VINCENZO MONTI L’ADULATORE

VI

NCENZO MONTI L’ADULATORE

Tratto da:

Massoni e Letterati

a cura di Marco Rocchi

 

Vincenzo Monti

Incisione di R Cooper, 1803

Nel 1805 veniva costituito il Grande Oriente d’Italia, il cui maglietto veniva affidato al viceré Eugenio Beauharnais, figlio di primo letto dell’imperatrice GiusepPina.

Come in tutti gli Stati sotto il dominio napoleonico, il Gran Maestro era dunque un parente – di sangue o acquisito – dell’Imperatore: così accadde nel Regno di Napoli con Gioacchino Murat (il cognato), così in Westfalia con Gerolamo (un fratello) e così pure nella stessa Francia con Giuseppe (un fratello; l’altro fratello Luigi fu Gran Maestro aggiunto).

Insomma, l’imperatore aveva capito che la Massoneria, pericolosa per i suoi scopi in quanto portatrice di libero pensiero, poteva essere affrontata in due modi: combattendola o servendosene; e scelse la seconda strada.

Tuttavia, se un’accusa può essere mossa agli Italiani che aderirono alla Massoneria nel periodo napoleonico, è quella di ingenuità più che quella di connivenza. Essi credettero agli ideali giacobini, e poi caddero affascinati all’idea di un Napoleone liberatore d’Italia e propugnatore della libertà dei popoli. Ne furono delusi, ma non sarebbe completamente giusto dire che tutti i Massoni italiani furono compromessi col potere napoleonico (e infatti molti di essi, come Salfl e Foscolo, poco inclini al compromesso e alla viltà, pagheranno con l’esilio volontario il prezzo delle loro scelte).

E pur vero che molti aderirono alla Massoneria al solo scopo di ottenere favori e prebende, come causticamente ricorda Gelasio Peripanti nella sua Arlecchineide:

Certo chi pel massonico lavoro

La sorte sceglie io fortunato chiamo;

E se ben talor pena e martoro

Nel mondo soffra qual figlio d’Iramo,

Pur ne ottiene alla fin la ricompensa

Con onori, ricchezze e laude immensa.

Di certo la Massoneria divenne, in quegli anni, più luogo di feste e banchetti e occasione per il letterati di far sfoggio della propria eloquenza, che fucina e dispensatrice di valori e ideali.

Ne furono affiliati numerosi letterati e filosofi: Monti e Foscolo, Salfi e Gioia, Romagnosi e Porta, tanto per citare i più celebri.

Iniziamo con il poeta Vincenzo Monti, “il gran traduttor dei traduttor d’Omero “, come lo definì Ugo Foscolo.

Monti non era un eroe, non ne aveva la stoffa; ma aveva quella dell’adulatore  e del cortigiano, come vedremo. E così, quando la Massoneria prese piede in Italia sotto l’impulso napoleonico, Monti vi aderì senza riserve. Ma quando tramontò l’astro napoleonico, non ebbe remore a sciogliere inni in favore della famiglia imperiale d’Austria.

Sia come sia, Monti fu iniziato alla Libera Muratoria nella Loggia Reale Amalia Augusta all ‘Oriente di Brescia, ma il suo momento di gloria – massonicamente parlando – lo ebbe quando, il 5 ottobre 1805, in occasione dell’innalzamento delle colonne della Loggia Reale Eugenio all’Oriente di Milano, fu chiamato a declamare la sua ode Asilo della verità.

Si tratta di un dialogo tra il Mistero e la Verità (accompagnato da un coro di Virtù), nel quale l’asilo che il primo offre alla seconda – dapprima scettica e prevenuta – è quello delle Logge massoniche:

Il Mistero.

Vieni, Diva infelice,

Vieni. In questo a’ profani occulto asilo Ti ricovra, e respira In secuftà. Qui l’ira

Giunger non può de’ tuoi nemici. A tutti Ignoto resterà che qui s’ asconde La non tacente verità.

La Verità.

Che parli?

Io tua compagna? e che comune io teco

M’ abbia 1 ‘ospizio? NOI sperar. Nemica Ti fui, lo sono, e lo sarò. Tu cerchi

L’ombre; io la luce. Tu mostrar non osi

La fronte; io temo di celarla. Or dunque

Lasciami, o Nume tenebroso. Invano Riunir t’ argomenti Mistero e Verità.

Il Mistero.

T’ accheta, e senti.

So che avversa mi sei: non io per questo

T’ ebbi men cara, augusta Dea, né mai

Ti nocqui io no; che l’opra mia sovente

Anzi ti giova, e tu nol sai. Coperta

Dell ‘arcano mio velo

Tu diventi più bella; e spesso, il credi,

M’hai vicino, mi tocchi, e non mi vedi,

Ma tacciasi di questo. Altri pensieri

Chiede il tuo stato. Una crudele in terra

Ti dan perpetua guerra

L’ Ignoranza, l’ Error, l’Orgoglio e il cieco Amor di se medesmo, e quell’orrendo Mostro a tutti tremendo. Che Fanatismo ha nome, arbitro antico Degli umani intelletti. Ognun ti teme.

Ognun t’odia, ti scaccia, e cuor non trovi

Che puro ti riceva. Or ecco: in questi

Alla mia fé commessi

Taciturni recessi, io t’offro, o Diva, Altari e culto e sicuranza, e petti

Di te bramosi e di te degni. Inoltra

Là dentro il passo, e scorgerai se vero, Se svelato ti parla oggi il Mistero.

Qui le virtù più belle

Han trono, incensi ed ara;

Qui ad ispogliar s ‘impara Da vili affetti il cor.

Eterna dalle stelle Qui piove un Dio la luce, Non Dio tiranno e fruce, Ma tutto Dio d’ amor.

La Verità.

Di stupor mi riempi, generoso mio rival. Ma quali Sono dunque i mortali

Di tanto ben privilegiati?

Il Mistero.

I figli

Dell ‘eterno Architetto.

La Verità.

Basta cosi: quel detto

Mi fa tutto palese. Addio: ti resta

Tu con gli alunni del compasso: io corro Altro asilo a cercar.

Il Mistero.

Fermati, ascolta.

La Verità.

No, lasciami: altra volta

Intervenni chiamata

Ai mistici consessi

Di questi oscuri Illuminati, ed ebbi

Di che pentirmi. Orsù: conosco anch’io

I lor travagli; so che sono: addio.

Dell’arcano altare al piede

Ogni labbro in sacro accento

Mi giurò silenzio e fede, Ma scordossi il giuramento Più d’un labbro, e mi tradì.

Porse il petto al santo amplesso,

E amor vero ognun promise; Ma 1 ‘orgoglio i cuor divise,

E il fratel più volte oppresso Dal fratello, oh Dio! perì.

Il Mistero.

Vero parlasti, austera Dea: ma quale

Degli umani istituti

Ottimo sempre si mantien? Tu stessa

Di prudenza talor forse non varchi

I prescritti confini? e per soverchio

Zelo del giusto non ti veggo io spesso

Cangiata in vizio? — Ma garrir che giova?

Entra, e i tuoi torti a prova

Conoscerai. V’ aprite, eccelse porte

Del negato a’ profani

Mistico tempio; e voi brandito, o figli

Della luce, le spade, e coll’alzate

Punte in croce, onorate

La Dea del Ver, che viene.

(Si spalancano le porte del Tempio e comparisce il Coro delle Virtù, che si avanzano giubilando incontro alla Verità.)

La Verità.

Oh Ciel! son io

Fuor di me stessa? o quelle

Che là veggio, son pur le mie sorelle?

 

Coro delle

Vieni, aspettata Dolce germana;

Delle bell ‘ anime

La gioia è ingrata, Se va lontana La verità.

La Verità.

Oh cercate da me gran tempo invano

Care sorelle, Egualità, Costanza,

Cortesia , Temperanza ,

Beneficenza, Libertà! Dunqu’io

Dopo tanto desio

Vi ritrovo e v’ abbraccio? Oh dolce incontro!

Oh me felice! Ma qual sorte amica

Fuggitive e disperse Vi riunì, vi aperse

Questo asilo di pace?

Una delle Virtù.

Un Dio che sempre

Per noi fia Dio. Leva lo sguardo, e mira: Eccolo.

La Verità.

Oh vista! E non è quello il volto D’Eugenio?

Una delle Virtù.

E desso. Su l’augusta fronte

Della fraterna stella

Non vedi il raggio balenar? Sbandite

D’ogni parte e tradite, Ei ci raccolse

Tutte intorno al suo solio, Ei ne permise L’aver culto e seguaci; ed è suo dono se, LUI nostro ORIENTE e nostro Duce, Questo Tempio abitiamo e questa Luce.

La Verità.

Oh magnanimo, oh degno        Ch’ogni buono l’adori!

Una delle

E non siam sole

Al regale suo fianco. Altre sublimi

Lo circondano a gara

Generose Virtù, che la profonda Gl’insegnano di Stato Difficil arte.

La Verità.

Ed io fra tante, io sola Esclusa rimarrò?

Una delle Virtù.

Sgombra il sospetto.

Noi medesme al suo piede

Ti guideremo. Ei chiede

Di te pur sempre e ti desira, e contro Le lusinghe e gl ‘inganni

Che circondano i troni Egli ti spera

Sua compagna, sua scorta e consigliera.

La Verità

Sì: quel cor d’udirmi è degno, E a quel core io parlerò.

Il Mistero.

E agl ‘iniqui il tuo disegno Io fedel nasconderò.

La Verità.

Dunque pace, o Dio Mistero.

Il Mistero.

Dunque pace, o Dea del Vero.

A Due.

Senza velo e senza sdegni Tra noi regni l’amistà.

Una Virtù. L’almo sole del Grande Architetto Sulla fronte d’Eugenio risplenda.

Un ‘altra

Per l’augusto Fratello diletto

Ogni petto di gioia s’accenda.

Tutti.

Il fragor delle palme battute

A lui porti la terza salute; E il possesso d’un’alma sì cara

Sia la gara di tutte Virtù.

Seppur in uno stile non particolarmente gradito all ‘orecchio di un lettore moderno, che splendidi versi sarebbero stati (e soprattutto quelli del dialogo iniziale tra Verità e Mistero) se a scriverli fosse stato chi quelle virtù praticava, e se l’adulazione per Eugenio di Beauharnais non si palesasse così sfacciatamente.

Ricca di richiami massonici (l ‘insubre Oriente; del Gran Tempio il lavorìo; il fraterno pianto; godi, o fratel) in un vero trionfo di classicismo è anche l’ode che Monti scrisse in occasione della morte del Fratello Roise ed esplicitamente intitolata In morte del militare Roise della società dei Franchi Muratori. L’ode fu declamata nelle celebrazioni funebri che la Loggia Reale Augusta all’Oriente di Milano dedicò al Fratello caduto nella battaglia di Eylau 1’8 febbraio 1807, durante la guerra della cosiddetta Quarta coalizione.

Sprezza l’invidia: ascendi,

Vate, il mio carro portator del grande Cigno di Dirce per la polvere elèa.

Vieni; e securo tendi L’arco teban, che riverita spande La memoria de’ forti e la ricrea.

Posto ancor non avea

Fine all ‘invito l’eliconia diva,

Ch’alto io già premo il divin cocchio: ed ella

Gl ‘immortali corsieri in su la riva

D’ Alfeo pasciuti per lo ciel flagella.

Dall ‘atre nubi il seno

Squarcian le rote impetuose. Il tuono

Svegliasi e rugge; il lampo mi combatte Le pupille: e sereno

Il cor nel petto mi fiammeggia al suono

Delle tempeste. Come vento ratte

Sotto le piante intatte

Fuggon cittadi e regni. Inclito campo. D’Eylau, già scendo lodator de’ tuoi

 

Vanti, e pio bacio di rispetto io stampo Su I ‘umil tomba de’ qui spenti eroi.

Qui pugnava tremenda

Contro il valor la rabbia, e in vorticoso Turbo le nevi congiurate e i venti:

Qui fe palude orrenda

Misto il barbaro sangue al generoso:

E col fragor de’ bellici tormenti Si confondean ruggenti

Le bufère. Ma invitta, ovunque cada

L’ira de’ nembi e il runico furore,

Del gran guerriero combattea la spada, E più securo d’ogni spada il core.

Quale nel suo disdegno

Alza Giove lo scettro; e la divina

Folgor s’infiamma, e tuona, e parte, e strugge: Tal del mio sire è il segno,

Tal del suo brando il lampo e la ruina.

Cade lo Scita fulminato, e mugge

Nella caduta; o fugge

Precipitoso. Orribile mistura

Fan riversati nella bianca valle

Corpi carri destrieri; e la paura

Sferza ululando le fuggenti spalle.

O delle forti imprese

Genio custode, lo stil prendi e scrivi

De’ prodi il nome, che sul sacro letto

D’onor morte distese;

Scrivi li cento che trafitti in rivi

D’ostil sangue calcar di mille il petto:

Né ardir porgea lo stretto. E tu pur cadi tra’ famosi, o figlio Dell ‘insubre oriente: e te caduto

Pianse il mistico sol, pianse ogni ciglio; E del gran tempio il lavorio fu muto.

Ma de’ tuoi fatti altera

Già vien la gloria, che il fraterno pianto

Terge: alle auguste canopée colonne

Già torna la primiera

Luce, e in lieto si cangia arcano canto L’inno lugùbre della tua Sïonne.

Godi, o fratel. Le donne

Del sacrato Elicon veglian la cura

Del lauro asperso del tuo sangue: e vive Eterno il lauro, che l’eterna e pura Onda educò delle castalie rive.

Sebbene altre tracce massoniche si possano rintracciare nella sterminata produzione letteraria del Monti, ci limitiamo qui a ricordare l’opera I pittagorici che il poeta scrisse tra il 1807 e il 1808 per festeggiare l’arrivo a Napoli dell’Imperatore (che però non arrivò). Musicata da Giovanni Paisiello, andò comunque in scena al Teatro San Carlo di Napoli il 19 marzo 1808. Tutta l’impostazione dell’opera è sonica, a partire dall’arnbientazione pitagorica (cara alla tradizione liberomuratoria in genere, e particolarmente a quella italiana) per finire al richiamo ai fatti della rivoluzione napoletana di pochi anni prima (che videro protagonisti – e poi vittime – tanti esponenti della Massoneria).

Il richiamo alle vicende napoletane, oltre che evidente di per sé, è confermato dal Monti stesso in una lettera al Cavaliere Cometti del 24 febbraio 1808:

“Intanto il mio dramma letto più volte a diversi, ha qui fatto una grandissima sensazione per la continua allusione ai lagrimevoli fatti qui accaduti nel 99. Ho preso per argomento un soggetto di venticinque secoli addietro, ma nazionale, perché accaduto in Calabria, vale a dire nella Magna Grecia; e sotto l’immagine di antiche e gloriose disavventure, ho dipinte quelle di otto anni addietro, e vi ho interessato l’onore della nazione, senza mai nominare nessuno, lasciando all ‘uditore il farne applicazione.”

È fin troppo facile rintracciare nei personaggi del libretto la vera identità dei protagonisti dei fatti napoletani: il tiranno Dionigi è Ferdinando IV, mentre Archita è il generale Championnet. Anche i martiri della rivoluzione fanno la loro comparsa, come sottolineato dallo stesso Monti:

“Gli abitanti di Napoli non han bisogno di nota, onde ravvisare sotto questi nomi e sotto le morali caratteristiche che gli accompagnano alcuni dei tanti martiri della filosofia e della virtù condannati in quei miseri giorni al patibolo.’

Facile ad esempio è identificare Francesco Mario Pagano nei panni di Gipzio, il sommo d ‘Astrea figliuol che sì profonda svolse la ragion delle pene (sue infatti le  opere giuridiche Considerazioni sul processo criminale del 1787 e Logica dei probabili o teoria delle prove, pubblicata postuma nel 1819) e Domenico Cirillo in quelli di Dorillo onor dell ‘arti mute e il più diletto della Natura confidente (Cirillo era medico e botanico insigne).

Questi i versi che li commemorano insieme agli altri eroi napoletani:

“Il Nome degli Infelici? Chi può dirli tutti!

Spento è il chiaro Dorillo onor dell’arti mute e il più diletto della Natura confidente:

È spento l’Insegnator sublime del

Nautico Vangelo,

I ‘ immacolato Ecfanto.

E Gipzio, il sommo d’ Astrea figliuol, che sì profonda svolse la ragion delle pene.

E Proro, e Cleottene e Dimante e Driante, anime tutte pellegrine, ed Eccelse, ahi dove stavi o… giustizia di Dio!

Quando sospeso

Dalla Punica antenna fu l’inclito Agesarco!

Al fatal nodo porse il collo, l’Eroe con quella fronte

Con che i Nemici fulminava avvolto

Nei maritimi rischi! Alta da lungi

Vider le rive spaventate, al vento

Ondeggiar la gran salma; e ne piangea

Mesto il Cielo, e d’orror l’onda fremea.’

Fin qui i protagonisti. Ma è tutto l’impianto ad essere fortemente connotato in chiave massonica (e anche la messa in scena, riferiscono le cronache, si svolse secondo una ritualità liberomuratoria).

Basti pensare all’incipit dell’opera, un inno al Sole cantato dal Coro e da Filtea (la figlia del protagonista Leofrono, Pontefice del Collegio Pittagorico):

Coro

Della luce eterno fonte, scopri o sol l’Augusta fronte, vieni il Mondo a ravvivar o Sol.

Filtea

Lieto s’ apre, e sente il fiore

I ‘appressar del tuo splendore, più soave il vento, e l’onda va la sponda a carezzar.

Coro

Della luce eterno fonte, scopri o sol l’Augusta fronte, vieni il Mondo a ravvivar o Sol.

Filtea

Già dal Mar che quieto ondeggia, ruggiadoso il Sol campeggia Già ritoma in sen 1a vita Più gradita a circolar.

Coro

Salve salve adorato Astro benefico Salve salve beato raggio d’amor.

Chi può mirarli Nume, bellissimo e ricusarti culto, ed onor.

Chi?

Astro benefico beato raggio d’amor.

Filtea

O primo di Natura scintillante

Ministro Alma del Mondo, Sole, ascendi ed Esulta

A te dal verde suo grande

Altare invia la terra il sacro vapor de’ Monti, e delle valli, e tutte esultanti, e festose ti rendon grazie le

Create cose. Noi del Saggio di Samo

Pacifici seguaci e discendenti

Ti adoriam riverenti

E la rischiara de’ tuoi devoti il cor,

Le vie rivela dell ‘empio che c’insidia,

E il pio proteggi nostro culto,

Che I ‘alme accende, e move ad amar tutti e non temer che Giove.

Coro

Salve adorato raggio beato

Chi può mirarti Nume

bellissimo e ricusarti culto, ed onor; Chi?

E ancora, ci sono i giuramenti rituali, effettuati con la spada in pugno:

Leofrano

Venite o figli, è clemenza del Tiranno udite. Vita si dona, a patto, che prigionieri al Rè, Dionigi andrete figli, Amici, Fratei che rispondete?

Coro

Da neri pensieri

Oppresso è quel cor.

Gli sguardi son mesti, Gli accenti funesti:

Partiamo – taciamo Rispetto al dolor.

Non sostiene – ritorte – e catene Chi di morte – spavento non ha. No, no movi un detto…

ed immerso nel petto questo ferro risposta farà.

Leofrano

Vedesti? Udisti?

Qui di Marte al pari, che di Sofia si suda nella Palestra, e acuti sono i brandi come i pensieri:

mi conforta o figli l’alta vostra fierezza.

Itene, e quando ci chiamerà l’onore

Saprem tutti insegnar come si muore.

Coro

Non sostiene ritorte e catene

Chi di morte spavento non ha.

Infine, va in scena la disponibilità all’estremo sacrificio in difesa dei segreti della setta. Nei versi che seguono, Leofrano legge le direttive che il tiranno Dionigi gli ha fatto pervenire framite il generale Tearide:

 

Leofrano

E la vita, e la morte de’ miei più cari in mio poter?

Leggiamo.

Dionigi a Tearide.

Sospendi contro i seguaci delle Samie Scuole ogni atto di rigor.

Giura in mio nome a Leofrano pace,

E di Tesori larga copia, E di onori,

Ove di Stato la ragion tranquillando de’ suoi misteri

A disgombrar la benda venga egli stesso, E ostaggio mio si renda.

Se lo rifiuta all ‘interesse mio scusali tutti, addio.

Ché lessi? È sogno? O frode?

O verace delirìo?

Intendo, intendo. Di Timica, e di Tillio

L’ ammirando silenzio irritò la stolta brama Di penetrar del nostro Culto i misteri

Sacrosanti.

La risposta di Leofrano, ferma ed eroica, arriva nel dialogo seguente con la figlia Filtea:

Filtea

Ah Padre! Dunque è vero, che noi…

Non ode e freme scorrendo un foglio. Che mai fia?

Leofrano

Venga egli stesso de’ suoi misteri a disgombrar la benda?

Empio verrò ma solo per punirti d’ avermi tentato di viltà,

Per insegnarti che del Divin Pitta ora i Seguaci san tacersi, e morir.

C’è, in queste parole, tutto il senso – profondamente massonico – della dignità del sacrificio in nome di un ideale più alto.

 

Monti, in nota, ritiene di spiegare le cause della persecuzione da parte di Dionigi:

“Uno dei motivi fondamentali fu la santità de’ loro costumi ma vi si aggiunse per maggior infortunio il pretesto della politica. L’impenetrabile velo che copriva i loro misteri mise il tiranno in gravi sospetti; per lo che, risoluto egli di voler onninamente scoprire gli arcani di una setta, le cui virtù spaventavano la sua coscienza colpevole, cominciò il barbaro a martirizzare i suoi settatori. Ma scorgendo che colla via dei supplizi nulla in bene gli riusciva, ricorse alla seduzione, e comandò ai suoi generali di prender vivi quanti potessero di quegl’infelici, riservandosi di guadagnare con allettamenti e promesse i loro segreti. Inutile tentativo.

Tra i precetti dei Pittagorici vi era una terribile legge, la quale obbligava ogni individuo della setta a farsi trucidare anziché cader prigioniero in mano al nemico; quella legge veniva rigorosamente osservata.

Alla felice risoluzione della vicenda, infine, ecco quello che pare un proclama profetico sulle sorti d’Italia:

Leofrano, Filtea e Bindeco

Non intende il mio contento chi non vide il mio tormento sol perfetto è quel diletto che il dolore preparò.

Affidiamo le conclusioni su Vincenzo Monti alle parole che, oltre mezzo secolo più tardi, un altro celebre letterato Massone, Francesco De Sanctis, gli dedicò:

“L’abate Monti, nato fra tanto fermento d’idee, ne ricevé l’impressione, come tutti gli uomini colti. Ma furono in lui più il portato della moda, che il frutto di ardente convinzione. Fu liberale sempre. E come non esser liberale a quel tempo, quando anche i retrivi gridavano <<libertà », bene inteso la <<vera libertà», come la chiamavano? E in nome della libertà glorificò tutt’i governi. Quando era moda innocente declamare contro il tiranno, gittò sul teatro l’Aristodemo, che fece furore sotto gli occhi del papa. Quando la rivoluzione francese s’insanguinò, in nome della libertà combatté la licenza, e scrisse la Basvilliana. Ma il canto gli fu troncato nella gola dalle vittorie di Napoleone, e allora in nome della libertà cantò Napoleone, e in nome anche della libertà cantò poi il governo austriaco. Le massime eran sempre quelle, applicate a tutt’i gasi dal duttile ingegno. Il poeta faceva quello che i diplomatici. Erano le idee del tempo e si torcevano a tutti gli avvenimenti. I suoi versi suonano sempre <<libertà», («giustizia», («patria», <<virtù», <<ltalia». E non è tutto ipocrisia. Dotato di una ricca immaginazione, ivi le idee pigliano calore e forma, sì che facciano illusione a lui stesso e simulino realtà.

Non aveva l’indipendenza sociale di Alfieri, e non la virile moralità di Parini: era un buon uomo che avrebbe voluto conciliare insieme idee vecchie e nuove, tutte le opinioni, e dovendo pur scegliere, si tenea stretto alla maggioranza, e non gli piacea di fare il martire. Fu dunque il segretario dell’opinione dominante, il poeta del buon successo. Benefico, tollerante, sincero, buono amico, cortigiano più per bisogno e per fiacchezza d’animo, che per malignità o perversità d’indole, se si fosse ritratto nella verità della sua natura, potea da lui uscire un poeta. Orazio è interessante perché si dipinge qual è, scettico, cinico, poltrone, patriota senza pericolo, epicureo. Monti raffredda perché sotto la magnificenza di Achille senti la meschinità di Tersite, e più alza la voce, e più piglia aria dantesca, più ti lascia freddo. Ci è quel falso eroico, tutto di frase e d’immagine, qualità tradizionale della letteratura, e caro ad un popolo fiacco e immaginoso, che aveva grandi le idee e piccolo il carattere. Monti era la sua personificazione, e nessuno fu più applaudito.

La natura gli aveva largito le più alte qualità dell’artista, forza, grazia, affetto, armonia, facilità e brio di produzione. Aggiungi la più consumata abilità tecnica, un’ assoluta padronanza della lingua e dell’elocuzione poetica. Ma erano forze vuote, macchine potenti prive d’impulso.

Mancava la serietà di un contenuto profondamente meditato e sentito, mancava il carattere, che è l’impulso morale.

Appunto, mancava il carattere, ch ‘è I ‘impulso morale.

15 Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, 1870.

[1] Gelasio Peripanti, Arlecchineide, 1814 (?).

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