L’INIZIAZIONE PITAGORICA

L’INIZIAZIONE PITAGORICA

di

Nicola Urbani

Pitagora, prescelto da Ferecide di Siro e da Anassimandro di Mileto, si recò in diverse regioni delI ‘ Oriente.

Soggiornò in Egitto dove apprese tutte le verità conosciute da quel popolo i cui depositari erano gli scribi ed i sacerdoti che gli permisero di accedere, anche se in parte, alle dottrine segrete che gelosamente custodivano. Questa partecipazione ai riti egizi contribuì principalmente ad accrescere la sua fama, nel mondo greco.

Tornato in patria, a Samo, successivamente, per motivi forse politici, lasciò la Grecia e nel 530 a.C. approdò a Crotone non solo, ma con una comunità di suoi seguaci che in seguito gradatamente si ampliò.

Nella scuola pitagorica non era facile essere ammessi perché Pitagora, che era molto esigente nell’ ammissione dei novizi, era solito affermare che non tutti i legni erano adatti per produrre mercurio.

I giovani che volevano entrare nella società dovevano sottoporsi, prima di tutto, ad un periodo di prova. Il maestro invitava il novizio ad esprimere le sue opinioni e a contraddirle liberamente. Incoraggiato da questi inviti, l’ingenuo aspirante mostrava subito, e apertamente, la sua vera natura, felice di essere ascoltato ed ammirato: parlava liberamente mentre i maestri lo ascoltavano, senza mai riprenderlo.

Pitagora improvvisamente appariva e osservandolo attentamente, studiava ogni gesto e quanto veniva detto dal candidato.

In tal modo, mediante meticolose osservazioni, il Maestro si faceva un idea precisa dei “bussanti”, che dopo alcuni mesi venivano sottoposti alle prove definitive.

Pitagora era solito far trascorrere, all’aspirante, una notte all’interno di una caverna, nei pressi della città, dove si diceva apparissero, nottetempo, mostri e strane figure; coloro che terrorizzati dalle impressionanti apparizioni, amplificate dalla notte e dalla solitudine, fuggivano, venivano giudicati non idonei e quindi respinti.

La prova morale era più seria. Senza preavviso, una bella mattina, l’aspirante veniva chiuso in una cella triste e nuda in cui era posta una lavagna. Gli si ordinava, con freddo distacco, di trovare il significato di uno dei simboli pitagorici: il triangolo inscritto nel cerchio, per esempio, oppure il perchè della rappresentazione dell’universo con una sfera.

Il candidato passava dodici ore nella cella, solo con la sua lavagna ed il problema da risolvere, senza nessun ‘altra compagnia che quella di una brocca d’ acqua e un tozzo di pane secco. Successivamente, veniva condotto in una sala, al cospetto dei novizi riuniti, con il compito di canzonare spietatamente il bussante che, spaurito ed affamato, appariva davanti a loro come un colpevole.

Dopo varie domande, il Maestro chiedeva, perentoriamente, al neofita di esporre il contenuto delle sue meditazioni, senza escludere alcuna recondita considerazione, e di fare allo stesso modo con i simboli.

Il giovane, irritato dal digiuno, oppresso dai sarcastici appellativi, avvilito per la lavagna vuota, per l’irrisolto difficile enigma, era costretto a fare sforzi notevoli per dominarsi. Quelli che non superavano la prova venivano invitati ad andarsene e a non tornare più; coloro, di contro, che sopportando gli attacchi provocatori dell’uditorio, rispondevano fermamente, con riflessioni giuste e spiritose, mostrando di essere pronti a ricominciare anche cento volte la prova, pur di accedere alla sapienza, venivano solennemente ammessi all’apprendistato, tra i rallegramenti entusiastizi dei condiscepoli.

Soltanto allora aveva inizio il noviziato, detto preparatorio, che durava almeno due anni. I novizi erano sottoposti, durante le lezioni che ricevevano, alla regola assoluta del silenzio, non avevano il diritto né di fare obiezioni ai loro maestri, né di discuterne gli insegnamenti che dovevano accettare con rispetto e meditare profondamente.

Per imprimere questa regola nello spirito dell’uditore gli veniva mostrata la statua di una donna avvolta in un lungo velo, con un dito posto sulle labbra: la musa del silenzio.

I “riti pitagorici” di Crotone, suggestivi e severi, pur ridotti rispetto a quelli “egiziani”, importati da Pitagora in Grecia, sono comunque inattuabili, nell’era che viviamo.

Particolarmente stupenda è la descrizione della prima parte della iniziazione egizia.

Il profano che batteva alla porta del Tempio di Tebe o di Menfi, veniva condotto dai servitori, tra le colonne. Il sacerdote interrogava il nuovo venuto chiedendogli notizie della sua famiglia e di coloro che lo

Agorà gennaio – marzo 1997       49 avevano istruito.

Se durante questo breve esame veniva giudicato indegno dei misteri, con un irrevocabile e silenzioso gesto, gli veniva mostrata la porta. Viceversa, se il sincero desiderio di verità affiorava, veniva invitato a seguire lo Ierofante attraverso portici e cortili interni. Giunto, infine, alla statua di Iside, che in grandezza naturale la raffigurava seduta, con un libro chiuso sulle ginocchia e con un velo che le scendeva sul viso, egli poteva leggere quanto era scritto alla base: “NESSUN MORTALE SOLLEVO’ IL MIO VELO”. A questo punto il sacerdote, mostrandogli le due colonne, gli spiegava che quella rossa rappresentava l’ascensione dello spirito verso la luce di Osiride, mentre l’altra, la nera, la cavità della materia.

“Chi affronta la scienza e la nostra dottrina” – aggiungeva lo Ierofante – “arrischia la vita poichè morte o follia vi trovano i perfidi e i deboli. Soltanto i forti e i buoni vi trovano vita e immortalità. Questo è un baratro che rende alla luce soltanto gli intrepidi; rifletti bene a ciò che stai per fare, ai pericoli ai quali vai incontro e se il tuo coraggio non è a tutta prova, rinuncia all’impresa, perché quando questa porta si sarà richiusa dietro di te, non potrai più tornare indietro”.

Al neofita veniva consegnata una piccola lanterna accesa e lo lasciavano solo, chiudendo con fragore la porta del santuario.

Avevano così inizio le prove legate all ‘iniziazione…•

Chi smette di parlare coi maestri della propria arte, non progredisce e corre sempre il rischio di vacillare e retrocedere. Quanto spesso vedo talenti che si comportano come la vespa sul vetro di una finestra. Vorrebbero perforare l’impenetrabile con •la loro testa. Pensano che sia possibile perché è trasparente!

  1. W. Goethe

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