diBarbara Stefanelli
Jonathan Haidt, psicologo sociale e docente alla New York University: tra i teenager e i 20enni c’è un’epidemia di sofferenza psichica, con il raddoppio dei casi di depressione. Sono giovani non più in grado di elaborare traumi, personali e collettivi, stratificati nel tempo
(DIRE) Roma, 14 feb. – “Ci siamo inizialmente focalizzati sulle dipendenze tecnologiche di adolescenti che hanno un uso problematico, addirittura patologico di internet, dello smartphone e dei social network: sono circa 12mila gli studenti di tutta Italia che hanno chiesto aiuto per difficoltà a ridurre l’utilizzo dei social e addirittura oltre un milione di persone nella fascia di età fino ai 35 anni che, nel nostro Paese, hanno un uso problematico dei social e di internet”. Lo racconta all’agenzia Dire il professor Alessandro Vento, psichiatra, responsabile dell’Associazione Osservatorio sulle Dipendenze e membro della Commissione sulle dipendenze dell’Ordine dei Medici di Roma, commentando quanto emerso nei giorni scorsi dall’evento dal titolo ‘Dipendenze giovanili: dimensioni del fenomeno e strategie di prevenzione’. All’incontro, ospitato presso l’Aula Magna Sante de Sanctis della Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università Sapienza di Roma, hanno preso parte numerosi docenti, insegnanti universitari, psicologi e studenti. Al filone delle dipendenze tecnologiche si affianca, purtroppo, quello delle dipendenze da sostanze, in particolare alcol e sostanze psicoattive. “Abbiamo dati allarmanti- evidenzia Vento- in particolare sull’utilizzo epidemico dell’alcol tra i ragazzi delle scuole superiori: da diversi studi, tra cui Espad Italia e Associazione Osservatorio sulle Dipendenze, oltre alle fonti ufficiali governative, emerge una fortissima ed epidemica diffusione dell’alcol tra gli studenti delle scuole superiori, addirittura l’85%, praticamente tutti”. Non va meglio se sotto la lente di ingrandimento si mettono i numeri relativi al consumo della cannabis. “Il dato più alto è quello relativo a quanti consumano cannabis occasionalmente- prosegue- dato che tocca il 30% degli studenti delle scuole superiori. Per quanto riguarda le nuove sostanze psicoattive, quelle di sintesi, di nicchia, abbiamo rilevato che in Italia ne fa uso un 5% di studenti e di giovani adulti”. Non solo: se il 25% degli studenti nella fascia d’età 15-19 ha fumato cannabis almeno una volta nell’ultimo anno, sono circa 75.000 gli studenti italiani in questa fascia d’età che fumano abitualmente cannabis (10 o più volte al mese), determinando un effettivo e importante fattore di rischio per l’insorgenza di disturbi psichiatrici. È possibile porre un freno a questi fenomeni? “Dipende dalle fasce d’età- risponde l’esponente dell’Omceo della Capitale- in quelle più giovanili stiamo andando nelle scuole a fare informazione e prevenzione primaria precoce attraverso la ‘peer education’, ovvero l’educazione tra pari, con il coinvolgimento il leader di ogni classe, il ‘peer educator’, che ha il maggiore carisma e la personalità più forte e che ha poi il compito di veicolare il messaggio a tutti i compagni. Lo stiamo facendo in numerosi istituti della Capitale e abbiamo preso accordi per cominciare a lavorare su scala nazionale. Voglio inoltre precisare che l’attività di ‘peer education’ del 2023 e quella in corso nel 2024 si realizza grazie al contributo di Fondazione Roma, erogato all’Osservatorio sulle Dipendenze”. “Nelle fasce più alte di età- informa- le strategie sono più complesse e basate maggiormente sul meccanismo della psicoeducazione. Cerchiamo infatti di dare sempre elementi educativi e informativi ma con una modalità diversa da quella che utilizziamo con i più giovani. Poi c’è una prevenzione secondaria e terziaria, ovvero quella che utilizziamo per quanto riguarda le persone che hanno già avuto esperienze con le sostanze d’abuso”. “La Commissione dell’Omceo Roma- ricorda Antonio Bolognese, professore onorario di chirurgia alla Sapienza Università di Roma e responsabile scientifico della Commissione sulle dipendenze dell’Ordine dei Medici di Roma- è fortemente impegnata nel trattare queste tematiche, perchè da quando è stata istituita, il 5 maggio del 2022, c’è una notevole richiesta di parlare di questi argomenti nelle scuole e nei centri sportivi, soprattutto da parte degli insegnanti, dei presidi e degli istruttori di sport, per una fascia di età sempre più precoce, che va dai dieci ai 15 anni”. Con l’intento di prevenire e limitare il consumo di sostanze psicoattive e con potenziale di addiction tra i giovani, con particolare riguardo alla cannabis, prevenire l’insorgenza di stili di vita disfunzionali e di comportamenti a rischio e di indirizzare persone con disagio psichico a specifici interventi di counseling, l’Osservatorio sulle Dipendenze e sui Disturbi Psichici Sotto Soglia ha dato vita a ‘In-dipendenza’: il progetto intende mettere in luce i rischi e le conseguenze dell’uso della cannabis sulla salute mentale dei giovani e di altri disordini dell’area delle dipendenze attraverso incontri nelle scuole e nei centri sportivi con genitori e ragazzi, fornendo loro un’informazione scientifica corretta e non distorta dalla ‘cattiva informazione’. “Grazie a ‘In-dipendenza’- spiega- abbiamo coinvolto cinque istituti scolastici di Roma, ovvero Bramante, Chateaubriand, Kennedy, Newton e Visconti, e 3 circoli sportivi, Canottieri Aniene, Aquaniene e T.C. Parioli. L’azione di prevenzione primaria è stata condotta su 1.615 studenti, dalle terze medie alle superiori, 90 allievi dei circoli sportivi, 323 genitori di studenti e allievi e 116 tra insegnanti e allenatori della Capitale”. “Credo sia fondamentale- conclude Bolognese- la testimonianza di quanti hanno superato delle montagne e che oggi sono diventati delle persone di prim’ordine. Su mia sollecitazione pochi giorni fa è stato siglato un Protocollo d’intesa tra l’Ordine dei Medici di Roma e il ministero della Pubblica Istruzione per poter avere la possibilità che siano le scuole a cercare noi e non viceversa. Abbiamo già fatto dei progetti e sto cercando di sensibilizzare la direttrice generale dell’Unione Scuole regione Lazio per far sì che questo possa avvenire il prima possibile”. (Fde/Dire) 13:47 14-02-24 NNNN
La GenerazioneZ, cioè i nostri figli o nipoti nati dalla metà degli anni Novanta al 2010/12, sono un prodotto dell’umanità “danneggiato da uno smottamento nella cultura dell’infanzia”? E questo smottamento è l’esito dell’incrocio tossico tra una super protezione da parte dei genitori nella vita fisica e un’assenza totale di protezione da parte di qualunque adulto nella vita digitale? E se la risposta alle prime due domande è sì, abbiamo drammaticamente bisogno di “una correzione culturale” prima che sia troppo tardi per i nostri ragazzi e il futuro della specie?
La questione – presentata con diagrammi, esempi e contro-obiezioni alle critiche prevedibili – è stata posta da Jonathan Haidt, psicologo sociale e docente di leadership etica alla Stern School of Business della New York University, il quale ha appena pubblicato The Anxious Generation ed è stato in passato autore di saggi premonitori sulla fragilità emotiva delle generazioni “viralizzate”. Il suo punto di partenza, non solo americano, sono i numeri. Che cosa dicono le ricerche, le statistiche, gli esperimenti accademici? Che la percentuale di giovanissimi (teenager) e giovani (ventenni) colpiti da depressione fa registrare un aumento a doppia cifra (più del 50% negli Stati Uniti). E così i tentativi di suicidio e i pensieri suicidari (in particolare nella popolazione femminile) rispetto a dati rimasti stabili fino al 2000 e non soggetti alla stessa oscillazione in altri strati della popolazione. Ci sono ulteriori lampeggianti, segnali di pericolo visibili a tutti, meno gravi e tuttavia preoccupanti per quanto si stanno rivelando comuni a società che potremmo definire “occidentali”, trasformate – se non sconvolte – dalla tecnologia: il peggioramento della performance scolastica, soprattutto in matematica; la frammentazione della capacità di attenzione; l’impoverimento delle relazioni umane; il disinteresse crescente per i rapporti sessuali; la tendenza a restare nella famiglia di origine e la ritrosia ad avviarne una propria; una diffusa avversione al rischio, a causa della rarefazione delle esperienze dirette, che tende ad abbassare l’asticella dell’ambizione rispetto ai predecessori “in casa”, Boomer (1946- 1964) e GenerazioneX (1965-1980).
Il libro, anticipato sul magazine The Atlantic, ha subito aperto una discussione negli Stati Uniti per la visione apocalittica dell’autore. Haidt è convinto che l’ambiente in cui i ragazzi crescono sia “ostile allo sviluppo umano” e che questa condizione stia provocando “un’epidemia” di sofferenza psichica. Causa della caduta sarebbe l’attraversamento della pubertà con in tasca uno strumento sempre acceso che ti spegne rispetto alla realtà circostante per calamitarti verso Paesi delle meraviglie e dell’eccitazione. Dove la produzione di dopamina è incessante – attivata da like, retweet, commenti – fino a provocare una dipendenza che impedisce ogni rientro in un universo senza filtri. Come succede invece alla Alice di Lewis Carroll quando ritrova le sue dimensioni e si sveglia nel giardino d’origine. Questo “collasso esistenziale” sarebbe cominciato con il passaggio dai cellulari agli smartphone e la diffusione di questi negli anni Dieci.
Per Judith Warner, che ne ha scritto sul Washington Post ed è a sua volta autrice di studi sulla stessa generazione (tra cui E poi smisero di parlarmi: come dare senso alla scuola media), il nesso di causa-effetto dovrebbe essere spostato nel campo della correlazione. I ragazzi e le ragazze della Generazione online, secondo lei, andrebbero visti come il sintomo di una patologia mentale generale, allargata a un’intera società che non è più in grado di elaborare traumi, personali e collettivi, stratificati nel tempo. Siamo – adulti e bambini – esposti a una vulnerabilità che minaccia il nostro benessere quotidiano e ci induce a una fuga scomposta davanti alla complessità.
Il bivio è profondo ma, nell’incertezza, alcune soluzioni proposte da Haidt sembrano di buonsenso. Tenere gli smartphone rinchiusi in un armadietto durante le lezioni a scuola. Non regalare ai nostri figli e nipoti telefoni in grado di collegarsi alla rete fino alle scuole superiori. Alzare da 13 a 16 anni l’età ammessa per aver accesso ai social network (con verifiche plausibili del rispetto della norma). Non basterà, è un gradino in una scalata, ma una riconversione andrebbe studiata. Siamo andati allo sbaraglio, li abbiamo gettati in mare senza salvagente e lezioni di stile libero.