CENSURE IMMAGINARIE

CENSURE IMMAGINARIE

Il vittimismo selettivo nell’epoca in cui le parole non hanno alcun peso

Le contestazioni a Cecchettin, Ceccarelli, Massini e Siti viste al Salone di Torino non sono poi così diverse da quelle alla ministra Roccella. Ma ci piace indignarci solo per chi ci sta simpatico (o è nella nostra chat)

Unsplash

 

L’altro giorno una tizia solidamente di sinistra mi ha chiesto conto del successo di Vannacci. Poiché sopravvaluto sempre l’umanità, pensavo che volesse sapere com’era accaduto che uno sconosciuto fosse a un certo punto stato l’autore più venduto d’Italia, e quindi mi sono prodigata in spiegazioni tecniche.

 

La tempesta perfetta, la classifica Amazon per essere primi nella quale bastano trecento copie, il giornalista di Repubblica che se ne accorge, il nome che arriva a chi non l’avrebbe mai notato, la polarizzazione, l’appartenenza, la rava, la fava. La tizia era annoiatissima.

 

Mi ha obiettato: ma è un libro così banale, secondo me è per questo che i libri non vendono, perché devo comprare un libro se quel che ci trovo dentro è lo stesso che otterrei facendo una domanda a ChatGPT?

 

Ho cercato di spiegarle che veramente è il contrario, che è l’epoca dei tutorial, del giornalismo di Google, delle dieci righe di Wikipedia come massimo orizzonte d’approfondimento, solo le cose semplificate funzionano, quasi solo la letteratura per analfabeti ha un mercato.

 

A un certo punto, senza sapere niente di questa tizia che vedevo per la prima volta ma di cui non era difficile intuire il posizionamento sociale e culturale, ho detto: anche la Murgia scriveva cose semplici, non è che perché lei ti è affine e Vannacci no allora il successo della semplificazione di lui è inspiegabile. La tizia ha avuto degli spasmi alla muscolatura facciale, mi ha detto che la Murgia era la sua scrittrice preferita, ha chiesto se questo le facesse perdere punti ai miei occhi, e io ho pensato – per la trecentesima volta quest’anno – che la Meloni vincerà le prossime trecento elezioni.

 

Perché quelli che dovrebbero essere intelligenti sono i più fessi di tutti. Perché gli adulti si preoccupano del punteggio agli occhi degli interlocutori quando esprimono un loro gusto. Perché, soprattutto, non siamo in grado di avere criteri oggettivi, ma solo simpatie.

 

Quando la settimana scorsa Eugenia Roccella è stata contestata a un convegno, tutto è andato come previsto. Lei che si definisce censurata, che fa la vittima, mentre chi ha impostato sul vittimismo interi fatturati improvvisamente lo stigmatizza; e l’opinionismo di sinistra che per giorni ci fa venire l’orchite ripetendo a memoria la lezioncina sulla differenza tra censura dall’alto e contestazione dal basso.

 

In questi casi – era già successo coi giovani invasati che invece di urlare alla Roccella tiravano la vernice sulle opere d’arte, e i presunti intellettuali che ci spiegavano che era «vernice lavabile», non avendo evidentemente mai ritinteggiato le camerette dei figli e non sapendo quindi cosa significhi «vernice lavabile» – mi chiedo sempre da dove arrivi la frase che ripetono tutti.

 

La dice uno per primo e gli altri si convincono sia efficacissima e non valga la pena pensarne una propria? O c’è proprio una circolare, la cosa giusta da dire è vernice lavabile, la cosa giusta da dire è contestazione dal basso? Dove arriva, la circolare: nella chat di Giannini?

 

Breve divagazione, a proposito di censure immaginarie. Al Salone del libro di Torino – intitolato con un manifesto di mitomania, e cioè “Vita immaginaria” – a un certo punto Massimo Finzi Giannini parlava della chat che per qualche giorno ci ha fatto tanto divertire, ed è arrivata Serena Bortone.

 

Nel video – pubblicato sul TikTok di Robinson, quello che aveva già pubblicato la Schlein secondo cui l’equazione è che i lettori siano di sinistra: chiunque curi quell’account è evidentemente determinato a devastare la reputazione della sinistra dall’interno – Giannini dice a Bortone che lei si merita la standing ovation che le stanno facendo, e inquadrano la platea che è tutta compattamente seduta. È uno spot di vita immaginaria di rara efficacia. Fine della divagazione.

 

Insomma tutti si mettono lì a spiegare che non è censura ma contestazione, perché pensano le parole abbiano ancora un peso e «censura» significhi qualcosa, beati illusi, e si debba dire che no, noi la censura no, noi la censura mai.

 

La distinzione tra censura e contestazione mi ha fatto pensare che, se fossimo in anni di brigatisti, forse ci spiegherebbero che se un politico fa ammazzare un cittadino è dittatura, ma se un cittadino ammazza un politico è dialettica democratica. Non riesco a ricordarmi chi mi avesse detto che i partecipanti alla chat di Giannini verranno ricordati come coloro che firmavano appelli contro il commissario Calabresi, ma chiunque tu sia sappi che, sebbene in ritardo, sto ridendo rumorosamente.

 

Censura, contestazione: nessuno dice la cosa ovvia. Le reazioni all’essere molestate dal pubblico mentre si sta parlando possono variare: l’inglese, che ha parole per tutto, chiama heckler il tizio che urla cose dalla platea interrompendo un comico, e i comici che dal palco zittiscono gli heckler sono un genere a sé. Le reazioni possono essere più o meno efficaci, ma chi va a rompere i coglioni a qualcuno che sta parlando è comunque disturbato, comunque infelice, comunque esibizionista, comunque un caso umano (o una persona giovane, stato passeggero che racchiude tutti questi e molti altri limiti).

 

Sempre nel Salone dei libri immaginari – che Annalena Benini ha giustamente trasformato nel festival culturale adatto a un secolo di non lettori, non lettori che certo non vanno lì per i libri ma perché ci sono Gianni Morandi o Paolo Sorrentino, e comprano costosissime custodie di stoffa per libri, custodie in cui infileranno un tablet o magari un libro di ricette – c’è stata, l’avreste vista giacché era su tutti i siti, la contestazione di Elena Cecchettin.

 

Quel che non avete visto, e che invece mi pare il dettaglio migliore, è che la stessa tizia che ha disturbato la Cecchettin è andata, col costo d’un solo biglietto d’ingresso, a urlare in faccia anche a Filippo Ceccarelli che ha osato scrivere un libro su Berlusconi – «I morti li dovete lasciar stare!», gli ha ingiunto – e a Walter Siti, il cui “I figli sono finiti” le ha offerto agevole spunto per strepitare che i figli sono finiti perché li ammazziamo, noi assassini di bambini (Siti temo ne abbia ammazzati pochini: signora, le faccio sapere quando presento qualcosa, almeno ha degli aborti da rinfacciare).

 

Della contestazione a Siti e Ceccarelli non è stata data notizia per distrazione o per far sembrare più speciale quella alla Cecchettin? C’è differenza tra la contestatrice di scrittori e le contestatrici di ministra? È quella differenza tra il dal basso e il dall’alto che amano ripetere gli opinionisti da talk-show? O non è piuttosto quella del piano terapeutico necessario alla signora del Salone che mi descrivono come adulta, ma magari non alle liceali cui poi la giovinezza passa senza medicinali?

 

O è la stessa questione di Vannacci, e ha a che vedere con quanto sposiamo le idee di qualcuno? Se uno spostato, invece che la manica di Stefano Massini, avesse strattonato quella di Vannacci, ci saremmo turbati meno perché Vannacci non è nelle nostre stesse chat, o perché allo strattonatore di Massini possiamo dare del fascista e invece quello eventuale di Vannacci non sappiamo come chiamarlo (forse «staffetta partigiana»)? La signora che rompe i coglioni a Siti ci sembra una pazza perché, ohibò, è contro l’aborto; le liceali che rompono i coglioni alla Roccella ci sembrano sensate perché, in versione acerba, hanno le stesse nostre idee.

 

Ci piace tanto stigmatizzare il vittimismo di chi non ci piace: René Girard ormai lo citano pure sui bigliettini dei Baci Perugina; e, se “Critica della vittima” avesse venduto tante copie quanta è la gente che lo cita, Daniele Giglioli avrebbe accumulato più royalties di Umberto Eco. Ma nel profondo dei nostri cuoricini non ci dispiacciono né il vittimismo né la semplificazione: anzi; li consideriamo così preziosi da volerli riservare a chi ci sta simpatico, e ci infastidisce che se ne appropri l’avversario.

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