La Certosa fiorentina:
la sua testimonianza artLLA CERTOSA FIORENTINA la sua testimonianza artistica, culturale e spirituale
di
Daniele Mucci
Premessa
È’ evidente che uno studio completo e dettagliato sulla Certosa del Galluzzo non può essere esaustivo in un saggio da svolgere nel tempo concesso al relatore delegato a presentare, principalmente, un “abstract” che può essere in seguito, al massimo, assunto come percorso da seguire per una ricerca a livello storico, architettonico, religioso e anche sociale, più ampia e determinante.
La bibliografia esistente sul complesso monumentale è però così vasta che, da sola, prova l’importanza e il valore culturale della struttura e questo può essere di valido supporto se l’argomento, come è auspicabile, interesserà analisi più impegnative e specifiche.
Introduzione
L’intenzione di fondare nei pressi della propria città natale un monastero dell’Ordine della Certosa fu espressa pubblicamente per la prima volta da Niccolò Acciaiuoli nel 1328 a Napoli, dove ormai da sette anni dimorava per curare gli interessi della propria famiglia e dove aveva già iniziato la sua ascesa sulla scena politica del regno angioino. Nella città partenopea egli aveva potuto constatare il grande impegno che il re Roberto e l’intera corte ponevano nell’edificazione della Certosa di San Martino, fondata nel 1325 dal primogenito del re, Carlo, duca di Calabria, morto ancor giovane. Gli Angioini, strettamente legati alla Francia e ad Avignone, favorirono pienamente l’Ordine certosino e nella costruzione di quel grande monastero, che con i suoi edifici dominava la città, l’Angiò vedeva sicuramente un motivo di prestigio per il suo regno. Niccolò, già attratto dagli onori e dalla gloria, non poteva non rimanere colpito da quell’evento e lui stesso, anni più tardi, vorrà parteciparvi faAlessandro Cecchini: Veduta della Certosa di Firenze (circa 1700) cendo costruire quattro
cappelle nella chiesa della Certosa napoletana.
ale Emulazione ed ambizione dunque, desiderio di grandezza e di fama imperitura sono alla base della fondazione della Certosa di Firenze; ma anche un primordiale amore per la religione in quell’istintivo desiderio di salvare l’anima, che era l’unico che l’Acciaiuoli, nel suo spirito, impulsivo ed irrequieto, poteva comprendere. Ottenute le debite licenze dal Generale dell’Ordine e dal vescovo di Firenze, durante un lungo soggiorno nella città natale quale ambasciatore del re Roberto d’Angiò — in un momento delicato della vita politica fiorentina che vide di lì a pochi mesi il governo tirannico del duca d’Atene, Gualtieri di Brienne — Niccolò Acciaiuoli, 1’8 febbraio 1342, poté realizzare il trasferimento all’Ordine certosino delle terre e dei beni necessari per l’istituzione e la costruzione del nuovo monastero. Fu del prescelto a tal fine il colle detto “Monte Acuto”, alla confluenza dei torrenti on- Greve ed Ema, presso il Galluzzo, lungo l’importante strada per Siena e per che Roma. L’atto di donazione delle terre e dei beni all’Ordine certosino è molper to preciso nelle disposizioni relative all’edificazione del monastero, che si più delinea in tutta chiarezza “secundum laudabilia dicti ordinis instituta et consuetudinem approbatam”: cioè un complesso, dedicato a San Lorenzo, sta per dodici monaci e un priore, con una chiesa, un oratorio, capitolo, sagrestia, cappelle, tredici celle e tutti gli altri edifici necessari a condurvi una vita conventuale nell’osservanza della regola.
Si poté dunque dare inizio all’erezione del nuovo insediamento nella primavera del 1342; e quando, nel settembre dello stesso anno, fu perfezionato il totale possesso da parte dei certosini del poggio di Monte Acuto con l’acquisto di altre estensioni di terreno dal pievano di Sant’Alessandro a Ita Giogoli, intervenne già nella stipulazione dei relativi atti il primo priore di San Lorenzo a Montesanto, don Roberto da San Miniato.
Dopo la nomina a Gran Siniscalco del regno angioino e dopo l’acquisto di grandi feudi in Grecia e nell’Italia meridionale che resero Niccolò Acciaiuoli uno degli uomini più ricchi del suo tempo si iniziò ad erigere, a 25 fianco del monastero, quel “palatium magnum” che ancor oggi si impone e, alla vista di chi sale alla Certosa, quale magnifica dimora personale di a, Niccolò, con ampie sale e annessi giardini e “con altro adornamento que axtimare si potesse dovere essere suficente ale persone d’ogni inlustriximo et sereniximo principe, non ecieptuandone papa né imperatore”.
In una lettera del 3 aprile 1336 viene indicato il nome del principale architetto responsabile del complesso trecentesco e precisamente fra Jacopo e Passavanti, il priore di Santa Maria Novella, che si avvalse dell’opera di Jacopo Talenti, nome certo di non secondo piano nell’ambiente artistico fiorentino. i L’architettura essenziale e solenne in cui gli elementi decorativi sono ridotti al minimo induce a ragionevolmente sostenere che — come afferma il Vasari — la Certosa fu opera di “valentuomini” vissuti al tempo dell’Orcagna.
Nella costruzione della Certosa si incontrarono e perfettamente si fusero due tradizioni architettoniche diverse. Da una parte gli schemi tipici dei i monasteri certosini e dall’altra gli elementi morfologici e la tecnica edificatoria che risalgono direttamente ai modi dell’architettura fiorentina attuati dalle maestranze locali e che si possono riscontrare in altri edifici coevi di Firenze e del suo contado. Contemporaneamente alle grandi cure che nel 1336 egli prestava alla fabbrica del proprio palazzo, Niccolò continuò ad interessarsi con sollecitudine degli edifici monastici, mostrandosi in ciò rispettoso delle iniziative dei monaci. Non solo tali lavori non furono trascurati ma si iniziò anche una nuova fase di essi. In una lettera al priore della Certosa, del 1 0 luglio 1336, egli manifesta il proposito di far “duplicare” il monastero, di passarlo cioè al rango di Certosa doppia con la costruzione di altre dodici celle per i monaci. Questa intenzione sarà riformulata in termini analoghi nel testamento del 1359, nel quale si specifica che le nuove celle dovranno costruirsi “juxtaformam aliarum cellarum”. Col che veniamo a sapere che un primo chiostro con le relative celle già esisteva in Certosa a quell’epoca. La Certosa fiorentina probabilmente non giunse mai ad essere una vera e propria Certosa doppia, ma neppure rimase una Certosa semplice per soli dodici monaci ed un priore. Dopo il totale rifacimento del chiostro grande ai primi del Cinquecento, vi si potevano contare diciannove o venti celle regolari, e bisogna pure tenere presente che la cella del procuratore, come già appare in un documento della seconda metà del Quattrocento, si trovava “extra claustrum”.
Già alla morte di Niccolò Acciaiuoli la Certosa di Firenze era sostanzialmente compiuta, proprio negli anni prossimi a quella data, soprattutto tra il 1362 e il 1370, vengono registrati nei libri di memorie del monastero grandi acquisti di terre e beni immobili, mentre non si accenna mai a spese per completamento o l’ampliamento delle fabbriche. Certamente la chiesa e tutte le strutture del complesso monastico erano perfettamente agibili prima del 1380, altrimenti non si potrebbero spiegare gli avvenimenti di cui la Certosa di Firenze fu teatro negli anni compresi fra il 1380 ed il 1390, e che le fecero assumere una posizione particolarmente importante in seno all’Ordine. Il 30 maggio 1380 vi si tenne infatti un Capitolo speciale di una parte dell’Ordine che ribadì la sua fedeltà al papa di Roma, Urbano VI, mentre il Capitolo Generale della “Grande Chartreuse” fu costretto a parteggiare per l’antipapa avignonese, Clemente VII.
Nel 1383 la Certosa di Firenze fu scelta quale sede generalizia dei certosini all’obbedienza romana e il suo nuovo priore, don Giovanni da Bari, assunse il titolo di “Prior Cartusiae Maioris”. Fu qui che si tennero i Capitoli generali dei certosini fedeli a Roma negli anni 1385, 1388 e 1389. Ma la guerra tra Firenze e Milano, apertasi proprio in quest’ultimo anno, costrinse il Capitolo generale del 1391, tenuto a Montello (Treviso), a decidere il trasferimento della Sede generalizia da Firenze alla Certosa austriaca di Seitz, la più antica per fondazione (1160) tra quelle delle Province dell’Ordine fedeli a Roma.
Al chiudersi del secolo la Certosa si mostrava perfetta e grandiosa a coronamento del Monte Acuto. I suoi edifici, le celle, le fortificazioni, la chiara sagoma della chiesa, si stagliavano contro il cielo sollevando la meraviglia dei viandanti, come poteva tranquillamente annotare, nel 1440, Matteo Palmieri nella sua opera “Vita Nicolai Acciaiuoli”. La sua costruzione fu un fatto notevole per gli eventi dell’architettura fiorentina del Trecento e la chiesa monastica in particolare rappresentò un fatto nuovo: con la semplice, unica navata coperta da ampie volte a crociera, essa rispecchiava pienamente i modi dell’architettura certosina, mentre non rispondeva affatto alla tradizione stabilitasi in Firenze fin dall’epoca romanica e protrattasi in periodo gotico. Secondo quest’ultima infatti le chiese a sala, cioè a unica navata, erano coperte sempre con tetto ligneo a capriate in vista.
Ed è alla Certosa stessa che allo schiudersi del nuovo secolo troviamo in costruzione un altro sacro edificio ancora una volta ispirato ai modi dell’architettura certosina: la Cappella di Santa Maria, alla quale si lavorava nel 1404. La chiesa di Certosa, col suo spazio interno unitario e chiaramente definito, con la sobria decorazione pittorica che, nei limiti imposti dagli statuti, probabilmente ornava le pareti e le volte, il ritmo ampio e lento dello svolgersi di queste ultime, deve aver, certamente, sensibilizzato gli architetti fiorentini a nuove e diverse ricerche dello spazio architettonico che verranno accolte ed elaborate, ormai in pieno Quattrocento, soprattutto da Michelozzo e dagli artisti più legati al suo ambiente.
a- singoli ambienti, seguite immediatamente dalle attività degli artisti impegnati nell’arredo. I maggiori interventi furono patrocinati da personalità interessate all’evoluzione della Certosa fra le quali, oltre al fondatore e altri ù membri della sua famiglia, si annoverano alcuni priori illuminati che favorirono un incremento delle cosiddette “arti minori”, come l’oreficeria e l’arte libraria. I monaci certosini, pur nel chiuso delle loro celle, trovavano in li realtà all’interno del monastero molti incentivi atti a mantenerli in stretto contatto con i contemporanei movimenti culturali. Il Vasari attesta la presenza, che non può oltrepassare la metà del XIV secolo, di Buffalmacco, che avrebbe eseguito due tavole a tempera, delle quali “l’una è dove stanno per il coro i libri da cantare, e l’altra di sotto nelle cappelle vecchie”. Ancora il Vasari informa che Antonio Veneziano dipinse per l’altar maggiore una tavola andata distrutta, poco prima della metà del Cinquecento, in un incendio sviluppatosi per inavvertenza del sagrestano che aveva lasciato un turibolo acceso.
In questo periodo la Certosa doveva già presentarsi degna di accogliere inestimabili tesori, ma è difficile ricostruire con precisione come fosse veramente strutturata nel Trecento, dal momento che per la parte più antica, cancellata anche da interventi successivi, sussiste una forte carenza di documenti. Lo stesso Vasari, fonte di preziose notizie, costituisce una testimonianza ormai tarda preceduta da troppe vicende intervenute a trasformare il volto del monastero, fra cui la più penosa fu certamente l’assedio di Firenze del 1530, che vide il convento ridotto a quartier generale delle truppe imperiali, sebbene molto più significative sarebbero state le ristrutturazioni condotte dall’ultimo quarto del XV secolo alla metà del XVI.
Tuttavia la Certosa del Trecento ci ha tramandato il complesso scultoreo più splendido di tutto il monastero, composto dai più eccezionali capolavori dell’arte del tempo. Esso comprende il monumento funebre di Niccolò Acciaiuoli e le tre lastre terragne di Acciaiuolo, Lorenzo e Lapa da attribuirsi, senza alcun dubbio, a uno o più scultori attivi nell’ambito dell’Orcagna e la cui realizzazione risale al 1385. Questo periodo, compreso tra la fine del Trecento e i primi del Quattrocento è caratterizzato da un notevole incremento artistico che coincise con l’edificazione della Cappella di Santa Maria, unica opera promossa — dopo quelle del fondatore — da un membro della famiglia Acciaiuoli. I grandi interventi successivi saranno diretti esclusivamente dai priori del monastero. L’edificazione della Cappella costituisce un momento importante per l’evoluzione architettonica e artistica della Certosa. La pianta si presenta a croce greca, pur trattandosi di una navata divisa in tre campate e la struttura architettonica con le volte a crociera costolonata impostate su archi a sesto acuto, come pure le finestre a ogiva, rivelano un linguaggio gotico, ma si avverte una più decisa definizione dello spazio — nel rigore quasi geometrico dell’impostazione dei pilastri e nell’identica altezza delle volte che frena lo slancio ascensionale gotico che prelude allo spirito del primo Rinascimento.
È un’architettura questa dalla quale Michelozzo potrebbe aver tratto molti suggerimenti e ciò non solo in relazione alla concezione spaziale e agli elementi morfologici dell’interno, ma anche dalla studiata volumetria del corpo esterno, dove è presente, come elemento decorativo, un cornicione in cotto situato immediatamente sotto la gronda, costituito da mattoni disposti a dente di lupo, motivo che diverrà tipico delle architetture michelozziane.
Terminati i lavori alla Cappella di Santa Maria, le attività in Certosa sono caratterizzate da un lungo periodo di stasi che si protrae fino alle soglie dell’ultimo quarto del XV secolo e investe tutti i campi della vita culturale.
Nuovo colloquio ideale tra il monaco e Dio. Momento essenziale della formazione del monaco-eremita è la “scuola” della cella, tra le cui mura egli, durante quasi l’intero arco della giornata, si dedica alla “lectio divina”, alla “meditatio” e al lavoro manuale, secondo un costume che deriva dalle più antiche forme eremitiche del cristianesimo orientale. Ciò che caratterizza però in modo nuovo l’istituzione certosina è il fatto che l’eremita non è lasciato solo a se stesso nel suo difficile cammino verso Dio, poiché egli viene a far parte di una vera comunità che trova il suo momento di coesione in determinate pratiche di vita cenobitica, proprie anche alla tradizione benedettina, quali la corale recita di alcune parti dell’ufficio divino e, a seconda dei giorni e delle circostanze, la refezione comune, la riunione capitolare dell’intera comunità, l’assoluta obbedienza che in ogni istante è dovuta al priore del monastero.
In ogni Certosa la comunità monastica è rigorosamente distinta in due categorie di religiosi: i monaci eremiti da una parte, che vivono in pieno il “propositum cartusiense” ed ai quali è demandato il governo della collettività stessa e i fratelli laici o conversi dall’altra, che sotto la direzione del priore e del procuratore, pur non tralasciando affatto la preghiera, si interessano in primo luogo delle esigenze materiali della comunità e dell’amministrazione dei possedimenti del monastero. Nei primi due secoli di vita dell’Ordine queste due categorie di religiosi formarono quasi due distinte strutture, che oltretutto risiedevano in complessi monasteriali diversi, posti ad alcune miglia di distanza l’uno dall’altro: i monaci nella “domus superior” o “casa alta” — la Certosa vera e propria — e i fratelli conversi nella “domus inferior” o “casa bassa”, una specie di grangia, ma più sviluppata di questa, con celle ed oratorio, ove si svolgevano tutti i servizi manuali a favore della confraternita. La domenica e nelle altre feste le due congregazioni si riunivano però nella “domus superior”.
Il riunirsi delle due comunità in un unico complesso monasteriale determinò la definitiva formazione della tipologia del monastero certosino. In realtà la pianta di una Certosa può variare profondamente da una casa all’altra e non si riscontra mai l’adozione normativa di uno schema-tipo, come avviene invece per le abbazie cistercensi del XII-XIII secolo. In questa varietà vengono però sempre rispettati, nel corso dei secoli, certi rapporti di vicinanza e di collegamento tra i vari ambienti e certe loro caratteristiche fondamentali.
Pur accogliendo la tradizionale tipologia monasteriale certosina, le Certose trecentesche non solo regolarizzarono gli schemi distributivi e le strutture delle costruzioni, ma nell’espressione delle loro architetture tendevano ormai a realizzare una maggiore armonia e perfezione, talvolta anche di una grandiosità di forme, che non rifuggivano da valutazioni d’ordine essenzialmente estetico. In questo senso la volontà dei fondatori si faceva sempre più preponderante, volendo essi dar vita a monumenti che per i loro pregi artistici ricordassero ai posteri la loro magnificenza e liberalità verso la Chiesa. Esempio emblematico di questa tendenza sarà, alla fine del Trecento (1393), la Certosa di Pavia, costruita in forme ricche e fastose, devianti da qualsiasi tradizione dell’Ordine, per volontà del duca di Milano Gian Galeazzo Visconti, che invano i certosini tentarono di contrastare. Ciò accadde anche per la Certosa di Firenze.
Sviluppo e vita della Certosa fiorentina dalla fondazione alla soppressione
La vita del monastero è inscindibile dall’evoluzione artistica e architettonica oltre agli sviluppi, successivi, relativi alle trasformazioni dei
A parte alcuni interventi alla cella del priore, iniziati nel 1466, è solo negli ultimi anni del Cinquecento che si manifesta una precisa volontà di rinnovamento edilizio, il quale ben presto coinvolge anche la pittura e la scultura, mentre già dai primi anni dell’ottavo decennio assistiamo ad un intensificarsi delle commissioni per opere di oreficeria e miniatura, tutte andate perdute e che rivivono soltanto attraverso i documenti.
Sotto il priore don Gregorio d’Alemagna, nel biennio 1484-1485 veniva edificato il chiostrino dei conversi alle cui celle si lavorava già da un anno e che è il primo ambiente in Certosa edificato in forme rinascimentali, pur essendo impostato sulle strutture di una preesistente corte trecentesca. Esso è costituito da un doppio ordine di loggiati: quello inferiore è coperto a volte a crociera sostenute da colonne con capitelli a palmette, quello superiore da volte a vela poggianti su colonne sormontate da capitelli in stile ionico.
Quest’ultimo è certamente dovuto a un rifacimento settecentesco ma, in origine e rispettando la tradizione quattrocentesca era, senza alcun dubbio, coperto da una loggia trabeata. Il fervore edilizio di quegli anni culmina nel 1491 con la decisione di ricostruire completamente il chiostro dei monaci. Esso venne ampliato sul lato occidentale dalla parte del bosco, fatto che determinò la scomparsa degli orti dei monaci, sostituiti da questo lato da loggette.
Non appena conclusasi la costruzione del chiostro, i lunettoni angolari del loggiato divennero il supporto per gli affreschi eseguiti dal Pontormo tra il 1524 e il 1527. Essi segnano un momento fondamentale nell’arte del primo manierismo toscano per l’abbandono, da parte del Pontormo, dei modelli classici per trarre ispirazione, nel soggetto come nello stile, dal Dürer. Di fondamentale importanza è pure, in Certosa, la presenza di Andrea Della Robbia, Benedetto da Maiano e del Bronzino giovane, autore delle due lunette ad affresco il “San Lorenzo” e la “Pietà” e allievo del Pontormo.
Alla seconda metà del Cinquecento erano già iniziati i lavori di rinnovamento della chiesa e fino al 1580 assistiamo alla completa ristrutturazione della zona anteriore al monastero, consistente nell’ampliamento della chiesa e della foresteria nuova, nel completamento del palazzo Acciaiuoli ed infine, a completamento di questi lavori, nell’edificazione del grande piazzale antistante la chiesa sul quale si prospettano i tre edifici. L’abbattimento dell’antico tramezzo che divideva i monaci dai conversi, fu uno degli ultimi interventi murari, al quale seguì, all’inizio del terzo decennio della seconda metà del XVI secolo, la costruzione del coro ligneo.
Nel 1556, dopo un’interruzione di due anni, nel corso dei quali i certosini furono impegnati al ripristino dell’ospizio da loro acquistato in via San Gallo a Firenze, vennero intrapresi i lavori al nuovo coro dei conversi e, dal 1557 al 1559, si ricostruiva in forme rinascimentali anche il chiostrino dei monaci il cui lato, addossato alla chiesa, era occupato dal “Colloquio” che fu arricchito da otto vetrate decorate, due delle quali rimaste però incomplete. L’ultimo decennio del XVI secolo è monopolizzato dai lavori alla zona presbiteriale che coincidono all’arrivo in Certosa del Poccetti il quale, nel 1590 0 1591, iniziò la decorazione della “Cappella della chiesa” completandola nel 1593. Con il completamento del piazzale si concludeva ogni tipo d’intervento architettonico teso a modificare le strutture fondamentali del monastero. Questo significa che la Certosa ha ormai raggiunto un assetto monumentale dove gli ambienti sono ben definiti e attendono soltanto di venire valorizzati mediante l’arredo. Altra constatazione importante è frutto di un esame di documenti, dai quali si rileva lo stretto legame, intensificatosi con la seconda metà del Cinquecento, che unisce la Certosa ad altri monasteri dell’Ordine presenti nelle città di Bologna, Genova, Pisa e Siena, fra i quali si verifica un vero e proprio scambio di artisti.
pere di rinnovamento dell’intera zona presbiteriale della chiesa monastica, già si era dato inizio al completo rifacimento della “Cappella delle Reliquie”, preludio a quel generale riassetto di tutte le cappelle, nello sforzo di adeguare, agli indirizzi suggeriti o prescritti dalla Controriforma, quegli ambienti dove, con la celebrazione della messa individuale, il monaco viveva il momento più alto della sua quotidiana preghiera.
Nei primi anni del Seicento si ricostruì, almeno per un lungo tratto, la “clausura”, quel lungo muro di cinta, proprio ad ogni Certosa, che anche qui a Firenze comprendeva al suo interno i terreni posti immediatamente intorno al monastero e di sua stretta pertinenza, cioè in definitiva tutto il Monte Acuto, dalle sue falde lungo la Greve e l’Ema, fino alla Strada Romana.
Già nei primi anni del Settecento si attendeva a opere di elevato impegno ed interesse. Dal 1714 si lavorò alla nuova libreria e si iniziò la revisione dell’archivio con il restauro e la rilegatura dei libri di alto valore artistico, storico e culturale. Nel 1752 fu redatto un nuovo inventario dell’archivio, conservatosi per lungo tempo in Certosa anche dopo le soppressioni. Nel 1794 si dava inizio all’ultimo intervento che in Certosa modificò in maniera sostanziale gli ambienti interessati: il completo riassetto delle quattro cappelle, l’una di seguito all’altra, adiacenti alla chiesa. Pareva che i monaci non si dessero cura degli eventi politici rivoluzionari, che in quegli anni si profilavano ormai, non più soltanto all’orizzonte.
Il 9 gennaio 1801, essendo giunti e installati in Certosa centocinquanta soldati francesi, i monaci fuggirono al Castellare rientrando solo dopo alcuni mesi. Ma con il decreto del 13 settembre 1810 di Napoleone, Imperatore dei Francesi, il monastero della Certosa era soppresso e i monaci furono costretti ad abbandonarlo, definitivamente l’il ottobre dello stesso anno.
Dopo la soppressione
Dopo la partenza dei monaci la Certosa fu occupata da varie famiglie che presero a pigione le celle e le stanze. Furono allora rimosse dal monastero numerose opere d’arte, molte delle quali andarono subito disperse, mentre altre vennero trasportate all’Accademia di Belle Arti. Dopo la restaurazione del Granducato la Certosa parve riprendere il suo antico tradizionale aspetto, legato alla sua funzione di centro di vita religiosa.
Quelli della prima metà dell’Ottocento furono gli anni più difficili per la comunità certosina e, date le ristrettezze economiche, non era sempre possibile nemmeno l’osservanza della Regola. Nel 1844 i monaci chiesero addirittura alla Santa Sede il permesso di vendere alcuni quadri.
Nel 1862 corse la voce che taluni oggetti fossero stati alienati e il governo italiano inviò sul luogo l’ispettore Carlo Pini al quale si deve la compilazione del primo inventario degli “Oggetti d’Arte della Chiesa e Convento della Certosa di Firenze”.
La soppressione degli ordini religiosi decretata dal governo italiano nel 1866 avrebbe potuto portare nuovi turbamenti nelle vicende della Certosa fiorentina, ma questa volta furono gli stessi monaci che tempestivamente intervennero con una supplica al re d’Italia e al ministro Bettino Ricasoli, supplica con la quale si invocava un’eccezione per cui la comunità certosina potesse mantenersi nel monastero. Così di fatto avvenne e i monaci rimasero custodi della Certosa, dichiarata monumento nazionale, e delle opere d’arte in essa contenute.
Ma il destino della Certosa era ormai segnato. Anche se rimarrà per un verso un autentico monastero, essa diventerà sempre più meta “turistica” per chi nei giorni di festa, vorrà allontanarsi dalla città, fuori Porta Romana. Nel 1869 Giuseppe Alinari otteneva il permesso di riprodurre in fotografia
alcuni monumenti della Certosa: fatto di grande importanza che consentirà una conoscenza a più vasto raggio, di innumerevoli opere d’arte. Ciò permetterà a restituire al monastero quel ruolo di “luogo” sempre più familiare e apprezzato dai conoscitori e amanti della storia dell’arte.
È tuttavia il complesso della Certosa nel suo insieme che richiama ancor oggi i cultori e gli studiosi della storia dell’arte. Dal 1958 i monaci cistercensi hanno sostituito i certosini nella custodia del monumento e la maggior apertura al “mondo” della loro regola monastica ha permesso un più adeguato inserimento della Certosa stessa nel vasto panorama culturale della città di Firenze. La Soprintendenza ai Beni Architettonici e Ambientali per le province di Firenze e Pistoia ha intrapreso con attento interesse e alta specializzazione il restauro generale dell’intero complesso, restauro che ha ormai toccato praticamente tutti gli ambienti principali e che si auspica proseguirà, insieme a un più attento ordinamento delle opere d’arte, nei prossimi anni.
Appendice storica: La famiglia Acciaiuoli
L’illustre famiglia guelfa fiorentina era originaria di Bergamo. Alla fine del XIII secolo Leone di Riccomanno fondò una compagnia mercantile che salì presto a grande ricchezza e potenza, finanziò sovrani ed ebbe succursali nei principali centri di Europa e del Mediterraneo. Pure nella vita pubblica di Firenze gli Acciaiuoli ebbero parte notevole sia all’epoca del libero Comune sia durante la Signoria dei Medici, di cui furono fautori. Un membro della famiglia di nome Acciaiuolo costruì una immensa fortuna nel regno di Napoli, donde gli Acciaiuoli passarono in Grecia divenendo con un Raineri, parte per eredità e parte per conquista duchi di Atene. Un Angelo Acciaiuoli (1349-1408) fu Cardinale e Arcivescovo di Firenze, tutore di Ladislao re di Napoli, governatore del regno e pacificatore tra il papa Bonifacio IX e la famiglia Orsini. Un Donato Acciaiuoli (1429-1478) fu un dotto umanista, membro dell’Accademia Fiorentina, gonfaloniere di giustizia, oratore efficace e fautore della filosofia di Aristotele:
Infine Niccolò Acciaiuoli (1310-1365), figlio di Acciaiuolo salì a grandi onori nel regno di Napoli ove diresse gli affari del principato di Taranto, conquistò per il principe Roberto il principato di Acaia, divenne il più influente consigliere dei sovrani angioini e raggiunse l’altissima carica di Gran Siniscalco del regno. A lui si deve la costruzione della Certosa di Firenze e resta, quale testimonianza, una celebre lettera autobiografica.
Firenze: dal libero Comune alla Signoria
Fin dalle sue origini (secolo XII) il Comune aveva visto continui, sanguinosi contrasti tra guelfi e ghibellini. Nel 1266 però i guelfi ebbero il sopravvento, con l’appoggio della ricca borghesia, che si affrettò a rafforzarsi del proprio potere, affiancando al Capitano del Popolo e al Podestà alcuni magistrati detti Priori, scelti tra gli iscritti alle Arti maggiori. A consolidare il nuovo governo contribuirono gli “Ordinamenti di Giustizia” di Giano della Bella (1293), che escludevano dalla vita politica non solo i nobili, ma anche il popolo minuto e la plebe. Con tutto ciò la ricca borghesia, che si raggruppava nello schieramento guelfo, non ebbe vita facile e ad un certo momento si spezzò in due gruppi: i “Bianchi” e i “Neri”. Si aprì un lungo periodo di discordie, del quale approfittò il papa Bonifacio VIII per appoggiare i Neri, che non si mostravano contrari ad un suo intervento nella affari della città. A lui si deve se, nel 1301, i Bianchi furono cacciati da Firenze con l’aiuto di Carlo di Valois, fratello del re di Francia. Fra gli esuli bianchi vi fu anche Dante Alighieri che morì a Ravenna senza poter rivedere Firenze.
Le lotte continue segnarono però anche per Firenze la fine dei liberi ordinamenti comunali. Infatti i fiorentini, stanchi per i continui disordini, chiamarono dei “Signori” ai quali affidarono temporaneamente il potere. Uno di questi, Gualtieri di Brienne, duca di Atene, abusò scandalosamente della sua autorità e venne cacciato a furore di popolo dopo in solo anno di governo (1343). Le lotte tuttavia continuarono, prima fra i nobili e il popolo grasso, poi fra il popolo grasso e il popolo minuto, appoggiato dalla plebe.
Il contrasto giunse alla sua manifestazione più clamorosa nel 1378, quando i “Ciompi” — i salariati dell’industria della lana — mal pagati, mal nutriti e costretti a vivere in misere condizioni, insorsero e si impadronirono del Palazzo della Signoria. La rivolta ebbe, in un primo, momento successo, ma spaventò i borghesi, spingendo Arti maggiori e Arti minori ad unirsi per soffocare il movimento. Alla fine però il potere rimase alle Arti maggiori, cioè alla ricca borghesia, sotto il cui governo Firenze ebbe alcuni anni di stabilità che le permisero d’ingrandire il suo territorio e di raggiungere il mare a Pisa e a Livorno. E per l’appunto in questo periodo che alcune importanti famiglie si avviano a controllare completamente il governo della città: La più fortunata, in questa corsa al potere, la famiglia “dei Medici”, la quale, se pur di modeste origini, era divenuta potente per le ricchezze accumulate con l’esercizio del commercio e per i rapporti di affari stabiliti con sovrani e finanzieri di tutta l’Europa.
Si affermò così una “Signoria” appoggiata dal popolo minuto, che non nascondeva al Medici la propria simpatia per la generosità da essi più volte dimostrata. Fondatore della dinastia medicea fu Cosimo il Vecchio che, dopo avere ereditato un patrimonio tra i più solidi e consistenti della Toscana, era riuscito ad aumentarlo in modo considerevole sfruttando una serie di fortunate operazioni bancarie ma traendo anche profitto dalla lavorazione della lane e della seta. Cosimo riuscì a rimanere arbitro della vita politica fiorentina e, quel che più stupisce, seppe ottenere tutto ciò senza assumere nessun titolo e senza modificare l’ordinamento politico cittadino.
La potenza dei Medici raggiunse, in questo periodo, il suo culmine con i due nipoti di Cosimo: Giuliano e Lorenzo, quest’ultimo chiamato dai
posteri “11 Magnifico”.•