LE ANFORE
Servizio di Lari Mario pubblicato dalle riviste “Scienza e vita” e “Geos”
La navigazione ha avuto seLE mpre una grande importanza fin dall’antichità. In particolare, il trasporto delle merci sull’acqua era notevolmente facilitato rispetto a quello via terra, effettuato con carri trainati da animali e quindi più lento e costoso. Ma le navi che trasportavano anfore, dette navi onerarie (onerarius, che porta peso), a causa degli insufficienti strumenti di navigazione, della scarsa manovrabilità e dell’assenza di carte nautiche, potevano affondare durante una tempesta nei punti più pericolosi, punteggiando il Mare Nostrum di innumerevoli relitti.
L’archeologia subacquea, scienza relativamente nuova, esiste da quando si è potuti andare sotto le acque con strumenti abbastanza affidabili ed ha permesso di aprire alcuni di questi scrigni giacenti sul fondo del Mediterraneo per ammirarne i tesori: Conoscere il passato ha da sempre esercitato un notevole fascino sull’uomo e capire le anfore, saperne distinguere le forme, valutarne le caratteristiche e le differenze, significa capire un po’ l’epoca storica in cui furono prodotte e usate. Spesso da uno di questi oggetti si riesce a risalire al contenuto trasportato, alla rotta che la nave stava percorrendo, al luogo da cui essa veniva ed anche al luogo dove sarebbe andata.
Con l’anfora si poteva trasportare di tutto, o meglio tutto ciò che poteva passare dal suo collo. Si hanno notizie certe che viaggiavano dentro le anfore: salse, olive, pesci, orzo, grano, lumache, miele, formaggio e monete. Ma per.secoli le navi solcarono i mari portando soprattutto due preziosi liquidi: il vino e l’olio. Quelle eleganti, che servivano per il trasporto del vino, sono state ritrovate in numerosi relitti sparsi lungo le coste del Mediterraneo. Attraverso la mappa di questi ritrovamenti e aiutati dai bolli impressi sopra le anfore, è stato possibile stabilire che il commercio del vino in epoca imperiale univa il Lazio alle coste. della Francia, dove sono state ritrovate anfore identiche con identici bolli, e all’Inghilterra, dove il vino arrivava dopo un viaggio lungo i fiumi francesi.
Un traffico di enormi dimensioni, che si può spiegare solo pensando alla legge del Senato romano che nel II secolo a.C. proibiva agli abitanti della Gallia di coltivare la vite e di produrre il vino: la guerra del vino tra Italia e Francia era già cominciata per colpa dell’imperialismo economico romano che voleva proteggere i suoi ottimi vini, quali il Cecubo e il Falerno.
L’olio consumato dagli abitanti di Roma in età imperiale proveniva in gran parte dalla Spagna, dove nella Betica se ne produceva una qualità pregiatissima. Esso veniva inviato a Roma in anfore costruite sul posto: con la loro presenza in fondo al mare, hanno tracciato la rotta delle navi che le trasportavano. Verso il III° secolo d.C., a seguito delle invasioni barbariche in Spagna, si registrò una crisi di rifornimenti di olio a Roma, che preferì approvvigionarsi dalle coste africane.
L’olio giungeva così dentro un nuovo tipo di anfora, costruita con la tipica argilla rossiccia, e chiamata appunto africana grande, con pareti sottili e piuttosto. fragile, ma con un rapporto peso-contenuto estremamente vantaggioso.
Non si sa ancora perché le anfore avessero certe forme: per esempio è difficile comprendere perché il vino fosse contenuto in anfore alte e affusolate, mentre l’olio veniva messo in quelle basse e sferiche. È stata data invece una spiegazione certa alla forma del fondo, che finiva sempre a punta: serviva per infilare il primo strato di anfore nella sabbia della zavorra della nave perché stessero diritte, ma era anche necessario per consentire il trasporto dell’anfora durante le operazioni di carico e scarico.
Una sola persona poteva infatti afferrare l’anfora con una mano sull’ansa e con l’altra sul puntale senza fare grossi sforzi. Dopo aver formato il primo strato, le anfore venivano incastrate nello spazio libero tra una e 1’altra, con le anse posizionate a 90 gradi rispetto a quelle precedenti. Era comunque fondamentale, come del resto lo è anche oggi, che il carico non avesse possibilità di movimento e che il tutto costituisse una massa compatta, che in presenza di avverse condizioni del mare non desse problemi.
I viaggi erano infatti molto pericolosi e le navi non potevano reggere il mare grosso, ma nel caso di un naufragio, non sempre tutto era perduto. Si hanno infatti notizie sicure di recuperi organizzati dagli urinatores: un vero e proprio corpo di sommozzatori che ricevevano un compenso proporzionale alla profondità dell’immersione. Sappiamo anche che di questo corpo fece parte perfino una donna: il suo nome era Aurelia Nais.
Le anfore erano costruite in argilla (il materiale anticamente più reperibile e meno costoso) ed erano formate da sei parti distinte: l’orlo, due anse, il collo, il corpo, il piede. Queste parti venivano preparate separatamente al tornio e assemblate prima della cottura in forno. Se l’anfora era fatta per contenere liquidi, doveva essere impermeabilizzata con resine o bitumi spalmati a caldo. il vino contenuto in queste anfore assumeva un gusto particolare e spesso ricercato, come nel caso di quello contenuto nelle anfore spalmate di bitume di Giudea, che dava al vino un sapore forte e dolciastro.
Una volta riempita, l’anfora veniva chiusa ermeticamente con un tappo che, grazie alla forma a imbuto del collo, non poteva cadere all’interno. Avevano diverse fogge ed erano costruiti in materiali diversi; in terracotta, avvitati nella scanalatura del collo (sopra i tappi di questo tipo spesso venivano fatti segni che indicavano il contenuto dell’anfora o il nome del proprietario del vino), in sughero, in legno. A volte venivano usati come tappi delle pigne. Sopra il tappo veniva poi spalmata cera liquida o pece; per questo è stato possibile ritrovare anfore perfettamente sigillate, ancora con il vino dentro.
Una volta arrivate a destinazione e svuotate del loro contenuto, le anfore spesso non venivano riutilizzate, dato che la loro pulizia interna sarebbe stata problematica ed era più economico distruggerle. A Roma, a poca distanza dall’antico porto fluviale, c’è una collina artificiale formata da cocci di anfore, vuoti a perdere trasportati in quel luogo dagli antichi netturbini romani e dagli scaricatori delle navi.
Nel tempo si è formato così il Monte Testaccio; alto circa 50 metri, con un perimetro di circa 800 e formato da non meno di 40 milioni . di pezzi di anfora. Le prime file di cocci alla base sono sistemate così accuratamente che non c’è spazio tra l’una e l’altra, tanto che un noto ristorante della zona ha potuto ricavare molti anni fa la sua grande cantina all’interno del monte, senza problemi di stabilità delle pareti. Andando verso l’ alto si nota invece che i cocci non sono disposti precisi come prima, ma sono stati evidentemente gettati alla rinfusa (siamo nel II°-III° secolo d.C., quando Roma contava 1 ,5 milioni di abitanti).
Per la grande maggioranza si tratta di cocci di anfore spagnole che avevano contenuto olio. Il Mons Testaceus, o monte dei cocci, può essere considerato un immenso archivio storico all’aperto dei commerci romani, tanto che nel 1873 Enrico Dressel iniziò lo studio sistematico di questi cocci (che a molti sembravano tutti eguali) e di quelli provenienti dallo scavo del Castro Pretorio.
Dressel riuscì negli anni a fare la catalogazione completa di 45 tipi diversi di anfore, distinguendone le varie forme e completando una precisa tabella (che porta il suo nome), usata ancora oggi dagli studiosi. La stesura della tabella fu resa possibile attraverso lo studio e la interpretazione dei bolli impressi sul collo o sulle anse delle anfore. Anche se ancora non si è ben capita l’effettiva funzione del bollo, resta assodato che servisse a pubblicizzare la bottega o l’artigiano che produceva l’oggetto, a meno che il produttore del contenuto non desiderasse imprimere il suo stesso nome. Lo studio approfondito dei bolli consente anche di capire meglio l’ organizzazione economica delle aziende.
Esamineremo adesso alcuni dei tipi più importanti e diffusi di anfore, procedendo per ordine cronologico e descrivendo le loro principali caratteristiche in modo che il visitatorie di un museo o di un antiquarium possa riconoscerle e capire meglio il loro contesto storico.
– Le anfore greco-italiche, piuttosto piccole, sono caratteristiche perché contengono le forme delle antiche anfore greche ma con il restringimento e allungamento del collo. Sono generalmente attribuite a produzioni della Magna Grecia o siciliane, vanno dalla seconda metà del IV secolo al II secolo a.C. Erano adibite al trasporto del vino destinato alle province galliche e ispaniche. Testimoniano l’espansionismo politico-economico romano.
– Le Dressel 1, diffusissime, furono impiegate dalla fine del II secolo a.C. alla fine del I secolo a.C. Avevano l’ altezza di circa un metro e la capacità di 20-26 litri. Stanno a indicare l’assoluta egemonia del vino italiano sui mercati del tempo, dalle coste mediterranee agli accampamenti militari che presidiavano la frontiera germanica.
– Le Dressel 2/4, che intorno al I secolo a.C. avevano del tutto sostituito le Dressel 1 fino al II secolo d.C. Si possono riconoscere facilmente perché sono le uniche ad avere le anse bifidi, cioè a doppio bastone. Con esse sfuma un po’ il predominio della produzione italica di anfore nel I secolo d.C. Si diffondono numerosi altri tipi di anfore costruite all’ estero, dato che Roma inizia l’importazione di vino dalle province.
– Le Dressel 20 con corpo a globo, collo corto, anse a grosso bastone, sono l’esempio di anfore straniere. Erano prodotte in Spagna, nella Betica, servivano per l’ esportazione dell’olio. Sono quelle che hanno contribuito in gran parte alla formazione del Monte Testaccio a Roma.
– Le africane, che iniziarono ad arrivare verso il II secolo d.C. dall’ Africa del Nord, contenevano soprattutto olio e salsa di pesce. Raggiunsero la massima espansione verso il III° secolo d.C., per terminare con la decadenza dell’Impero Romano e l’invasione araba dell’ Africa settentrionale. Rappresentarono una vera e propria evoluzione tecnica del modo di costruire le anfore, dato l’esiguo spessore delle pareti e la forma quasi cilindrica. Pesavano soltanto 17-18 chili e avevano un favorevole rapporto di peso tra vuoto e contenuto, vicino a 3,5.
Vicino al Monte Testaccio, c’era l’antico porto fluviale di Roma Augustea, con i magazzini: i famosi Horrea Galbana e Sulpicia. Lì vicino, proprio dove oggi esiste il mercato di Porta Portese, vivevano duemila anni fa numerosi artigiani con le loro botteghe, pescivendoli, scaricatori di porto, commercianti in cerca di affari, ladruncoli, curiosi e operai, in catapecchie sempre minacciate dalle alluvioni. C’erano poi i cantieri navali, i magazzini delle merci e gli arsenali delle navi.
Queste, se molto grosse, non potevano arrivare a Roma lungo il Tevere e il loro carico veniva trasbordato su chiatte (le caudicariae) che risalivano il fiume trainate dalla riva sinistra da buoi. La più grande nave oneraria mai scoperta è la nave romana di Albenga, che rappresenta anche il primo esempio di studio e di recupero di un relitto importante.
Questa oneraria (meglio definita come myriophoroi) affondò davanti alle coste liguri nel I secolo a.C. mentre trasportava anfore vinarie Dressel 1. Con le anfore vennero in superficie piatti e ceramiche a vernice nera, prodotti nelle stesse zone del vino trasportato, oltre a 7 elmi in bronzo che servivano probabilmente a difendere la nave da eventuali attacchi di pirati. La nave di Albenga, uno dei relitti più interessanti del Mediterraneo, era lunga 40 metri ed era rivestita esternamente da una lamina di piombo per difendere il legno dalla tremenda Teredo navalis: un mollusco che scava gallerie nel legno delle navi.
Un’altra scoperta importante per l’ archeologia subacquea è stata la nave ritrovata davanti alle coste liguri di Diano Marina. Naufragata nel I secolo d.C., aveva a bordo pochissime anfore, ma trasportava 14 grossi orci di terracotta: i dolia. Notevolmente diversi da tutti i recipienti sino allora conosciuti, erano enormi contenitori stivati nella parte centrale della nave: possono essere paragonati ai moderni containers per la loro capacità, che poteva arrivare fino a 3.000 litri. Probabilmente erano destinati a contenere vino nuovo o mosto e seguivano anche loro la via della Gallia. I dolia, a differenza delle anfore, venivano costruiti con impasti poco depurati per poter ottenere una buona resistenza e, vista la loro grandezza, non potevano essere costruiti al tornio, ma venivano fabbricati a mano un po’ per volta in ambienti caldi.
Uno degli ultimi relitti scoperti lungo le coste italiane è quello esplorato recentemente all’Isola del Giglio, grazie ai soldi raccolti attraverso una sottoscrizione pubblica ( e la cosa meriterebbe attente riflessioni anche per altre iniziative analoghe). La nave, risalente al I secolo d.C., conteneva anfore africane alte un metro e venti centimetri usate per il trasporto dell’olio dalle coste tunisine e nord-africane. Quelle del Giglio presentavano però all’ interno un rivestimento di pece, segno che avevano contenuto una merce più rinomata e pregiata, anch’essa proveniente dall’ Africa: il garum. Era un prodotto basilare per molte ricette romane, costituito da salsa di interiora di pesce lasciate a macerare ne! sale e nell’olio: un po’ come oggi si preparano le acciughe, ma allora era incredibilmente ricercato e costoso (per le ricette antiche fatte a base di garum, vedi il numero del novembre 1989 di Scienza & Vita).
Oggi, con i moderni sistemi, è abbastanza facile immergersi a notevoli profondità e non è impossibile imbattersi in un relitto di nave oneraria. È però opportuno fare una semplice considerazione: quando si asporta un’anfora da un relitto, magari per abbellire la casa, non ci si rende conto che si recidono dei legarni che la univano al contesto nel quale essa aveva un ruolo e un significato. Non può più averli, ridotta a un semplice oggetto ornamentale. che non ha più niente da dire. Mentre lo scavo e il commercio clandestino tagliano i ponti con la storia, lo studio delle anfore contribuisce a ricostruire semplici attimi del nostro passato per il futuro dell’uomo.