IL PENSIERO MERIDIONALE TRA IL SEICENTO E IL SETTECENTO
di
Concetta Notarile
Delineare in poche righe un profilo del pensiero meridionale costituisce un compito arduo per la molteplicità di motivi che andrebbero presentati, più proficuo forse, è indicare uno “stile di pensiero” che attraversa uno dei periodi più interessanti della cultura meridionale.
Ciò che ha caratterizzato il pensiero meridionale è stata una tradizione vitalistico-naturalistica autoctona che affonda le sua radici in G.B. Della Porta, G. Bruno, B. Telesio, e T. Campanella. Tale tradizione costituì, tra la metà del Seicento e gli inizi del Settecento, una delle componenti fondamentali del confronto critico con l’ Aristotelismo scolastico e con il pensiero moderno.
Di fronte all ‘ avanzante cultura europea, la cultura meridionale trovava una forte identità e continuità culturale nel platonismo. Si ha nel meridione un platonismo civile, riformatore, che dalla metà del Seicento attraversa tutto il secolo dei Intorno alla metà del Seicento, un largo filone della storiografia meridionale, (si pensi a G.B. Vico, ad es.) individua l’antica alternativa all’aristotelismo in un una “filosofia italica”, platonico-neoplatonica, non priva di agganci nell’ ermetismo, e riconosce in essa le lontane origini del pensiero moderno così come si era configurato nel contesto culturale meridionale. In questo contesto storico-erudito, la rinnovata attenzione per il pensiero pitagorico-democriteo-platonico, e quindi “italico”, scaturiva da istanze metafisiche e civili trascurate dal razionalismo cartesiano.
Più in particolare, si può affermare che lo spartiacque aristotelismo-platonismo che vede la riaffermazione di quest’ultimo, nei termini della già citata categoria di “platonismo civile”, da parte della cultura meridionale di questo scorcio di secolo, sembra articolarsi secondo la seguente duplice polarità tematica: a) accentuata sensibilità, secondo la linea dell ‘ ermetismo naturalistico rinascimentale, per la presenza divina nell ‘uomo; b) spiccato interesse per il mondo della storia, invece che per quello della natura, secondo quanto la moderna scienza sperimentale, nata dentro altri e diversi contesti sociali e culturali, andava fortemente rivendicando.
E’ appena il caso di aggiungere che questi due modelli tematici, alla base della categoria storiografica del “platonismo civile”, non vanno assunti in senso né schematico, né restrittivo rispetto agli autori di volta in volta qui ricordati, ma stanno piuttosto a segnare delle linee di tendenza di un percorso storico-ideale spesso contraddittorio e contraddistinto da non poche opacità.
Maturando la sua strategia intellettuale, Giambattista Vico aveva indicato nella Scienza Nuova un modo diverso di guardare alle origini rispetto alla cultura del proprio tempo. Vico sosteneva che nella cultura delle origini non andava cercata una sapienza riposta, piuttosto di una riflessione che appartiene ad uno stadio avanzato della storia dello sviluppo dello spirito umano, da cui la critica vichiana alla “boria dei dotti”, ma una sapienza volgare frutto dell’ intuizione e quindi dell ‘ immaginazione e della fantasia propria dei primitivi. Solo risalendo alla fase aurorale della storia dell’umanità, ma senza i pregiudizi arrecati dalla “boria” (dei “dotti” e delle “nazioni”), si poteva capirne lo sviluppo perché in quella fase si era formata la conoscenza e il vivere associato.
Solo risalendo a questo momento iniziale si potevano cogliere le leggi naturali e immutabili che sono a fondamento dello sviluppo generale della storia dell’umanità assieme a questi importanti spunti della riflessione vichiana, che non mancarono di trovare risonanza presso più di una generazione di illuministi meridionali, si diffuse durante il regno di Carlo III di Borbone, l’interesse antiquario che, in quanto pura erudizione, divenne un impegno ufficiale legato alla corte ma privo di un rapporto ideale con la nuova cultura dei lumi.
Sebbene il ceto intellettuale formatosi alla scuola del Genovesi fosse volto prevalentemente verso problemi di carattere economico e civile, i prodigiosi ritrovamenti degli scavi di Ercolano e Pompei avviati nel 1738 da Carlo III, provocarono tuttavia in quegli anni un diffuso gusto per le origini, quasi una vera moda antiquaria. La grande suggestione che i reperti rinvenuti negli scavi ercolanensi e pompeiani esercitarono sul pubblico, trovava la sua ragione di fondo in una visione accreditata dal mondo classico, ripresa dalla tradizione ermetico-neoplatonica e largamente diffusa dalla massoneria, che aveva avuto a Napoli uno dei confini latomistici. più importanti a partire dal 1734. Secondo tale visione, che non emerse esplicitamente nei dibattiti del tempo, i reperti rinvenuti negli scavi di Ercolano e Pompei erano stati “disseppelliti” da un passato nel quale si celava un canone di verità che il tempo aveva “seppellito”. Tale visione trovò, alla metà del Settecento, la sua espressione più significativa nella poliedrica attività di Raimondo di Sangro.
Per un verso ancorato al naturalismo rinascimentale e per un altro aperto alle istanze dell’Illuminismo, il Sansevero è stato conosciuto per le bizzarre scoperte ed invenzioni, fra tante, le macchine anatomiche, più che per la figura intellettuale offuscata dagli aspri giudizi di S. Di Giacomo e di B. Croce, una nota a parte nella produzione desangriana occupa la famosa cappella gentilizia di gusto barocco per la quale il Sansevero, insieme allo scultore Corradini, realizzò i modelli dei gruppi marmorei che delineano all ‘ interno della Cappella un vero percorso iniziatico nel Cristo morto realizzato da Sammartino.
Di fronte al mancato decollo di una politica di riforme, intorno agli anni Settanta del Settecento, molti intellettuali abbandonarono il cauto riformismo di stampo genovesiano-tannucciano e, pur rimanendo consapevoli di una funzione civile della filosofia, si volsero ad un riesame globale della dinamica storica. Il senso complessivo di questo movimento di pensiero, non è immediatamente politico, perché I ‘ accento non batte su meccanismi istituzionali e di potere, ma etico-storico, cioè in direzione di una “civile filosofia” che fa i conti con la storia.
Gli illuministi meridionali della “seconda generazione” accolsero e fecero proprie le importanti indicazioni storiografiche del pensiero francese e scozzese, senza peraltro perdere di vista nelle loro indagini storiografiche i riferimenti autoctoni, in particolare VICO. Pur negando il realizzarsi di un piano provvidenziale nella storia umana, erano consapevoli della maggior forza persuasiva della religione rispetto alla ragione e dell ‘influenza che la religione ha avuto in tutte le trasformazioni giuridico-politiche. Questa consapevolezza fece sì che il progetto legislativo che il Filangieri delineò nella Scienza della Legislazione, ad es. culminasse nella proposta di una “ragione illuminata” o “religione civile”.
La riflessione sul proprio passato avviata in questi ultimi trent’ anni del secolo, nasceva nel meridione, come si è detto, innanzitutto, dall ‘ esigenza di una riforma morale e politica. Non a caso uno dei cardini della storiografia meridionale del tardo Settecento è costituito dall’individuazione ed esaltazione di un “modello italico” opposto ad un “modello romano”. Riferirsi ad un “modello italico” significava per gli intellettuali sia porre un parametro originario che consentisse di recuperare le radici della “nazione” e quindi di tutta la storia patria nei suoi diversi aspetti, sia, e soprattutto, contrapporre tale riferimento alle corrotte condizioni del regno.
Non va trascurato che evocare un ritorno alle origini non significava per questi intellettuali condividere il mito del buon selvaggio. La teoria dell ‘uguaglianza tra gli uomini, la teoria contrattualistica e quella dell ‘illegittimità della proprietà privata sostenuta da Rousseau.
Gli illuministi meridionali, per ragioni storico-politiche e culturali, intendevano proporre un ‘ uguaglianza civile, non politica. Una delle aree in cui maturarono le più alte espressioni del tardo illuminismo meridionale e dove il naturalismo trovò, non a caso, i maggiori sostenitori, fu la massoneria, che ebbe nella famosa villa dei fratelli Di Gennaro, uno dei più importanti circoli massonici del tempo. Tra i frequentatori di questa villa, posta tra Mergellina e Posillipo, ricordiamo, tra gli altri, Filangieri, Delfico, Cirillo e Pagano, questi ultimi vittime della Rivoluzione del 1799.
Uno dei figli illustri dell ‘Illuminismo meridionale, fu Vincenzo Cuoco, il quale, come molti illuministi meridionali, apriva i motivi di ispirazione vichiana a suggestioni provenienti dalla cultura d’ Nel Saggio storico sulla Rivoluzione napoletana del 1799, Cuoco afferma che la causa del fallimento della Rivoluzione napoletana era da individuarsi nel fatto che essa era stata una rivoluzione “passiva”, ossia, non nata spontaneamente dal popolo, ma si era ispirata al modello francese adottato dagli intellettuali. Era come se la nazione napoletana fosse divisa in “due popoli”, quello degli intellettuali e quello del volgo, che “avevano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse”. Finché c’era questa dicotomia sarebbe stato impossibile realizzare ogni progetto di riforma, di qui I’ esigenza di un’ azione educativa che formasse una nuova coscienza politica.
Nel Platone in Italia, l’autore tornava sugli stessi temi e auspicava una rinascita spirituale dell’Italia non ispirata ad ideologie straniere ma alle sue tradizioni di pensiero e di civiltà. Tale rinascita doveva basarsi su valori comuni ed autoctoni, Cuoco guarda insomma al “platonismo civile”, ma siamo ormai già all ‘inizio dell’ Ottocento. •