LUIGI SETTEMBRINI

Luigi Settembrini. Un massone, patriota italiano nella storia LGBT+

 

Quando il reato di sodomia venne abolito dal codice penale francese del 1 791 , spazzato via dal vento della Rivoluzione, in verità esso appariva già da tempo un relitto di un regime ancien. I Lumi del Settecento avevano visto accendersi il dibattito intorno alla sodomia e soprattutto, intorno alla sua natura. Era il comportamento pederasticol innato o si trattava di un vizio acquisito? Il tenore delle risposte ci consente di individuare quattro passi. bili soluzioni, nonché l’affermarsi progressivo, pur nelle sostanziali differenze, di un comune sentire circa la necessità di abolire punizioni medievali e barbariche come la pena di

 

morte e ancor più il rogo per i sodomiti [1] . Una prima posizione, quella del potere costitu ito, vedeva nell’omosessualità non qualcosa di innato, ma un peccato, un vizio nefando di ispirazione diabolica, di cui impedire la diffusione. Una simile posizione in realtà non è neppure presa in considerazione dai testi illuministici. La seconda vede intervenire intellettuali del calibro di Montesquieu, Voltaire, Diderot, e i nostri Beccaria e Filangieri, i quali chiedono con fermezza l’abolizione del rogo e della pena di morte, punizioni barbare e crudeli, senza tuttavia proporre una linea chiara sul modo in cui il potere e la società in genere avrebbero dovuto porsi nei confronti degli omosessuali! «Il loro atteggiamento ambivalente è lo specchio di una mentalità consapevole della sproporzione della pena capitale, eppure indecisa sulla que stione della pericolosità sociale dell’omosessualità, in quanto convinta solitamente del suo carattere «contagioso»                                 .

Vi era poi la posizione dei libertini, tra i quali spicca la figura di De Sade, che rivendicavano il diritto alla trasgressione. Se invero si trattava di pochi a difendere tale diritto, ancora meno erano quegli omosessuali che avevano il coraggio, soprattutto durante i processi che si aprivano contro di loro, di dichiarare che i l loro stato non poteva considerarsi sbagliato e perseguibile, poiché innato e dunque, naturale. E tuttavia tali omosessuali c’erano: «Non è una posizione nuova (l’abbiamo già vista nei secoli precedenti), ma a esprimere tali idee ora sono anche semplici domestici e lavoranti a giornata, e non più intellettuali «libertini».

Nonostante l’Ottocento veda, fin dai suoi albori, un mutamento di clima in chiave reazionaria e conservatrice, i l codice penale napoleonico del 1 81 0 non faceva menzione di «pederastia» e «sodomia». Anche se va ricordato il profondo divario esistente tra la Francia, unitamente ai paesi cattolici e mediterranei, Italia compresa, e il Nord Europa, in particolare la Gran Bretagna, dove la pena di morte per sodomia rimase in vigore fino al 1 861 . L’Italia, soprattutto il Meridione, invero rappresentava per gli omosessuali dei Paesi d’Oltralpe una meta desiderata, agognata, dove poter vivere esperienze erotiche con giovani perlopiù disponibili senza correre rischi. E questo lungo l’Ottocento e buona parte del primo Novecento. Almeno fino a quando non arrivò il fascismo, Mussolini e Federzoni con il suo tronfio disegno moralizzatore, sul quale si è appuntato il salace motteggio di un Carlo Emilio Gadda. Le splendide foto dei giovani siciliani nudi, scattate a Taormina dal barone Wilhelm von Gloeden, o la via dedicata a Capri a Friedrich Alfred Krupp, dell’omonima famosa acciaieria, ci ricordano l’amore di questi uomini appartenenti a un Nord spesso bigotto e arcigno, a cavallo tra il XIX e i l XX secolo, per un Sud, terra dell’innocenza e della libertà, dalla natura lussureggiante, dai profumi inebrianti, dai giovani corpi baciati dal sole e accarezzati da caldi zefi ri.

A Napoli, dopo due anni trascorsi nel terribile carcere di Reading, condannato dall’Inghilterra vittoriana per la sua omosessualità, lo scrittore massone Oscar Wilde, nel 1 895, si trasferiva nella speranza di risollevarsi dal lungo periodo di abiezione e sofferenza, tra i capolavori di carne e marm06 ln quello stesso anno, il 1 895, poco prima della sua morte, si trovava a Napoli, a ritirare presso l’Università Federico I l una laurea honoris causat il patriota, scrittore, poeta e giurista tedesco Karl Heinrich Ulrich; anch’egli approdato in Italia, exul et pauper, com’è scritto sulla sua tomba nel cimitero de L’Aquila, esule e povero, perseguitato in Germania non solo perché aveva osato fare pubblicamente quello che viene ricordato come il primo coming out della storia, ma soprattutto perché si era presentato il 29 agosto del 1 867 a Monaco di Baviera, al Forum dell’Associazione dei Giuristi Tedeschi/ dove aveva preso la parola per rivendicare sostanzialmente da omosessuale il suo, e di tutti coloro che erano nel suo stesso stato, diritto di esistere. «Non ho scelta tra tacere e parlare – scrisse Ulrichs in Gladius furens Spada Furente, ricordando quel momento -. lo dico a me stesso: Parla, o sii giudicato! Mi piacerebbe essere meritevole di Hoessli. Neanch’io volevo trovarmi tra le mani del becchino senza aver prima apertamente rivendicato i miei diritti inalienabili oppressi, e senza aver aperto uno stretto passaggio alla libertà (“der Freiheit eine Gasse”). Con questi pensieri e con i l cuore che mi martellava dentro, salii sul podio dello speaker il 29 agosto del 1867, nella grande hall del Teatro Odeon, di fronte a più di 500 giuristi provenienti da tutta la Germania, tra i quali c’erano membri del parlamento tedesco e un principe bavarese. Salii accompagnato da Le speranze di Ulrichs si sarebbero infrante presto e il grande intellettuale avrebbe pagato con la povertà e l’esilio il suo coraggio. La nascita della Germania fu accom pagnata dall’entrata in vigore, il 15 maggio 1 871, del famigerato paragrafo 1 75, inasprito poi dal nazismo e definitivamente abrogato soltanto nel 1 994, che aveva ad oggetto la Fornicazione contro natura, «cioè tra persone di sesso maschile», equiparata alla zoofilia e punita con la reclusione, fino all’interdizione dai diritti civili.

Nello stesso anno in cui in Germania entrava in vigore il paragrafo 1 75, veniva nominato rettore dell’Università di Napoli, lo scrittore e patriota Luigi Settembrini. Già a partire dal 1 861 Settembrini aveva ottenuto l cattedra di Letteratura italiana presso l’Università partenopea, dopo essere stato per circa un anno professore all’Università di Bologna. La figura di Luigi Settembrini è complessa, difficilmente etichettabile per uno studioso che cerchi di accostarsi all’uomo, ancor prima che all’intellettuale, al patriota e al massone, rimuovendo tutti quei paludamenti che lungo il Risorgimento e poi, nell’Italia postunitaria e fino sicuramente agli anni Settanta, hanno celebrato l’eroe della patria. E tuttavia un lavoro di rimozione appare saIutare per restituire al Settembrini tutta la sua carica di uomo della contemporaneità, se non ancora oggi in grado di proiettarsi in un futuro che ha da venire.

Un simile lavoro lo aveva già tentato Giorgio Manganelli nella sua Nota all’inedito del Settembrini, intitolato I Neoplatonici, e pubblicato a cura di Raffaele Cantarella da Rizzoli nel 1977. Ma il Manganelli, tutto preso dal gusto di spogliare Luigi Settembrini della sua aura di austero e indefettibile eroe risorgimentale, «santino tricolore», finisce col dare dell’uomo Settembrini un’immagine altrettanto sfalsata, come di un uomo infine affetto da fantasie malsane, un pederasta, cosa che aveva portato «i nipotini» a rendere il testo un libro proibito, da non pubblicare. «Ma una ideologia non strozza solo le sue vittime – osserva Manganelli -. Nella bibliografia del Settembrini, il libretto è un caso unico; di più: il Settembrini stesso aveva abbozzato, e altri aveva accolto e innaffiato una imma

gine tutta familiare e modesta della sua vita, una vita sventurata, piena di galere e di ergastoli, consolata da affetti di sposo e padre, da una moglie «pudica e dolorosa». Mi chiedo se non venisse in mente a nessuno che il libretto poneva un problema assai più grosso delle sue poche paginette; togliere questo testo dal dossier di Settembrini significava perpetrare un falso sulla stessa immagine dello scrittore «martire», significava tenere in piedi in termini filologicamente polizieschi una certa idea dell’Italia ottocentesca, dei padri dell’Italia unita, una mitologia degli eroi che non aveva il coraggio di affrontare quelle poche pagine. È ovvio a chiunque che il Settembrini dei Neoplatonici è figura assai più drammatica e complessa di quella che ci è stata proposta: proprio perché egli è contemporaneamente l’autore delle Ricordanze. Per quanto sottile, il libro era ed è uno spiraglio su una tragedia. Ma questa tragedia venne nascosta, sussurrata tra pochi intimi, così come non si suole divulgare la voce, nelle famiglie patriarcali, che «il nonno beve». / Neoplatonici sono un breve romanzo o lungo racconto, che il Cantarella trovò nel 1937 fortuitamente, nella forma di un quadernetto di carta di poche pagine, mentre era intento a cercare un manoscritto greco finito fuori posto, presso la Biblioteca di Napoli, dove era al tempo direttore della Officina dei Papiri Ercolanesi. Uno smilzo fascicoletto che viene subito ricondotto alla mano di Luigi Settembrini, poiché posto vicino al testo autografo Ricordanze della mia vita. Settembrini aveva avuto cura di far passare il testo come opera di un certo Aristeo di Megara, neoplatonico greco, che tuttavia non è mai esistito. Era dunque un falso creato da Settembrini. Cantarella legge il testo e ne rimane fortemente imbarazzato, sia per il contenuto, la storia omosessuale di due giovani nell’antica Ellade, raccontata con un taglio chiaramente erotico, ma non volgare, sia perché non riesce a spiegarsi come mai un testo così singolare sia rimasto inedito nella Napoli di Benedetto Croce, Francesco Torraca, Fau sto Nicolini. ln realtà, il testo era già stato letto da Emidio Piermarini, che lavorava anch’egli presso la Biblioteca di Napoli, e che nell’inventariarlo lo aveva sottoposto a Benedetto Croce e.

 

Francesco Torraca, alunno del Settembrini stesso. Piermarini, in una lettera a Cantarella dell’ottobre 1953, ricorda che Croce, dal quale si era recato per parlargli del testo, lo aveva liquidato con un sorriso e un gesto di indulgenza, accompagnati da una allusione alla dimestichezza che Settembrini aveva con Luciano di Samosata, di cui aveva tradotto i dialoghi, dimestichezza alla quale sembrava attribuire l’interesse del Settembrini per l’amore greco. «Essendo stato così a lungo col greco Luciano…» si era limitato a commentare Croce. E aveva fatto capire a Piermarini che non avrebbe aggiunto altro su un uomo che per sei anni aveva condiviso la stessa cella col patriota Silvio Spaventa, il quale si sarebbe preso cura del diciassettenne Benedetto Croce quando i suoi genitori morirono a seguito del terremoto di Casamicciola del 1883. Molto probabilmente I Neoplatonici vennero scritti proprio nel carcere dell’isola di Sa nto Stefano, dove Settembrini rimase dal 1851 al 1 859, raggiunto da Silvio Spaventa nel 1852

Alle parole di Croce si aggiungeva il giudizio del Torraca, per il quale il libro appariva lubrico e malsano, un errore letterario del venerato Maestro, martire patriottico dei Borbone. Sicché era del tutto conveniente lasciarlo nell’ombra di un armadio di biblioteca, accessibile a qualche rarissimo studioso.

Eppure già il titolo dell’opera, / Neoplatonici, era massimamente emblematico di una tradizione alla quale Settembrini si ispira e nella quale ambisce a collocarsi. Anche a costo di utilizzare un anacronismo: il riferimento cioè alla scuola che nasce da Ammonio Sacca nel 2° e 3°secolo dell’era volgare e conosce in Plotino il massimo esponente. Il racconto, infatti, si svolgerebbe tra il 3° e il 2° secolo avanti l’era volgare, all’epoca in cui abbiamo quali re di Siria degli Antioco, a uno dei quali Settembrini attribuisce una spedizione contro Atene. Di nessun Antioco, in realtà, si ha notizia quale artefice di una simile spedizione. E però a noi sembra che la scelta del titolo e dell’epoca non siano casuali, né che vi sia stata

 

da parte dell’Autore una svista. Essa rispondeva a una duplice esigenza: ribadire la tradizione nella quale il racconto si colloca, quella dei neoplatonici, cu Itori dell’amore platonico, «sup posti come particolarmente dediti alla pederastia, che perciò è cosa elevata e degna: come il Settembrini leggeva nel dialogo pseudo-lucianeo Amori, cap. 51 : cfr. cap. 23» 10. E l’esigenza di collocare la vicenda narrata in epoca precristiana, in quel mondo ellenistico dominato dalla figura e dal ricordo di Alessandro Magno.

Come abbiamo evidenziato, non è soltanto il racconto a ispirarsi al neoplatonismo, ma Settembrini stesso pare volersi accreditare come continuatore di una tradizione che a Napoli/ in particolare, aveva antiche radici. Essa era rifiorita durante l’umanesimo napoletano, coltivata nelle numerose Accademie, quali quella Pontaniana, fondata nel 1 443, e la Palatina (o Reale, o anche del Duca di Medinaceli), istituita nel 1697, alimentata da autori come il calabrese Gian Vincenzo Gravina o un Paolo Brazzolo, che, non soddisfatto delle sue undici traduzioni di Omero finì con l’uccidersi. Una ellenofilia, in particolare, che diventava in taluni ellenomania, e che conosceva quale caso più significativo quello del calabrese barone Saverio Mattei, il quale diventerà il personaggio principale del Socrate immaginario dell’abate Galiani, messo in musica dal Paisiello e rappresentato per la prima volta al Teatro Nuovo di Napoli nel 1775 e poi ripreso, dal 1 780, in diversi teatri d’Europa Ma soprattutto, a dare grande impulso all’amore per la grecità fu la scoperta dei papiri greci di Ercolano, rinvenuti tra il 1 752 e il 1754, a seguito degli scavi promossi nel 1 738 da Carlo I I I di Borbone, che attireranno l’attenzione e le critiche circa le modalità con le quali venivano condotti del grande archeologo omosessuale Johann•Joach im Winckelmann. Alessio Simmaco Mazzocchi si incaricava di raccogliere il meglio della cultura classica napoletana, dando alla luce, a partire dal 1787, gli undici tomi della Herculanensium Voluminum Collectio Prior, che fece di Napoli, nota non senza orgoglio Cantarella, la patria della papirologia greca.

E non va dimenticato come questa tradizione trovi una delle sue massime espressioni, sul piano della riflessione politica, nell’illuminista, massone Gaetano Filangieri e nella sua monumentale La Scienza della Legislazione, dove alla denuncia delle ingiustizie sociali, all’appello ad un’azione riformatrice, che portasse a una rivoluzione pacifica, ad un’equa ripartizione delle proprietà terriere e a una riforma del sistema educativo e di istruzione, si ribadisce il principio di quel diritto alla felicità, che Filangieri aveva ispirato a Benjamin Franklin e che aveva trovato la sua consacrazione nella Dichiarazione d’Indipendenza e nella Costituzione americane. Su quel principio si sarebbero fondate, negli USA, tutte le rivendicazioni delle minoranze, comprese quelle delle persone LGBT+, volte all’ottenimento del diritto ad esistere e a godere di pari dignità e opportunità. Franklin aveva conosciuto le opere di Filangieri grazie a Luigi Pio, segretario dell’ambasciata del Regno di Napoli in Francia, dove aveva dimorato durante gli anni della guerra d l lndipendenza americana, e dove era entrato a far parte della loggia Les neuf saurs. Grazie a Luigi Pio, Franklin e Filangieri entrano in contatto e ne nasce un ricco carteggio che va dal 1781 al 1 788. Filangieri, nel parlare della felicità nazionale da intendersi come benessere di ogni singolo cittadino e in quanto tale, fine ultimo di ogni buon governo, sia pure influenzato da un Montesquieu e un Rousseau, in realtà raccoglieva un’antica eredità, quella appunto neoplatonica, che innervava e rendeva qualcosa per così dire di autoctono, l’illuminismo napoletano. Era stato infatti Plotino che, nelle Enneadi, operando anche in questo caso una sintesi e un perfetto equilibrio tra il Platone del Gorgia e della Repubblica e l’Aristotele dell l Etica Nicomachea, aveva delineato il principio per il quale la felicità in ultimo consiste nel vivere secondo la propria natura, essendo in ciò il vivere bene

Un principio, quello della felicità, che aveva guidato il vescovo

massone Giovanni Serrao, assassinato dai “realisti” nel 1799 a fondare, all’indomani del terremoto del 1783, la cittadina calabrese di Filadelfia, nome che significa “amore fraterno”, sul modello dell’omonima città americana, e che era fiorito nella sfortunata, quanto breve esperienza della Repubblica Napoletana del 1799. Qui un giovane Raffaele Settembrini, padre di Luigi, era stato sentinella di Domenico Cirillo, Francesco Mario Pagano e Vincenzo Russo, scontando in seguito, quando la Re. pubblica venne smantellata dai Borbone, quattordici mesi di detenzione sulla stessa isola, dove qualche decennio più tardi sarà recluso Luigi: Santo Stefano. l n verità, Napoli tra Settecento e Ottocento appare un grande laboratorio di idee, pur con tutte le contraddizioni di un sistema in massima parte ancora feudale, funestato da privilegi e diseguaglianze. Il ruolo svolto dalla Massoneria napoletana in tale fucina di visioni e spinte di rinnovamento è decisivo. Aldo Mola e John Dicke ci offrono una panoramica di quello che fu la Massoneria napoletana, «una delirante malattia», come la definisce Dicke, soprattutto durante l’impero napoleonico. Ma l’amore per la grecità e per il platonismo e neoplatonismo, in Luigi Settembrini aveva avuto modo di fiorire direttamente presso la scuola del marchese Basilio Puoti (1782-1 847)/ di cui si professò sempre devoto e grato discepolo, e dove si formò anche il De Sanctis. La scelta non solo del titolo, I Neoplatonici, ma dei nomi stessi, a partire da quello del presunto autore, Aristeo di Megara, dei protagonisti del racconto invero non appare casuale, ma nasconde a mio parere possibili rimandi e precisi significati. E così Aristeo significa l’eccellente”, mentre Megara era una città dorica della Grecia centrale, ma anche Megara lblea, sulla costa orientale della Sicilia, a nord di Siracusa. Il breve racconto ha due protagonisti principali: Callicle, che significa ‘Iglorioso per bellezza” ed è il nome di uno dei personaggi di maggior rilievo del Gorgia di Platone, una delle principali fonti, come abbiamo visto di quel diritto alla felicità di cui Plotino si fa banditore nelle Enneadi. II Callicle del Gorgia è, come sottolinea Cantarella quel superuomo che rivendica, di fronte a Socrate, la giustizia come diritto del più forte. Accanto a Callicle è Doro, il cui nome rimanda al leggendario capostipite dei Dori/ popolo del mare, le cui origini sono tra le più controverse, soprattutto dopo l’attenzione che riserverà a questo popolo il nazismo. Callicle e Doro sono inseparabili fin da bambini. Divenuti efebi, scoprono l’amore platonico, che è l’amore che unisce due uomini, come aveva mostrato Platone nel Simposio. «Noi uomini moderni – scrive Settembrini nell’introdurre il racconto – abbiamo tutti i vizi degli antichi Elleni, e forse anche più e maggiori, ma / li nascondiamo non so se per pudore o ipocrisia: quelli non nascondevano nulla, ed abbellivano con l’arte anche i vizi. Uno dei caratteri principali dell’Arte greca è questo che ella non è ipocrita, non nasconde nulla, rappresenta l’uomo nudo qual è, anche con le sue vergogne. I moralisti potranno biasimare questo racconto, gli lartisti se ne compiaceranno certamente, e diranno che l’arte fa bella ogni cosa. E da questo racconto ancora si vede come sia antica l’opinione di alcuni discreti uomini, i quali credono che l’amor platonico non sia amore purissimo e scevro di og ni sensualità, come alcuni / furbi han dato ad intendere per nascondere i loro amori maschili».

L’amore di Callicle e Doro è completo e reciproco. Non c’è asimmetria nella loro età, sono coetanei, o nel ruolo che giocano durante il rapporto sessuale: essi sono perfettamente versatili/ attivi e passivi nello stesso tempo. Settembrini appare assolutamente consapevole che il rapporto omoerotico nell’antica Grecia non era soltanto asimmetrico, tra un uomo più adulto, l’erastès, e un fanciullo, l’eròmenos, ma anche tra coetanei. Quando, in modo provvidenziale e dopo aver invocato il soccorso divino, Callicle e Doro scopriranno l’utilità dell’olio al fine di potersi penetrare a vicenda, pieni di gioia si recheranno al tempio della vergine Pallade, alla quale è sacro l’ulivo, per ringraziarla: «Un Dio mi suggerisce un espediente – dice Doro a Callicle -. E preso un vasello di purissimo olio biondo come ambra, soggiunse: Ungiamo con quest’olio la chiave e la toppa, e tentiamo, ché forse riusciremo ad aprire. Unsero bene e la chiave e la toppa, e così Doro senza molta fatica sua e senza molta noia di Callicle entrò vittorioso: a lo stesso modo entrò    sette anni e che era prossima ad abbracciare la vita claustrale. Callicle e Doro vengono iniziati al sesso con una donna dalla giovane Innide, durante le Panatenee. Doro sarà il primo e spingerà Callicle a scoprire anch’egli «la sacra porta della vita e del piacere», «la grotta di Pane ricoperta / di molto frondame lucente e morbidissimo» . Innide, il cui nome in greco è Hymnfs, è dunque la personificazione di quell’inno che celebra l’unione del fallo, dei falli, con la ctei , in un paesaggio panico, ben raffigurato dalla grotta di Pan, simbolo defla ctei, e durante le feste in onore della Pallade Atena. I due giovani verranno presto celebrati dagli ateniesi come eroi per essersi particolarmente distinti nella guerra che Atene dovette combattere contro Antioco re di Siria, guerra di cui tuttavia non si ha notizia. Infine si sposeranno con due donne. Callicle sposerà Psiche, che come nome di persona in realtà è rarissimo nell’antichità. Psiche è la personificazione dell’anima, una specie di «doppio» immateriale del corpo abbandonato dalla vita. Nelle Metamorfosi di Apuleio, Psiche è la fanciulla amata da Eros. Dunque, le nozze di Callicle sembrerebbero simboleggiare il raggiungimento da parte del giovane dell’equilibrio tra anima e corpo. Doro sposa loessa, nome altrettanto raro, che Cantarella  riconduce ai Dialoghi di Luciano e che significa “violacea”. Ma loessa è anche il nome di un’orchidea, l’Epipactis ioessa, tipica dell’Italia meridionale e la cui caratteristica è quella di essere ermafrodita. Nozze che sembrerebbero adombrare, dunque, del mondo che in esso si riflette, diventa la metafora di quella che veniva chiamata “inversione”. Ne I Neoplatonici di Settembrini non esiste un mondo riflesso allo specchio, un mondo al contrario, poiché l’autore sembra conoscere perfettamente il segreto dell’attraversamento, che consente di riunire il corpo e il suo doppio, lasciando che sbocci la ioessa, l’androgino. Nessuna tragedia, nessuna ipocrisia, ma una serena, felice accettazione, pienamente abbracciata e vissuta, della propria natura.

 

.

Questa voce è stata pubblicata in Lavori di Loggia. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *