INTUIZIONE E RAGIONE

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INTUIZIONE E RAGIONE

 

Maurizio Lanzoni

 

Quando si parla di ragione e razionalità, si assume come esempio la matematica. E’ idea comune, originatasi generalmente durante gli anni della scuola, che la matematica sarebbe una scienza vera e indiscutibile. C’è quindi una fiducia nella razionalità della matematica e dunque nei risultati che essa ha raggiunto.

In realtà la matematica non è quella scienza indiscutibile che molti credono, unicamente tesa a calcoli o teoremi fini a se stessi.

Già Pitagora e la sua scuola avevano assunto i numeri come il principio di tutte le cose e sostenuto che la spiegazione dei fenomeni naturali può essere tratta dall’aritmetica, concependo così una scienza dei numeri con valenza gnoseologica, caratteristica che le è restata anche dopo il fallimento del programma pitagorico.

Lo stesso Platone mostra una fiducia illimitata nella razionalità dell’universo, sintetizzata nell’affermazione “Dio geometrizza eternamente”. Nel pensiero platonico aritmetica (la scienza del calcolo) e geometria assumono un ruolo estremamente importante.

La geometria si propone di acquistare la conoscenza di ciò che sempre è, non di ciò che ora nasce e ora perisce.

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Essa è dunque, o egregio amico, argano che tira l’anima verso la verità, atta a produrre lo spirito filosofico ed a rivolgere verso l’alto lo sguardo, invece di volgerlo malamente verso il basso.

Nel corso dei secoli lo sviluppo del pensiero matematico ha ritenuto ora più ora meno che l’indagine matematica avrebbe portato ad un aumento di conoscenza del mondo. Si pensava per esempio che la geometria, così come Euclide nel V secolo a. C. l’aveva codificata, non potesse non descrivere le proprietà del mondo, così che a fine Settecento le teorie geometriche, nella sistemazione iniziata appunto da Pitagora e culminante con Euclide, erano più che mai l’esempio di verità apodittiche, tanto che ad esse in primo luogo s’era appellato Kant per trovare qualcosa da preservare, sia pure sotto la nuova veste di “giudizi sintetici a priori”, dello sfacelo del dogmatismo colpito dalle limpide argomentazioni di Hume.

Questa concezione fu messa in crisi nell’Ottocento con le geometrie non euclidee, cioè quelle nelle quali non sono valide le proprietà della usuale geometria.

La matematica dapprima offrì al mondo la prova che l’uomo può raggiungere la verità, e poi la distrusse; furono le geometrie non euclidee e i quaternioni, entrambi veri trionfi della ragione, ad aprire la strada a questo disastro intellettuale .

Il riferimento è a Nicolaj Ivanovic Lobacevskij, creatore della geometria non euclidea ora chiamata iperbolica, e a William Hamilton, padre dei quaternioni, elementi base di una nuova algebra, diversa dalla classica, nella quale non valgono proprietà ritenute universalmente valide, quali la legge commutativa della moltiplicazione.

Osserva Kline : L’“orgoglio della ragione” umana è crollato e ha trascinato con sé nella caduta anche la casa della verità. Ecco la lezione della storia: non dobbiamo mai sostenere dogmaticamente le nostre convinzioni più ferme; in realtà esse dovrebbero suscitare i maggiori sospetti, poiché‚ segnano i nostri limiti e i nostri confini, non le nostre conquiste.

La situazione nell’Ottocento era per certi versi paradossale.

Durante il Settecento, sulla scia di Newton e Leibniz, la matematica ha conosciuto enormi sviluppi. Le tecniche del calcolo infinitesimale hanno permesso di descrivere innumerevoli fenomeni nel campo della fisica e dell’astronomia. Soprattutto era possibile “prevedere” fenomeni fisici (per esempio: conosco velocità e posizione di un pianeta; allora posso sapere con certezza dove si troverà dopo un certo intervallo di tempo). Erano invece piuttosto vaghi i fondamenti logici della matematica: restavano cioè ambigui proprio i concetti basilari che permettevano di ottenere quei brillanti risultati, per cui nulla assicurava della correttezza della matematica.

Ancora nella prima metà del secolo XIX per esempio molti matematici continuarono nelle critiche ai numeri negativi e ai numeri immaginari (radici quadrate di numeri negativi) che già Leibniz aveva chiamato analyseos miraculum, idealis mundi monstrum, pene inter Ens et non Ens anphibyum, e sui quali Musil fa pensare il giovane Törless :

Ma pure non resta un che di curioso in tutta la faccenda? Come posso spiegarmi? Prova a pensarla così: in un calcolo del genere, tu all’inizio hai dei numeri solidissimi, in grado di quantificare metri, pesi o qualsiasi altro oggetto concreto, comunque numeri reali. Alla fine del calcolo, lo stesso. Ma l’inizio e la fine sono tenuti insieme da qualcosa che non c’è. Non è un po’ come un ponte che consti soltanto dei piloni iniziali e finali, e sul quale tuttavia si cammina sicuri come se fosse intero? Un calcolo del genere mi dà il capogiro; come se un pezzo del cammino andasse Dio sa dove. Ma la cosa davvero inquietante per me è la forza insita in questi calcoli, una forza capace di sorreggerti fino a farti arrivare felicemente dall’altra parte.

L’imbarazzata risposta dell’insegnante a Törless descrive l’atteggiamento dei matematici dell’Ottocento: essi non capivano per quali motivi avrebbero dovuto affrontare notevoli difficoltà cercando di dimostrare cose di cui non si dubita mai. Anzi, molti matematici si comportavano come se ciò che sfuggiva ai tentativi di dimostrazione non avesse affatto bisogno di essere dimostrato.

Le convinzioni religiose, rafforzate dall’evidenza scientifica, sopperivano alla debole o addirittura inesistente forza logica. I matematici erano così ansiosi di assicurarsi la verità divina che continuavano a costruire senza fondamenta sicure. Essi si misero la coscienza in pace con il successo; in verità il successo era stato tanto inebriante da far quasi sempre dimenticare la teoria e il rigore.

Il problema della sistemazione logica dei fondamenti della matematica fu affrontato alla fine del secolo scorso e nei primi decenni del Novecento. La sistemazione fu trovata ricalcando Euclide. Euclide mette alla base della geometria ventitré‚ definizioni e cinque postulati, cioè proposizioni primitive che si riferiscono agli enti geometrici prima definiti. Tali enti per Euclide (e fino all’Ottocento) sono quelli della nostra intuizione, e son concepiti come realmente esistenti al di fuori di noi.

La soluzione moderna, intendendo la matematica come una scienza ipotetico-deduttiva, parte da alcuni enti primitivi e da alcuni postulati che risultano la base per la deduzione di definizioni e teoremi conseguenti.

Per rimanere nell’ambito della geometria, vengono assunti come enti primitivi il punto, la retta e il piano e vengono posti quindi alcuni postulati (proprietà non dimostrabili che si assumono come valide) che ne “descrivono” le proprietà fondamentali; per esempio: esiste ed è unica la retta passante per due punti assegnati; dati due punti su una retta esiste almeno un punto della retta compreso tra i due; da un punto si può condurre una ed una sola parallela a una retta data; ecc.

Il punto, la retta e il piano non vengono definiti, perché‚ ciò significherebbe utilizzare altre grandezze definite in precedenza, (per esempio un quadrato è definito come il parallelogramma con i lati e gli angoli uguali. Se è noto il significato dei termini “parallelogramma”, “lato”, “angolo”, “uguale”, allora è noto anche il significato di “quadrato”) le quali dunque andrebbero definite mediante altre grandezze ancora, e così via in una “regressione all’indietro”. Nel tentativo di definire il qualcosa a monte non si proseguirebbe più nella costruzione della geometria.

Ecco dunque la necessità di partire da alcuni enti primitivi, intuibili da tutti (o almeno dalla maggioranza). I postulati sono quelle proposizioni che spiegano le proprietà degli enti primitivi; sono anch’essi indimostrabili, per gli stessi motivi, a differenza dei teoremi, proposizioni la validità delle quali è dimostrata sulla base dei postulati.

Si potrebbe quasi affermare che la funzione dei postulati è – in un certo senso – analoga a quella dei dogmi del cattolicesimo, solo che quelli non sono verità assolute, ai quali i fedeli debbono prestar fede, ma semplici punti di partenza: possono tranquillamente essere cambiati (ma allora si costruirà una teoria non “più o meno vera” della precedente, ma semplicemente diversa).

Il sistema assiomatico quindi accentua la separazione della matematica dal mondo reale e anche dall’intuizione: non è infatti indispensabile farsi immagini mentali degli enti in questione. I postulati dovrebbero essere posti in modo da fissare le proprietà dei termini per farle coincidere con quelle che si vuole che valgano.

Però è controverso che i postulati descrivano effettivamente ed esaurientemente ciò che intendiamo quando usiamo quelle nozioni.

Il problema è molto complesso, ma può essere chiarito con un esempio.

L’aritmetica (cioè i comuni numeri usati nella pratica quotidiana muniti delle usuali operazioni) è stata assiomatizzata ormai da molti anni, e si basa quindi su un certo numero di postulati. Non è però certo se tutte le assiomatizzazioni proposte riescono a descrivere completamente i concetti fondamentale dell’aritmetica, oppure se nell’interpretazione degli assiomi assume un ruolo non secondario anche l’intuizione, che invece secondo la scuola assiomatica esula (deve esulare) dalla base dei postulati.

Se infatti si prova a rispondere a domande quali “che cosa è un numero?”, “che cosa è il numero 2?”, sorgono difficoltà notevoli.

Eppure sono state avanzate definizioni rigorose e logicamente ineccepibili del numero 2 (secondo una di queste sarebbe l’insieme di tutte le coppie). Dubito che, pensando al numero 2, si pensi effettivamente all’insieme di tutte le coppie (a me, almeno, non succede). Eppure il numero 2 è usato continuamente nella pratica quotidiana e in qualunque teoria di qualunque disciplina senza la minima difficoltà.

Ogni parola assume, da persona a persona, un significato leggermente diverso nel contesto della medesima tradizione culturale Anche il concetto filosofico o matematico più accuratamente definito, che sicuramente, a nostro parere, non contiene nulla di più di quello che gli abbiamo attribuito, è pur sempre qualcosa di più di quello che noi pensiamo. Esso è un evento psichico, e come tale parzialmente inconoscibile. Anche gli stessi numeri che usiamo per contare sono qualcosa di più di quello che si è soliti credere. Essi sono contemporaneamente elementi mitologici (per i Pitagorici erano anche divini): però quando adoperiamo i numeri per scopi pratici noi ne siamo del tutto inconsapevoli.

Le difficoltà infatti sorgono solo quando si cerca di definire tali concetti, cioè quando tentiamo una razionalizzazione di idee chiare nel nostro intuito.

Tutti i sistemi di postulati proposti (per l’aritmetica e per le altre parti della matematica), pur logicamente ineccepibili, lasciano un margine più o meno ampio all’intuizione, spesso proprio contro il parere di chi li ha costruiti. Inoltre (situazione a mio avviso estremamente significativo) più essi diventano rigorosi e ineccepibili, più si allontanano dall’evidenza e dall’intuizione.

E’ il procedimento della cosiddetta astrazione, fondamentale nella matematica. Può essere spiegato come “liberare gli elementi da ogni loro contenuto”, cioè operare con enti privi di significato, che verrà loro attribuito in seguito dagli usi particolari.

Mi pare un serio limite, in quanto gli enti primitivi sono appunto intuiti (nel senso, come si diceva: non so definirli o spiegarli, ma li comprendo, almeno per quel tanto che mi è sufficiente nell’uso).

Sulla linea dell’assiomatizzazione si mossero Giuseppe Peano, i cui assiomi (1889), sono posti a base dell’aritmetica e il tedesco  Gottlob Frege che nel 1884 costruisce il primo tentativo di fondare l’aritmetica su premesse della cosiddetta logica matematica (calcolo delle proposizioni, proprietà, ecc.).

La costruzione di Frege ricevette un duro colpo dalla scoperta delle antinomie: non appena l’edificio fu completato – scrisse Frege – le fondamenta crollarono.

Cosa sono le antinomie, e perché‚ la loro comparsa risulta così drammatica?

L’antinomia o paradosso è la contraddizione che si verifica tra una proposizione e la sua negazione, entrambe dimostrabili all’interno della teoria. Nella misura in cui si suppone la teoria assiomatica completamente distaccata dal mondo reale e dall’intuizione, e solamente fondata sulla ragione, la comparsa di una antinomia risulta disastrosa.

Ma vediamo qualche paradosso.

Paradosso del mentitore. Un uomo dice: Io sto mentendo. Se sta mentendo allora ciò che dice è falso e quindi non mente. Se invece non sta mentendo allora ciò che dice è vero e quindi mente.

Paradosso di Berry. Nella lingua italiana esistono nomi composti solamente da un numero finito di sillabe. Consideriamo i nomi dei numeri e contiamo le sillabe di ciascun numero. Per esempio “uno” è composto di due sillabe, “venticinque” di quattro sillabe, ecc. Il numero delle sillabe dei nomi dei numeri cresce man mano che i numeri aumentano in quanto con un dato numero finito di sillabe si può comporre solo un numero finito di nomi. E quindi i nomi di alcuni numeri interi consisteranno, per esempio, di due sillabe “u-no”, “cin-que”, “ven-ti”, ecc.), altre di tre (“un-di-ci”, “cen-to-tre”, ecc.), quattro sillabe, eccetera. Consideriamo i nomi composti di almeno ventotto sillabe; tra questi ce ne dovrà essere uno che sia il più piccolo. Allora “il più piccolo numero intero non nominabile in meno di ventotto sillabe” deve denotare un ben determinato numero intero; e infatti denota il numero 42.242.242. Ma la frase “il più piccolo numero intero non nominabile in meno di ventotto sillabe” è essa stessa una denominazione consistente di ventisette sillabe. Segue che il più piccolo numero intero non nominabile in meno di ventotto sillabe può essere denominato in ventisette sillabe, il che è una contraddizione.

Paradosso di Russell. Se il barbiere del villaggio è quella persona che rade chi non si rade da solo, chi fa la barba al barbiere? Se si rade da solo allora lui, barbiere, non può radersi. Se non si rade da solo allora deve farsi radere dal barbiere, cioè si deve radere da solo.

Quest’ultimo paradosso è particolarmente insidioso perché‚ a differenza della versione qui proposta fu avanzato in termini matematici, nel linguaggio della teoria degli insiemi, per cui si presenta drammaticamente all’interno di una teoria matematica, anzi di quella teoria che da molti veniva proposta come fondamento della matematica. Se la matematica deve contenere solo proposizioni vere allora deve essere esente da ogni contraddizione.

Sono state avanzata nei primi decenni del secolo diversi tentativi di eliminare le contraddizioni.

Da una parte la scuola logicista di Bertrand Russell propone di fondare la matematica su leggi non solo derivabili da principi logici, ma anche vere nel mondo fisico. Per evitare le antinomie si affida a una teoria ritenuta da molti artificiosa e generalmente non accettata, come non accettati sono alcuni postulati che è obbligata a porre per non perdere ampie parti della matematica. Se a tutto ciò si aggiunge che gli stessi autori qualificatisi logicisti tendono via via ad allontanarsene, si può affermare che la scuola logicista raggiunge ben presto un punto morto.

Una risposta radicale al problema dei fondamenti viene dalla scuola intuizionista.

L’unica fondazione possibile per la matematica va cercata in questa processo costruttivo, la cui libertà è limitata dall’obbligo di stabilire (…) quali tesi siano accettabili dall’intuizione e vengano colte dalla mente come autoevidenti, e quali non lo siano.

Per gli intuizionisti la matematica ha un contenuto suo proprio che le proviene direttamente dall’intuizione ed è come tale indipendente tanto dall’esperienza sensoriale quanto dalla strutturazione logica.

Le idee matematiche sono immerse molto più profondamente nella mente umana che nel linguaggio. Gli intuizionisti non solo ammettono il ricorso a facoltà extra-logiche (appunto l’intuizione), ma considerano illusori tutti i tentativi di escluderne gli interventi. Kronecker (1823-91), che presenta caratteristiche proprie dell’intuizionismo propriamente detto, pur avendolo storicamente preceduto, scrisse: Dio ha creato i numeri interi, il resto è opera dell’uomo .

Per Hilbert invece, caposcuola del formalismo, logica e matematica sono entrambe discipline autonome.

Per il formalista la matematica è un insieme di sistemi formali, ognuno dei quali costituisce un mondo a sé stante, fondato su propri enti primitivi, propri assiomi, proprie regole di inferenza per dedurre teoremi. I simboli però vanno lasciati non interpretati: i formalisti, per così dire, cercarono di “comprare” la certezza pagando però un “prezzo”: avere a che fare con simboli privi di significato.

Il programma formalista suscitò critiche. Russell obiettò (1937) che gli assiomi per l’aritmetica utilizzati dai formalisti non determinano univocamente il significato dei simboli numerici 0, 1, 2, 3, …, ma solo il significato di successione di numeri: nulla vieta di intendere 0 come 100, 1 come 101, 2 come 102, eccetera: gli assiomi continuano a valere.

Gli intuizionisti, per parte loro, accusarono la formalizzazione hilbertiana di spogliare la matematica del suo significato, “trasformandola così da principio di sistema composto di risultati intuitivi a gioco di formule che si svolge secondo regole prefissate”. Infatti, la matematica che importanza e che interesse cognitivo può avere, una volta ammesso che le sue formule non possiedono un significato fondamentale che consenta loro di esprimere delle verità intuitive?

La scuola insiemistica invece propone l’eliminazione dei paradossi introducendo opportuni assiomi che limitino il concetto di insieme, troppo vago senza l’intervento di opportune specificazioni. Un gruppo di matematici francesi contemporanei, sotto il nome collettivo di Nicolas Bourbaki, si è posto l’obiettivo di ricostruire tutta la matematica partendo dagli assiomi della teoria degli insiemi e da pochi altri principi logici.

Rimangono tuttavia irrisolti i problemi della completezza e della coerenza della matematica.

Completezza: una proprietà è dimostrabile sulla base degli assiomi della teoria. Per esempio, in geometria euclidea è dimostrabile che le tre altezze di un triangolo si incontrano in uno stesso punto. Ma nella teoria dei numeri non è dimostrabile (né confutabile) che ogni numero pari è la somma di due numeri primi, anche se non è mai stato trovato un numero pari che non lo sia. Questo non è un teorema (congettura di Goldbach).Altro esempio. Esistono numeri ben definiti, dei quali è possibile calcolare il valore con qualunque approssimazione prefissata, ma di due dei quali non è possibile dimostrare né che sono uguali, né che sono diversi.

Il problema della coerenza è più insidioso. Nella costruzione di un sistema matematico è necessario garantirsi che i postulati messi alla base siano coerenti e non portino a contraddizioni, cioè alla possibilità di dimostrare contemporaneamente all’interno di quel sistema la verità di una certa affermazione e dell’affermazione contraria.

Che valore infatti potrebbe avere una teoria contraddittoria? Si pensi, ad esempio, alla geometria euclidea (continuamente applicata alla pratica quotidiana) se nel suo ambito si potesse dimostrare contemporaneamente un certo teorema e la sua negazione. Sarebbe perlomeno uno strumento inutile, come un tavolo senza gambe o un’automobile della quale non è mai possibile sapere se sta per muoversi in avanti o all’indietro.

Come risolvono il problema della coerenza le varie scuole?

Gli intuizionisti sostengono che le intuizioni della mente umana sono di per se stesse coerenti: l’intuizione umana è abbastanza potente per decidere la verità o falsità di ogni proposizione significativa, anche se qualcuna di esse è indecidibile. La matematica dunque possiede un effettivo valore contenutistico e non solo formale.

I formalisti tentano la via della dimostrazione della coerenza. Nel 1931 Kurt Gödel (uno dei maggiori logici del Novecento) dimostra, servendosi di principi logici accettati dalla scuola logicista, formalista e insiemistica, che non è possibile dimostrare la coerenza di un sistema matematico sufficientemente potente da esprimere almeno l’aritmetica dei numeri interi.

Gli insiemistici sono sicuri che nel loro sistema non sorgono contraddizioni, ma non ne posseggono la dimostrazione.

Hermann Weyl ha commentato: Dio esiste, perché‚ senza dubbio la matematica è coerente, ma esiste anche il diavolo, perché‚ non possiamo dimostrarlo.

Un altro risultato significativo di Gödel è il teorema di incompletezza: se una teoria formale sufficientemente potente da esprimere la teoria dei numeri interi è coerente, allora la teoria è incompleta.

Cioè: esiste almeno una proprietà della teoria dei numeri non dimostrabile (e non confutabile).

Eppure esistono enunciati che risultano veri impiegando regole di ragionamento che vanno oltre la logica dei sistemi formali.

E’ possibile evitare enunciati indecidibili e dimostrare la coerenza dell’aritmetica solamente servendosi di principi di ragionamento che non possono essere rappresentati all’interno dell’aritmetica. Dunque: esistono limiti all’assiomatizzazione.  Ciò che è intuitivamente certo si estende oltre la dimostrazione matematica.

Nessuna impostazione della matematica è in grado di dimostrare la propria non contraddittorietà servendosi di principi logici sicuri. La matematica del Novecento rispetto alla matematica del passato ha raggiunto la certezza di non poter più rivendicare la certezza e la validità assoluta dei propri risultati.

Il teorema di Löwenheim-Skolem dice: un sistema di assiomi ammette, oltre all’interpretazione desiderata, molte altre interpretazioni radicalmente diverse da quella. Quindi gli assiomi non limitano le interpretazioni ammissibili e i sistemi assiomatici non riescono a caratterizzare la matematica senza ambiguità.

Molte scuole hanno tentato di rinchiudere la matematica nei confini della logica umana, ma l’intuizione non si lascia ingabbiare. Il matematico (alcuni matematici) non si affida in genere alla dimostrazione rigorosa: le sue creazioni hanno per lui un significato che precede qualsiasi formalizzazione ed è in grado di conferire loro un’esistenza e una realtà “ipso facto”. La ricerca è frutto della intuizione e dell’immaginazione, la logica viene in un secondo tempo nella dimostrazione. Anzi spesso per il matematico una dimostrazione rigorosa non ha valore se il risultato non possiede un senso intuitivo.

Pascal aveva parlato di esprit de géom‚trie, la forza e la rettitudine della mente, e di esprit de finesse, l’apertura della mente, la capacità di comprendere in modo più profondo e completo.

Vi sono dunque due sorte di spiriti: uno adatto a penetrare vivamente e profondamente le conseguenze dei principi, ed è questo uno spirito intuitivo; l’altro adatto a comprendere un gran numero di principi senza confonderli, ed è questo lo spirito ragionatore. Uno è forza e dirittura di spirito, l’altro è ampiezza di spirito.

L’esprit de finesse è un livello di pensiero che va oltre la logica: anche ciò che è incomprensibile per la ragione può nondimeno essere vero. La logica però ha un suo ruolo; se l’intuizione è il padrone e la logica il servo, anche il servo ha un certo potere sul padrone. Essa limita l’intuizione sfrenata, che può condurre ad asserzioni troppo generali imponendo opportune condizioni limitative. L’intuizione può volare alto, ma la logica impone il senso della misura. L’intuizione può anche ingannare, però è la facoltà che stabilisce l’obiettivo che successivamente la logica raggiunge con la dimostrazione.

La logica è l’igiene che pratica il matematico per mantenere sane e forti le sue idee.

Idee che comunque debbono avere alla base un substrato intuitivo. Infatti la mente umana non riesce a formalizzare tutta la matematica.

Lo stesso contrasto si ripropone per esempio all’interno della cosiddetta Intelligenza Artificiale (il tentativo di duplicare su macchina quelle attività che, se compiute dall’uomo, richiederebbero intelligenza) tra i fautori della IA forte e quelli della IA debole, dove i primi ritengono possibile trasferire alla macchina tutti i comportamenti intelligenti dell’uomo mentre i secondi solo alcuni, per esempio, in linea di principio, le procedure algoritmiche (ma solo quelle).

A mio parere i motivi della limitazione vanno ricercati nella natura stessa della ragione umana.

Per Kant la ragione umana ha il destino particolare di essere tormentata da problemi che non può evitare, perché‚ posti dalla sua stessa natura, ma dei quali non può trovare la soluzione, in quanto oltrepassano ogni potere della ragione umana.

Altri, con Russell, hanno dovuto sconsolatamente ammettere  che l’adozione del metodo scientifico in filosofia, se non sbaglio, ci costringe ad abbandonare la speranza di risolvere molti dei problemi più ambiziosi e, dal punto di vista umano, più interessanti della filosofia tradizionale. Alcuni di questi problemi vengono affidati, sia pure con scarse prospettive di soluzione positiva, alle scienze specifiche, altri si sono rivelati di tale natura che le nostre capacità, nella loro essenza, non sono in grado di risolvere.

Ma Pascal aveva affermato che il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano. Oggi, la ragione non solo è stata costretta a riconoscere i limiti, ma ne ha dimostrato l’esistenza.

Ironicamente gli intellettuali dell’Età della Ragione, indicando la matematica come prova dei poteri razionali e della sua capacità di ottenere verità assolute, avevano fiduciosamente affermato che la ragione avrebbe risolto tutti i problemi umani.

Gli intellettuali del nostro secolo, per quanto alcuni possano mantenere fiducia nel potere assoluto della ragione, non possono indicare nella matematica lo standard e il paradiso da seguire. Da un certo punto di vista questa svolta degli eventi non si allontana molto da un disastro intellettuale. Da un altro la matematica risulta il tentativo umano più vasto e profondo di sviluppare un pensiero preciso ed efficace, e i risultati di questa scienza misurano la capacità dell’intelletto umano: la matematica rappresenta il limite superiore dei risultati che possiamo sperare di conseguire in qualsiasi dominio razionale.

La ragione umana ha raggiunto i propri confini. Hermann Weyl ha sconsolatamente commentato: Abbiamo cercato di dare l’assalto al cielo e siamo riusciti solo ad erigere la Torre di Babele.

Ma forse la conclusione è un’altra: non è possibile costruire la Torre di Babele perché non è questa la scala per raggiungere il cielo, dove ci sono più cose che non ne immaginino i sogni della filosofia.

 

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