L’ESOTERISMO DI DANTE ALIGHIERI

L’esoterismo di Dante Alighieri (di Alberto Canfarini)

PROMA PARTRE

La nascita di Dante Alighieri è incerta, viene indicata tra maggio e giugno del 1265, morì esule a Ravenna il 14-settembre-1321.

Nacque in una famiglia fiorentina degli Alighieri legata ai guelfi, che si opponevano ai ghibellini.

Il padre di Dante, Alighiero di Bellincione, esercitava l’attività di cambiavalute senza aspirazioni politiche pur essendo un guelfo.

Quando i ghibellini vinsero la battaglia di Montaperti non lo esiliarono perché lo giudicarono non pericoloso.

Il poeta sposò a 20 anni Gemma figlia di messer Manetto Donati, che apparteneva ad una importante famiglia fiorentina, che più tardi si schierò con i guelfi neri fazione avversa a quella del poeta.

Studiò le discipline previste dalle scuole e dalle università medievali, teologia, filosofia, fisica, astronomia, grammatica e retorica.

L’apprendimento di Dante avvenne nello Studio Generale di S. Croce. La persona che cambiò la vita del giovane Dante, fu Brunetto Latini, il quale riconobbe in lui il genio e gli donò la sua conoscenza. Dante lo ricorda nei famosi versi:

(Che n’la mente m’è fitta ed or m’accora,
la cara e buona immagine paterna,
di voi, quando nel mondo ad ora ad ora,
M’insegnavate come l’uom s’etterna).

Don Vincenzo Borghini afferma che i veri maestri di Dante sono stati i libri, infatti nel quarto canto dell’Inferno elenca quasi tutti gli uomini colti e i grandi filosofi dell’antichità, dai quali il poeta ha tratto conoscenza e saggezza.

Possiamo affermare con certezza che la sua cultura esoterica era completa ed ebbe la fortuna di essere stato cooptato dai Fedeli D’Amore che lo introdussero nell’infinito mondo dell’esoterismo.

Quasi tutti i ricercatori hanno ritenuto la società dei Fedeli d’Amore d’estrazione templare e di conseguenza in forte sospetto d’eresia per la chiesa.

C’è una forte similitudine fra il pensiero di questa scuola e la mistica persiana Sufi, in particolare quella dei Rumi, fondata da Jalal al Din Rumi, poeta persiano.

I Fedeli d’Amore erano una organizzazione tradizionale iniziatica, nata dalla realtà medioevale del tredicesimo secolo.

In quel periodo storico il potere dell’imperatore si era affievolito in Italia ed al suo posto nella complessa situazione politica italiana, s’infiltrava il potere temporale della chiesa, che con il suo dogmatismo, la tortura e i roghi dell’inquisizione, s’impadroniva del potere.

Alcuni accademici hanno messo in dubbio l’esistenza dei Fedeli d’Amore, ma lo stesso Dante ne parla in Vita Nova.

Nonostante l’indifferenza dei critici accademici d’estrazione clericale, si sono dedicati allo studio di questa associazione personaggi come Ugo Foscolo, Maria Filelfo, Antonio Maria Biscione e poi Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Luigi Valli, Gabriele Rossetti e René Guenon.

Questa associazione si è avvalsa del Dolce Stil Novo, movimento poetico italiano, che si è sviluppato verso la fine del 1200, divenendo una ricerca raffinata che si differenzia dall’italiano volgare, portando la tradizione verso un linguaggio ricercato ed aulico.

La poetica stilnovista acquista un carattere intellettuale e si avvale di metafore e simbolismi dal doppio significato.

I Fedeli d’amore come traguardo sociale si proponevano di riportare la Chiesa all’insegnamento del Cristo ed il clero ad una morale e spiritualità che ormai giudicavano decaduta ed infangata.

Contribuirono ad occultare nel linguaggio del Dolce Stil Novo un messaggio esoterico, Jacopo da Lentini, Pier della Vigna, Guido Guininzelli, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia, Cecco d’Ascoli e Dante.

René Guenon è stato un convinto assertore della radice templare dei Fedeli d’Amore, ricorda che si fregiavano dei stessi colori e del titolo di Kadosch, (Santo), che veniva conferito agli alti gradi dell’istituzione.

Inoltre fa notare che dietro le apparenti diversità dottrinali emerge una unità essenziale che si sostanzia nel pensiero metafisico, il quale non è pagano, ne cristiano, ne è una esclusiva di nessuna altra tradizione, é universale, infatti é contenuto anche nei Veda indiani.

Definire il pensiero di Dante eretico, come fece la Chiesa, è pura ottusità, egli era in possesso di quella sapienza esoterica che valica il tempo e lo spazio, è eterna.

I Fedeli d’Amore erano esposti all’intransigenza della Chiesa dell’epoca, da qui la necessità di celare il loro pensiero con un linguaggio criptato, che era stato scelto con quello degli innamorati, perché ritenuto idoneo ad esprimere il loro pensiero.

Questo linguaggio trovò i suoi natali in Provenza, creato da Roman de la Rose per proteggere gli Albigesi dalle persecuzioni di Innocenzo terzo.

A Firenze dette impulso a questo linguaggio criptato Guido Guininzelli, che apportò delle modifiche perché ormai alcune parole come fiore e rosa erano state comprese dall’inquisizione e le modificò con nomi di donna come Beatrice, che inoltre dovevano trovare riscontro nella realtà della vita sociale dell’epoca.

Beatrice significava la sapienza iniziatica, donna per definire gli iniziati, piangere significava simulare fedeltà alla Chiesa cattolica, pietra o pietra nera per definire la chiesa corrotta, saluto per definire l’atto dell’iniziazione, sono solo alcuni nomi di un lessico molto vasto.

Il Cavalcanti si distinse in questa società iniziatica, fu colui che iniziò Dante e scrisse poesie e sonetti di alto contenuto esoterico.

Sembra che questa scuola iniziatica avesse sette gradi come le arti liberali. Dante scrisse sonetti e canzoni di grande valore iniziatico per i Fedeli d’Amore, il suo migliore talento lo espresse in Vita Nova, dove descrisse la sua seconda nascita, quella iniziatica.

Il poeta a causa del suo carattere ribelle ebbe delle incomprensioni con i capi di questa organizzazione e fu abbandonato, noi diremo assonnato. Per farsi riaccettare scrisse la canzone “Donne che avete intelletto d’Amore”, che entusiasmò per il suo alto valore esoterico, fu risvegliato e posto fra gli alti gradi dell’istituzione.

In seno alla società emersero due tendenze di pensiero, la prima quella conservatrice del Cavalcanti, che riteneva la Sapienza iniziatica di natura razionale. La seconda quella che faceva capo a Dante, la quale faceva scaturire la Sapienza dal connubio delle potenzialità umane, la ragione, la spiritualità e l’intuizione superiore.

Col prevalere della teoria del poeta, il Cavalcanti si ritirò ed avvenne una scissione che portò l’istituzione vicina alla chiusura.

Dante cercò di dare nuovo impulso alla società, ma nonostante i suoi sforzi ed anche a causa delle aumentate pressioni della chiesa i Fedeli d’Amore cessarono di operare ed il poeta la definì “La morte di Beatrice”.

Dante per lenire il suo dolore si dedicò al sociale, s’iscrisse nella società degli speziali ed entrò in politica.

In seguito Dante fece altri tentativi di ridare vita alla società dei Fedeli d’Amore ma sembra con poco risultato.

La delusione fece nascere nell’animo del poeta la necessità di lavorare esotericamente in solitudine. Concepì l’idea ed iniziò la sua più grande opera, il suo capolavoro, “La Divina Commedia”.

L’esistenza di Dante è stata legata e fortemente condizionata dagli avvenimenti politici di Firenze. Nel 1250 un governo di borghesi ed artigiani mise fine all’autorità della nobiltà fiorentina.

Il conflitto fra guelfi fedeli al papa e ghibellini fedeli all’imperatore divenne una guerra fra borghesi e nobili.

Nel 1252 a Firenze vennero coniati i primi fiorini d’oro, che divennero i dollari dell’Europa commerciale dell’epoca.

Dante fu nel consiglio del popolo dal 1295 al 1296, fece parte del Concilio dei cento e fu inviato come ambasciatore a S. Giminiano.

Nel 1266 la città fu ripresa dai guelfi ed i ghibellini furono esiliati.

Il partito dei guelfi in seguito si divise in due fazioni, bianchi e neri.

Dante, quando la lotta fra le fazioni opposte si fece più aspra, si schierò con i bianchi che cercavano di difendere la città dall’egemonia della chiesa e da papa Bonifacio ottavo.

Nel 1300 fu Priore dal 15 giugno al 15 agosto, osteggiò sempre la politica della Chiesa e in particolare fu acerrimo nemico di Bonifacio VIII.

Dante si trovò a Roma in qualità d’ambasciatore, fu trattenuto con l’inganno dal papa mentre Firenze fu messa a ferro e fuoco il 9-novembre-1301 da Carlo di Valois.

Il 27-gennaio e il 10-marzo 1302 fu condannato due volte in contumacia al rogo ed alla confisca delle sue case.

Il poeta fu costretto all’esilio e si rifugiò in diverse corti della Romagna come gli Ordelaffi signori di Forlì.

Il poeta in qualità di capitano dell’esercito degli esuli, insieme a Scarpetta Ordelaffi, tentarono di riprendere Firenze ma persero nella battaglia di Castel Pulciano.

Dante fu un personaggio scomodo per il suo pensiero politico e filosofico, l’appartenenza del poeta alla società segreta dei Fedeli d’amore, ormai è stata accettata quasi da tutti.

Dante fu ritenuto dalla Chiesa un eretico perché rifiutava di riconoscere le delibere del Concilio di Vienna del 1311, con le quali Clemente quinto aveva formalizzato l’abolizione dell’Ordine del Tempio.

Il poeta con la teoria dei due soli, papato ed impero, entrambi necessari per l’umanità ed autonomi l’uno dall’altro, contrastava la bolla di Bonifacio settimo che pretendeva di sottoporre qualsiasi autorità terrena alla preminenza della Chiesa.

Tentarono d’implicarlo in un processo per magia nera, che indagava sul tentato assassinio di papa Giovanni ventiduesimo.

Dante terminò le sue peregrinazioni a Ravenna dove trovò asilo presso Guido Novello da Polenta, signore della città. Rimase sempre in contatto con la città di Verona dove si recò per illustrare la sua ultima opera scritta in latino “Quaestio de aqua et terra”. Andò a Venezia in qualità d’ ambasciatore e nel viaggio di ritorno passando per le paludose valli di Comacchio contrasse la malaria e morì a Ravenna il 14 settembre 1321.

Pochi anni dopo la morte del poeta il cardinale Beltrando del Poggeto, nipote di papa Giovanni ventiduesimo, in una pubblica cerimonia fece bruciare il libro di Dante “De Monarchia”ed era sua intenzione fare disseppellire la salma del poeta per farla bruciare insieme al libro.

Questa barbara dissacrazione fu evitata per l’intervento del signore di Ravenna Ostasio da Polenta, successore di Guido Novello, così Dante si salvò dal rogo sia in vita, sia dopo la morte, cosa che non avvenne per Cecco d’Ascoli e tanti altri martiri vittime dell’integralismo della Chiesa.

I funerali furono solenni, ufficiati nella chiesa di S. Francesco a Ravenna e nello stesso convento furono composte le sue spoglie.

La sua salma fu spostata più volte per evitare che venisse trafugata dai guelfi neri, ora riposa nel tempietto settecentesco vicino al convento.

Dante condivise il pensiero dei filosofi dell’antichità, di non divulgare l’insegnamento esoterico a tutti, nel senso che certi concetti altamente spirituali non possono essere dati in pasto a chi non può comprenderli.

Già Omero diceva: (Il maestro non deve buttare le proprie parole). Esse devono cadere solo dentro le orecchie di persone capaci d’assumersi le proprie responsabilità, che il Vero comporta.

Platone nella settima lettera dice: (Ogni uomo serio deve con grande cura evitare di dare mai in pasto le cose serie, scrivendo su di esse, all’invidia ed all’incapacità di capire degli uomini….…ma non penso che il mettere mano, come si dice a questi argomenti sia un bene per gli uomini, se non per un numero limitato di persone capaci d’arrivare da se stesse attraverso una minima indicazione).

Aristotele ha chiarito che la filosofia antica non mira ad una saggezza rivolta alle cose di questo mondo che sono mutevoli, ma ad una suprema saggezza, la Sofia, contemplazione delle cose eterne e invita chi la cerca a tendere verso l’acquisizione di una saggezza quasi divina.

Da questo concetto nasce la considerazione che questo insegnamento non è per tutti, perché in definitiva pochi sono interessati a questo sublime traguardo, non facile da realizzare, che richiede tutta la propria intelligenza, il proprio coraggio ed il risveglio dell’intuizione superiore.

Si narra che un seguace della scuola pitagorica Ippaso fu condannato a morte da Pitagora per aver divulgato la scoperta dei numeri irrazionali; che secondo il maestro minacciavano l’armonia della matematica e non ne accettò mai l’esistenza.

Questa estrema riservatezza nel medioevo cambia di poco, era consentito scrivere di queste cose ma solo tramite un codice che funzioni da filtro per i lettori.

Questo metodo fu applicato anche per la magia, l’alchimia e l’astrologia.

Dante nella tredicesima lettera indirizzata a Cangrande della Scala afferma, che nella Divina Commedia non vi è un solo senso per interpretarla.

Essa può dirsi polisema: (1)

(O voi ch’avete li’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto il velame delli versi strani.)

Dante in modo esplicito ci dice che sotto il velo si nasconde, per chi è capace di svelarlo, un senso nascosto propriamente dottrinale: (2)

(Aguzza qui, Lettor, ben gli occhi al vero,
che il velo è ora ben tanto sottile,
certo, che il trapassar dentro è leggero).

Nella seconda strofa il poeta ci spiega, che procedendo sulla via dell’iniziazione cadono gli ostacoli ed il candidato acquisisce gradualmente la capacità di vedere la Verità.

Molti commentatori delle opere del poeta hanno espresse le loro convinzioni, ma Dante chiarisce nel Convivio, che le scritture sacre possono essere comprese ed interpretate con quattro sensi di lettura che non si contrastano, ma devono completarsi ed armonizzarsi fra loro.

Sarà il caso d’ascoltarlo perché sicuramente è il più qualificato a farci comprendere il suo pensiero.

Dante parlando a Cangrande dice: (Abbiamo un primo senso letterale, che funziona da velo e narra il viaggio immaginario del poeta attraverso l’Inferno, il Purgatorio, ed il Paradiso, non va oltre le parole fittizie come fanno i poeti nelle favole).

Un secondo allegorico che svela il senso che si nasconde sotto il manto di queste favole. Dante dice: (E’ una verità nascosta sotto una bella menzogna). Il poeta porta l’esempio di Ovidio che illustra l’opera d’Orfeo, che ammansiva le fiere con la cetra. Questa favola allude alla capacità e saggezza D’Orfeo di convertire l’animo di coloro che si possono redimere.

Un terzo morale che riguarda il significato etico, studiando le sacre scritture l’umanità può pervenire alla felicità.

In questo terzo senso, Dante ricorda anche la necessità della riservatezza, e porta l’esempio di Cristo che quando salì sul monte della trasfigurazione lo fece con tre apostoli e non con dodici, perché le cose segrete vanno fatte con poca compagnia.

Un quarto senso analogico, scaturisce quando si cerca nelle scritture il livello spirituale usando il metodo “metafisico ed iniziatico”, che porta alla comprensione delle supreme cose. Il poeta porta l’esempio del Profeta che narra l’uscita del popolo d’Israele dall’Egitto:

(All’uscita d’Isdrael dall’Egitto,
della casa di Giacobbe
di fra un popolo barbaro,
la Giudea diventa un santuario,
Isdraele e il suo dominio).

Se questi versi vengono letti in modo letterale, ci viene comunicato l’uscita dei figli d’Israele dall’Egitto al tempo di Mose.

Se vengono letti in modo analogico s’intende l’uscita dell’anima, la sua conversione dalla corruzione e dal peccato, il ritorno dell’anima alla gloria, alla purificazione, alla libertà e all’eternità. Questo quarto senso è il più difficile a comprendersi perché è riservato a chi è stato iniziato, esso coordina ed unifica gli altri sensi e porta alla comprensione più alta dell’Opera divina.
Guenon fa una digressione storica che riguarda i viaggi extraterreni nelle differenti tradizioni.
In quella musulmana si evidenzia l’identità del viaggio dantesco con quello descritto da Mohyiddin Ibn Arabi che è il più grande dei maestri spirituali dell’Islam e che a suo avviso sembra abbia ispirato Dante.

Il sommo poeta è stato influenzato anche dalla tradizione “Una”che iniziò in occidente con Ermete Trismegisto “E siccome tutte le cose sono e provengono dall’Uno, così tutte le cose sono nate da questa cosa unica per adattamento” poi questa tradizione raggiunse il suo massimo splendore con la filosofia metafisica di Platone.

La descrizione della struttura del cosmo che si articola in tre mondi è conforme con la tradizione, il sovramondo, il mondo terreno ed il mondo infero.

Questi mondi appartengono alla stessa struttura cosmica, che sembra fondare l’universo intero sulla legge dell’equilibrio ternario.

Compare subito con forza la narrazione della struttura cosmica, il tempo e lo spazio, il mondo minerale, vegetale ed animale.

Nella Commedia compaiono prepotentemente i numeri che emergono in chiave simbolica, carichi di un messaggio iniziatico, il poeta è stato un profondo conoscitore del simbolismo numerico.

Dante espone dei paralleli con tradizioni come il pitagorismo, che fondò la sua sapienza sulla proporzione dei numeri, che considerava il fondamento di tutto.

Vi sono stati degli studi che hanno evidenziato che Dante nella Divina Commedia non usa mai meno di 115 e non più di 160 versi per ogni canto.

L’altra curiosità è che Dante pur scrivendo in terzine non impiega mai un numero divisibile per tre, il numero finale di ogni canto è pari ad un multiplo di 3 più 1.

Nella cultura egiziana 111 rappresenta il divino, se a 111 togliamo un uno resta 11 il male.

Nei canti dell’inferno compaiono tre numeri 1-4-7, il numero 1 indica Dio creatore; il numero 4 simboleggia i quattro elementi terra, acqua, aria, fuoco, dove l’adepto viene iniziato; il numero 7 l’unione dell’uomo con Dio, dopo la purificazione dei peccati.

Il poeta conduce i lettori in quell’universo spirituale dove prende vita e si dipana l’opera dantesca,

nelle opere minori di Dante si ravvisa lo stesso contenuto analogico come in “Vita nova” dove emergono visioni, presagi, sogni e rivelazioni.

Compare subito Beatrice figura luminosa, che poi riappare nella Divina Commedia trionfalmente nei canti finali del purgatorio e del paradiso, dove Dante la descrive come donna angelica, si evidenzia in modo chiaro che non si riferisce a una donna reale, ma come simbolo di sapienza paragonabile a quella di Salomone. Il Dolce Stil Nuovo usato dai Fedeli d’amore va interpretato in chiave analogica.

Il messaggio criptato nelle opere di Dante era reso necessario oltre alle considerazioni già esposte di non dare l’insegnamento a chi non è in grado di capirlo, anche considerando con quale durezza la Chiesa condannava le teorie che giudicava eretiche.

I Fedeli d’Amore fingevano di sospirare per le loro donne, rese angeliche come Beatrice di Dante, Laura di Petrarca e Fiammetta di Boccaccio, che segretamente simboleggiavano i loro ideali politico-religiosi indirizzati ad un progetto di rinnovamento della Chiesa.

Dante sostiene che il 1300 si colloca a metà di un ciclo completo, che gli antichi consideravano come equidistante fra i due rinnovamenti del mondo.

Continua dicendo che situarsi al centro di un ciclo significa situarsi in un luogo divino, i mussulmani dicono:

(La dove si conciliano i contrasti e le antinomie).

Il centro secondo la tradizione indù, è simboleggiato dal centro della ruota dove il movimento della maia s’arresta e si può percepire l’armonia delle sfere.

Il viaggio di Dante si compie secondo l’asse spirituale del mondo, soltanto di la si possono vedere tutte le cose che non cambiano, perché anche noi una volta pervenuti colà, siamo non più soggetti al cambiamento ed si ottiene una visione sintetica e totale.

I commentatori del poeta parlano del museo di Vienna, dove vengono conservate due medaglie, una con l’effige di Dante, l’altra con l’immagine del pittore Pietro da Pisa, sul rovescio delle medaglie sono incise le lettere “F.S.K.I.P.F.T.” Fidei, Sanctae, Kadosch, Imperialis, Principatus, Frater, Templarius.

Da questa testimonianza nasce la convinzione che Dante era uno dei vertici della società segreta della Fede Santa equivalente ai Fedeli d’Amore, infatti Dante nella parte finale del paradiso prende come guida S. Bernardo di Chiaravalle, colui che ispirò la regola dei templari.

La Divina Commedia è un testo iniziatico con il quale Dante codificò le sue conoscenze.

Il poeta descrive un percorso iniziatico dove l’uomo s’avventura alla ricerca delle sue origini, è un ritorno al punto dove partono tutte le cose, descritto con un linguaggio pregno di simboli ed allegorie che velano i segreti iniziatici.

Virgilio guida l’adepto su quella strada in salita che lo conduce alla trasmutazione della propria coscienza.

Dante compie il viaggio durante l’equinozio di primavera, quando gli adepti delle società degli antichi Misteri praticavano il rito della morte e della rinascita, decantando la parte pesante della materia e conducendo l’adepto verso la ripresa di coscienza della sua componente divina.

Chi intraprende questo percorso si trova gravato dalla materia e dalle passioni, il poeta rappresenta questa condizione con tre bestie che sbarrano la strada, e simboleggiano la natura pesante dell’uomo che deve compiere una trasmutazione totale, che si realizza subendo il rito della morte iniziatica.

Enea nel sesto canto dell’Eneide scende agli inferi e Maometto, solo ottanta anni prima del poeta, percorre il viaggio all’inferno prima di salire verso le sfere celesti.

Ricordiamoci che anche Cristo dopo la morte scende all’inferno per poi salire alla destra del Padre, così Dante secondo la tradizione, deve scendere verso il basso, all’ inferno ed affrontare le energie negative che si oppongono alla risalita.

Chi è sulla via dell’iniziazione si deve rende consapevole della sua parte oscura, deve compiere l’opera di decantazione, di purificazione della propria anima che prelude all’avverto della Luce iniziatica che dissolverà le tenebre nella propria coscienza.
FINE I° PARTE

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