della famiglia” Tale culto era nuovo al tempo di Abramo, e il fatto che per gli abitanti di Ur questo dio familiare divenisse più importante del dio Luna — il cui culto si accentrava nello ziqqurat, l’immenso tempio turrito dominante la città potrebbe avere indotto Tareh e la sua famiglia a trasferirsi a Harran, altro centro del dio Luna. Naturalmente, però, non è da escludere che questa migrazione fosse causata da semplici ragioni di interesse, o magari che fosse decisa in seguito alla morte di uno dei due figli. In ogni modo resta il fatto che la migrazione avvenne qualunque ne sia stato il motivo.
Ma quando ebbe luogo questo drammatico episodio? L’epoca patriarcale della Bibbia corrisponde alla media Età del Bronzo, cioè agli anni 2000-1500 a.C. ma sinora non si è stabilito con esattezza quando visse Abramo. I moderni studiosi della Bibbia fanno risalire la migrazione da Ur ad Harran al ventesimo o al diciannovesimo secolo a.C. e pertanto la data tradizionale — 1926 a.C.
che si riscontra in alcune edizioni critiche della Bibbia, potrebbe essere vicina alla verità.
Nella regione nord-occidentale
della Mesopotamia si trova una zona ricca di praterie, chiamata Paddan Aram o
Pianura di Aram. Nella sua zona centrale giaceva Harran, importante punto
d’incontro di piste carovaniere. Sebbene tale città fosse ben lontana da Ur per
distanza, grandezza e importanza, tuttavia non era, come si è reputato per lungo
tempo, un semplice villaggio per le carovane, lontanissimo dai confini con la
civiltà. In realtà, al tempo in cui i patriarchi vi fissarono la loro dimora,
Harran doveva essere una città fiorente, e il fatto che il suo nome si trovi
citato spesso nelle tavolette cuneiformi del diciannovesimo secolo a.C.
avvalora l’ipotesi che si trattasse di un importante nodo commerciale
Harran giaceva sulle rive del Balikh, un centinaio di chilometri a nord della confluenza di tale fiume con l’Eufrate. A un centinaio di chilometri a est di Harran si trovava la famosa Guzan oggi Tell Halaf — ove sono state portate alla luce alcune tra le prime testimonianze del superamento della vita primitiva da parte dell ‘uomo e del suo passaggio dall’età della pietra a quella dei metalli. Pure qui venne rinvenuta la prima traccia di un veicolo munito di ruote.
A circa trecentosettanta chilometri da Harran, scendendo giù per il Balikh e l’Eufrate, sorgeva la città di Mari, a lungo dimenticata e gradualmente scoperta a partire dal 1933. Mari fu la sede del castello forse più grande dell’antichità, un edificio con più di duecento stanze, ma d’importanza ben maggiore sono le ventimila tavolette rinvenute negli archivi del palazzo. Occorreranno molti anni per tradurle tutte, tuttavia, quelle decifrate finora, hanno contribuito concretamente a far luce su tutto quel territorio governato, al tempo di Abramo dai pacifici re di Mari.
Da Palmira Abramo si sarebbe diretto, percorrendo altri duecentoquaranta chilometri, verso la bella Damasco la quale, se era primavera quando vi giunse, dovette apparirgli piena di colori con le sue coltivazioni di albicocchi e di mandorli in fiore. La città è probabilmente la più antica del mondo che sia stata abitata fino ad oggi senza interruzione. Poche città si trovano in una regione così bella, col Monte Hermon a ovest e il deserto che si distende nelle altre direzioni. Damasco è circondata da una verzura e da alberi che si levano dal terreno irrigato, reso ricco e lussureggiante dalle acque del fiume Abana, l’attuale Barada. Per quanto tempo Abramo restò in questa città, considerata dagli arabi un Paradiso in terra? Certo almeno il tempo necessario per acquistarvi un fedele domestico, Eliezer, divenuto poi suo prezioso collaboratore e presunto erede (Genesi, 15, 2).
A sud di Damasco Abramo poteva scegliere tre strade. La prima costeggiava i piedi del Monte Hermon, attraversava il Giordano vicino alla sorgente e scendeva poi lungo la riva occidentale del fiume fino al punto in cui esso si gettava nel Mar di Galilea, allora chiamato Lago di Gennesaret. La strada più breve, e probabilmente la più battuta, portava direttamente a sud-ovest, per attraversare il Giordano una diecina di chilometri dalla sua foce, e lì congiungersi con la prima. La terza cominciava lungo la via più antica — più tardi conosciuta come Via Reale — piegava quindi verso la costa meridionale della Galilea e attraversava il Giordano nel punto in cui esso lasciava il lago. Dopo aver costeggiato per un breve tratto la sponda occidentale, la strada voltava bruscamente nella gola della Piana di Jezrael verso la fortificata città di Betshan.
Non si sa con certezza quale di questi tre itinerari Abramo scelse, giacché quattromila anni or sono erano tutti molto battuti. Sappiamo comunque che il primo accampamento di cui si abbia traccia, egli lo stabilì nell’ampia vallata antistante l’antica Shekem, città posta sulle alture quaranta chilometri a sud di Betshan e difesa dalle montagne gemelle di Ebal e Garizim, alte circa mille metri. La famiglia di Abramo, composta dalla moglie, la sterile Sarai, in seguito chiamata Sara, dal padre Tareh e dai servitori o schiavi, doveva costituire, anche per quei tempi, un gruppo più che numeroso. Probabilmente si trattava di parecchie centinaia di persone, con folti greggi e mandrie. Tuttavia la famiglia e il bestiame di Abramo non costituivano tutta la schiera di uomini e animali che scese senza fretta attraverso le regioni settentrionali di Canaan, cercando pascoli sulle alture centrali. Con Abramo era il nipote Lot, il quale possedeva una famiglia, delle mandrie, dei greggi e dei pastori suoi, probabilmente ereditati dal padre. E l’insieme di questi due gruppi dovette apparire una tremenda minaccia agli abitanti di Canaan, il cui territorio era soggetto a frequenti incursioni da parte di nomadi che, infiltrandosi dal deserto, predavano e saccheggiavano, per poi scomparire di nuovo nelle terre aride. Perciò Abramo e Lot, probabilmente, furono guardati con vero timore mentre alzavano le loro tende nere di pelo di cammello nell ‘ampia vallata antistante Shekem.
Ma anche le popolazioni dei dintorni di Betel, una trentina di chilometri a sud lungo la pista, dovettero provare le stesse apprensioni quando, riprendendo il cammino, quell’orda discese nella zona, benché lungo le carovaniere si fosse certamente parlato dei modi pacifici di Abramo. La città di Betel era sì circondata da mura, ma non era una fortezza. E vi è ragione di credere che la vicina località chiamata Ai fosse stata ridotta da poco tempo a un mucchio di rovine in seguito ad un attacco di nomadi. Imperversava anche la siccità, l’acqua scarseggiava e i pascoli erano già completamente sfruttati. Perciò gli abitanti di Betel dovettero provare certamente un senso di sollievo quando i loro ospiti non invitati s’incamminarono di nuovo verso sud.
A causa della siccità i pascoli di Canaan non potevano dare sostentamento al bestiame di Abramo e di Lot. Così come molti altri nomadi di quel tempo, Abramo e il nipote dovettero cercare rifugio nella terra irrigata dal Nilo. Quale fu il loro nuovo itinerario? Molto probabilmente essi proseguirono lungo la pista solcante la regione montuosa che più tardi doveva chiamarsi Giudea. Se così fecero dovettero attraversare la piccola ma forte Jebus, la città cinta di mura destinata a diventare sempre più vasta e importante e ad assumere, infine, il nome di Gerusalemme. Sempre avanzando verso sud, oltre villaggi e accampamenti, la carovana di Abramo presumibilmente scese dalle montagne fino all’incrocio di piste situato accanto ai pozzi di Bersabea. Lì ebbe inizio una marcia forzata di trecento chilometri attraverso il deserto di Sur. Fu, con tutta probabilità, un cammino lento e difficile, con le bestie affamate che si contendevano il magro foraggio, e c’è dunque da credere che Abramo e Lot fossero animati da sentimenti assai contrastanti quando giunsero ad una delle solide fortezze che costituivano le Mura dei Principi, messe a baluardo dei confini dell’Egitto. Oltre le mura esistevano buoni pascoli, ma gli emigranti avrebbero ottenuto il permesso di varcarle? Le varcarono. E pare che Abramo fosse un personaggio abbastanza importante se indusse il Faraone a stringere con lui una alleanza che fil però anche causa di uno sgradevole incidente. Avendo dichiarato Abramo che Sara, donna molto bella, era la sua sorella e non sua moglie, il Faraone la prese con sé nel palazzo come concubina. Ma quella notte stessa il Faraone fu avvertito dell ‘inganno e bandì Abramo con tutta la sua gente dall’Egitto. In Egitto era sorta da molti secoli ed era venuta sviluppandosi una grande civiltà. Nell’arrivare e nel ripartire dal palazzo del Faraone a Menfi, nte le piramidi, le città e altri aspetti interessanti di quel paese che rivaleggiava con la terra lontana ove era nato. Abramo e il nipote Lot iniziarono il viaggio di ritorno verso nord e ritornarono sulle alture riarse di Canaan. Ancora una volta, però, si trovarono di fronte alla scarsezza dei pascoli e decisero di dividersi. Lot fatta la sua scelta si decise in favore della terra caldissima e lussureggiante, ma abitata estremamente malvagia, che si stendeva nella valle del Giordano inferiore attorno alle città di Sodoma e Gomorra. Lì egli e la sua famiglia conobbero ben presto l’ avversità in quanto furono fatti prigionieri da quattro re scesi dalla Mesopotamia per riscuotere i tributi di altri cinque re che governavano la regione. Forse è appunto il ricordo di questi nove re che la Via Reale venne così chiamata. Si è ritenuto per molto tempo che la valle del Giordano fosse praticamente inabitabile fuorché nelle vicinanze del lago di Galilea e nell ‘oasi attorno a Gerico, ma oggi possiamo ritenere che quattromila anni fa era invece densamente popolata e ricchissima se riuscì ad ingolosire quei re giunti dalle lontane regioni dell’est per depredarla.
Abramo saputo ciò che era accaduto al nipote, armò i propri servi e si mise all’inseguimento dei predoni riuscendo a salvare Lot e la sua famiglia e a recuperare tutte le spoglie depredate. Nel viaggio di ritorno incontrò Melchisedech, re di Salem e sacerdote del Dio altissimo, con il quale strinse un patto di alleanza, cedendogli la decima parte del bottino e celebrando insieme un sacrificio in onore del Signore. Più tardi, tuttavia, Lot conobbe la sua rovina allorché Geova rovesciò fuoco e fiamme sulle città di Sodoma e Gomorra e la moglie di Lot fu tramutata in una statua di sale.
Quanto ad Abramo, egli e il suo popolo, benché circondati da stranieri e così lontani dalla terra di origine, si accrebbero e prosperarono. Fu in questa regione che Dio apparve ancora ad Abramo, come molto tempo prima gli era apparso ad Harran, e gli confermò la promessa che sarebbe diventato il fondatore di molti popoli e lui e la sua progenie avrebbero ereditato in eterno la terra di Canaan. E sempre in Canaan Agar, la schiava di Sara, gli partorì un figlio di nome Ismaele, destinato a diventare il capostipite del popolo arabo. Là pure la vecchia sterile Sara alla fine, per compimento della promessa di Dio, gli partorì un figlio che fu chiamato Isacco. Sempre in Caanan l’Angelo del Signore fermò la mano di Abramo quando questi, nella assoluta obbedienza alla volontà divina, stava per sacrificare l’amato figlio. Nonostante tutte queste benedizioni divine che ricevette in Caanan, Abramo considerava quella terra un luogo pagano. Egli tumulò Sara nella grotta di Macpela vicino ad Hebron ma più tardi, piuttosto che imparentarsi con i Cananei, inviò il suo fedele servitore Eliezer nella Pianura di Aran affinché scegliesse una moglie per Isacco tra le figlie dei suoi parenti che abitavano tuttora in quella regione. Eliezer s’imbatté in Rebecca figlia di uno stretto congiunto di Abramo e la condusse in Caanan ove divenne consorte di Isacco. Isacco e Rebecca si amarono profondamente e, anche dopo la morte di Abramo, restarono in Caanan, la Terra Promessa, ai margini del deserto che si stendeva verso l’interno, dalle città dei Filistei sulle pianure della costa, attorno ai pozzi di Bersabea e nelle valli superiori attorno ad Hebron.
L’ideale ebraico
Dopo la morte di Abramo suo figlio Isacco dimostra una leale sollecitudine per la solidarietà tribale quando, anche lui come suo padre, insiste perché il suo figlio minore, Giacobbe, si sposi con donne del parentado per non spezzare i vincoli familiari. I gemelli d’Isacco, Giacobbe — o Israele — e Esaù, sono presentati in termini di conflitti personali ed economici. Esaù divenne un esperto cacciatore e uomo della campagna… mentre Giacobbe ” .. fu uomo pacifico che se ne stava sotto le tende.. e preferito al primogenito dalla madre Rebecca. Dalle mogli di Giacobbe, Rachele e Lia, e dalle loro rispettive ancelle, Bilha e Zilpa, nascono dodici figli: Ruben, Simeone, Levi, Giuda, Issacar, Zabulon, Dan, Neftali, Gad, Asher, Giuseppe e Beniamino. I loro discendenti costituirono le “tribù di Israele” e i “figli di Israele” ovvero gli israeliti. La loro identità è ora nettamente definita. Essi evitavano le unioni matrimoniali al di fuori del loro gruppo, e vedono in Canaan la loro terra e il loro retaggio. Quando la carestia li spinge in Egitto si considerano come “forestien” o “ospiti di passaggio” in temporaneo esilio dalla loro patria. La loro individualità è sempre riferita alla loro concezione di un Dio monoteistico che presiede agli eventi naturali e al destino umano, in contrasto con il caotico politeismo del pensiero mesopotamico ed egizio. Per spiegare la migrazione di Abramo e l’intensa coesione e solidarietà dei suoi discendenti vengono addotte delle ragioni spirituali, e in realtà non esiste nessuna altra motivazione convincente. Noi dobbiamo ricordare che la Mesopotamia, dove nacque Abramo, era il centro e il vertice della civiltà di quei tempi. Essa superò di gran lunga Caanan per la complessità e la raffinatezza delle sue arti. La legge e il commercio conferirono alla sua organizzazione sociale una stabilità che non possiamo riscontrare altrove. Possiamo solo concludere, in accordo con la storia della Genesi, che la migrazione di Abramo fu ispirata da motivi di protesta e di affermazione. Protesta contro l’incoerenza della vita e del pensiero mesopotamici, e affermazione di una nuova e soddisfacente risposta all ‘enigma del pensiero umano.
La storia dei patriarchi è narrata nella Genesi immediatamente dopo quella della Creazione e del Diluvio. Questa narrazione è ricca di particolari vicini alla tradizione babilonese. Allo stesso modo, nell’episodio di Giuseppe confluiscono molti nomi e leggende di origine egiziana. Ma ciò che separa i patriarchi dal loro contesto contemporaneo è più decisivo di ciò che li collega alla vita e ai costumi dei loro tempi. La storia di Israele emerge dalla notte dei tempi in un atteggiamento non di continuità ma di rivolta. C’è una nuova intuizione circa l’uomo e la natura, e un fiero ripudio delle mitologie contemporanee con i loro pantheon pluralistici delle deità in guerra tra loro. L’unità e la trascendenza di Dio sono idee nuove e dirompenti che trasformano ogni aspetto dell’esperienza e creano nuove categorie di pensiero. La partenza di Abramo dalla sua terra natale simboleggia una secessione radicale dalle idee pagane. Al loro posto la religione israelita postula la legge universale di una unica intelligenza con una sua finalità: un Dio che agisce con uno scopo morale e con la bontà come attributo fondamentale.
Una nazione scrive la sua storia nell’immagine del suo ideale. La storia dei patriarchi, dalla migrazione di Abramo a Caanan fino al soggiorno di Israele e dei suoi figli in Egitto, ha agito con singolare potenza nel pensiero e nell’ideale ebraico. Non si tratta di una leggenda di guerrieri remoti e sovrumani. Non assomiglia alla visione di un fulgido mondo eroico che per i greci e gli altri popoli antichi rappresentava il loro stato originario. Le storie di Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuseppe sono permeate di un senso di predestinazione divina. Ma esse contengono anche una gran quantità di elementi semplici e terreni, che riflettono un riconoscibile sistema di vita umana in cui la lotta e l’astuzia sono mitigate dagli affetti più gentili e delicati. In seguito, nella letteratura e nel ricordo, la nazione ebraica rivide il suo capostipite come il prototipo di due virtù: bontà e calore nei rapporti umani e una assoluta rassegnazione, che andava al di là della mera umiltà, al volere divino. Tanto la tradizione cristiana quanto quella musulmana accettano l’autenticità storica di Abramo e lo ammettono come loro progenitore spirituale. Ma per gli ebrei egli è il primo e l’unico patriarca, il modello della perfezione ebraica. Ispirati dal suo patto e uniti saldamente fra loro dal ricordo di tre generazioni discese dai suoi lombi, i figli di Israele, precariamente stanziati in Egitto, entrano nella storia documentata nella seconda metà del secondo millennio a.C.
Conclusione
Il racconto biblico si fa più vivido e movimentato nel descrivere la comunità israelitica che si evolve come nazione su suolo straniero. Esso narra come la componente tribale fondata da Abramo e dai suoi discendenti sia lacerata da antagonismi personali. Giuseppe, a causa della gelosia dei suoi fratelli maggiori, finisce in Egitto. I suoi fratelli a loro volta vengono sospinti a sud da una carestia che infierisce in Caanan. A quel tempo Giuseppe, a loro insaputa, si è conquistato una posizione di prestigio al servizio del Faraone d’Egitto.
Egli ha immagazzinato il raccolto eccedente di sette anni di abbondanza in previsione di sette anni di carestia che seguiranno. All’indomani di un drammatico incontro coi suoi fratelli, Giuseppe li rimanda a Caanan dopo essersi fatto promettere che torneranno con il loro vecchio padre Giacobbe. I suoi fratelli si stabiliscono a Goshen, a oriente del delta nilotico, Passeranno dei secoli prima che i loro discendenti possano rivedere la terra dei padri e l’eredità loro promessa. All’inizio del loro soggiorno in Egitto sono uomini liberi, che conducono una sicura e tranquilla vita contadina in una zona ricca di acque, lontano dall’incubo della siccità sempre presente a Caanan. Alla fine di questa esperienza egiziana sono schiavi oppressi che fuggono per sottrarsi alla tirannia e alla persecuzione.
Gli israeliti si adattarono facilmente in Egitto alle istituzioni politiche prevalenti, ma la loro vita sociale e culturale a Goshen fu, senza dubbio, appartata e soggetta a una e vera e propria segregazione. La rigidità ritualistica degli egiziani non si lasciò minimamente smuovere e la separazione tra ebrei e egiziani fu ratificata da una sorta di patto reciproco e dalla creazione di una barriera religiosa e sociale che stimolò le tribù israelitiche a conservare vivo nella memoria il paese di Caanan e a coltivare i loro rapporti con i parenti ebrei rimasti al nord.
Con il crollo della dinastia degli Hyksos, agli inizi del sedicesimo secolo a.C. il nazionalismo egiziano si riconsolidò, caratterizzato dalla intolleranza e dall’esclusivismo. Gli ebrei che vivevano a Goshen furono privati della loro libertà, ridotti in schiavitù e al lavoro forzato e impiegati nella costruzione di nuove città. Quando toccarono il fondo dell ‘umiliazione e delle sofferenze sorse in mezzo a loro un capo, Mosè, che divenne il vero fondatore sia della nazione d’Israele che della sua religione. Egli dette alla parola ebraica Iahvé un carattere distintivo e sublime nella coscienza dei suoi compatrioti. Organizzò le sbandate tribù seminomadi e le chiamò alla rivolta. Fece appello al debole ma ininterrotto ricordo della libera vita pastorale che il suo popolo aveva conosciuto nella “Terra Promessa” e, nella definitiva affermazione della sua funzione di guida politica e spirituale, fece uscire gli ebrei dall’Egitto e li condusse, moltitudine querula, turbolenta, scettica e di “collo duro”, oltre il Mar Rosso, attraverso il deserto, fino alle soglie di Caanan, dove essi avrebbero costituito una nazione e offerto una imperitura testimonianza della loro fede.
La nascita di questa fede è stata giustamente descritta come una “rivoluzione nella visione umana nel mondo”. Tutte le religioni precedenti e contemporanee considerano il destino umano soggetto alle leggi della natura. Così come i cicli naturali ritornano al loro punto di origine senza pretese di progresso, la vita umana era concepita come un interminabile e ordinato processo che passava attraverso la nascita e la morte per ritornare ad un punto di partenza sprofondato nelle tenebre e nel caos. Anche gli dei erano soggetti alle passioni, agli istinti e ai desideri umani. Erano associati a manifestazioni naturali, come il sole e la pioggia. Dato che le forze naturali sono diverse e numerose, il concetto pagano di divinità era pluralistico fino ad arrivare alla confusione.
Abramo respinse l’elemento idolatrico del paganesimo. Si rifiutò di adorare tronchi e sassi. Però il suo Dio non era unico, onnipresente e del tutto trascendente. Era la divinità della famiglia di Abramo, non di altre famiglie, e ancor meno di tutta l’umanità.
Quando le cose andavano male Egli manifestava il suo potere rimettendo tutto a posto. La concezione mosaica della divinità è meno familiare e ingenua, più austera, ma molto più elevata. Mosè sa compiere un esercizio di astrazione senza precedenti e riesce a concepire un Dio posto al disopra della natura, immune dalle passioni umane e dagli eventi naturali. Il concetto pagano della storia, inesorabilmente legato alla ruota della ripetizione, permea la maggior parte del pensiero antico di una profonda tristezza. Il suo malinconico tema ricorre molto più tardi, nella storia, nel grido disperato del filosofo e imperatore romano Marco Aurelio: “Su e giù, avanti e indietro, torno torno. Così è il monotono e insensato ritmo dell ‘universo
In contrasto col caratteristico fatalismo della civiltà pagana, il pensiero ebraico, da Mosè in poi, concepisce Dio come il creatore delle forze naturali, esente dal loro ritmo ciclico. I piani divini si compiono non nella natura ma nella storia umana. Il progresso, non la ripetizione, è la legge della vita. Nella tradizione mosaica Dio applica a se stesso un nuovo epiteto: “Io sono colui che sono “, l’unico a cui nessuna definizione può bastare, l’onnipotente protettore del popolo “che è afflitto da tutte le sue afflizioni e lo redime con il Suo amore e la Sua misericordia
Una volta che il destino umano è separato dal ciclo della natura, si libera dalla fatalistica catena dei ricorsi. L’uomo ha pertanto la capacità di respingere il male e scegliere il bene e viene investito di una dignità unica e attiva, fuori della portata di ogni elemento della natura.•