Franco Cuomo
Ricorre quest’anno il centenario della prima edizione del romanzo “Kim” di Rudyard Kipling. Ricordiamo qui di seguito lo scrittore, che fu maestro massone, con un approfondimento dell’opera nei suoi aspetti più significativi e controversi. Un incontro in omaggio a Kipling si terrà a Trieste il 20 febbraio per iniziativa dell’ARS, Associazione di Ricerche Storiche.
L’errore da evitare nell’accostarsi all’opera di Kipling è quello di lasciarsi condizionare dall’urgenza di ricercarne gli spunti ideali. Non perché non ve ne siano – al contrario, ne è piena – ma perché qualsiasi tentativo d’interpretarli è al novanta per cento destinato a produrre effetti fuorvianti. Per due motivi. Primo: le medesime attribuzioni idealistiche, riferite alle storie di Kipling, producono reazioni opposte a seconda del momento e dei punti di vista da cui le si mette a fuoco. Essere definito “poeta dell’imperialismo”, ad esempio, poteva suonare come una nota di merito fino alla vigilia dell’ultimo conflitto mondiale (“una definizione appropriata”, scriveva un ingenuo critico degli anni ‘20, destinata a “viaggiare di bocca in bocca… senza invecchiare o logorarsi”). Oggi, invece, per una naturale evoluzione del giudizio storico, ha un’apparenza disonorevole. Secondo motivo: l’etica di Kipling corrisponde a regole che sfuggono a un comune metro di giudizio, indipendentemente dal tentativo di ritrovarvi connivenze morali con il colonialismo vittoriano, per il semplice fatto ch’egli è un massone britannico, rigorosamente fedele a un sistema di valori che è per sua naturainiziatico, quindi incomunicabile a chi non ne possiede la chiave. Per quanto concerne in specie il rapporto tra la Libera Muratoria e l’universo di Kipling – in termini specificamente storici, non morali – non si possono ignorare le modalità che caratterizzarono il processo di formazione di una massoneria autoctona in estremo oriente. Un processo lento e complesso, con implicazioni problematiche, spesso inquietanti per uno spirito libero, poiché la massoneria penetrò in quelle contrade al seguito di eserciti coloniali, di mercanti, di tecnici occidentali. Così, per quanto riguarda in specie i massoni inglesi, non si può dimenticare il discrimine che si trovarono costretti ad applicare nelle loro logge coloniali rispetto a quei culti incompatibili con la massoneria, respingendo – o accogliendo con molta cautela – i nativi aderenti a religioni nelle quali la credenza nell’Essere Supremo non fosse così esplicita come nella tradizione monoteistica cristiana, ebraica, islamica. Un discrimine equivocabile in certi casi per razzismo, ma che obbiettivamente non lo era, anche se poteva assumerne la connotazione in apparenza. All’epoca di Kipling, d’altronde, questo discrimine poteva dirsi in buona misura superato, poiché a partire dal 1860 furono ammessi nella massoneria indiana gli adepti della cultura indù. Grazie soprattutto al movimento di riforma religiosa del Brahmo Samaj – di iniziativa quindi del popolo indiano – volto a rilanciare gli aspetti monoteistici della tradizione indù. Ma grazie anche alla saggezza del venerabile della loggia Meridian Lodge n.345, angloindiana, che volle iniziare per la prima volta un brahmano rilevando come dietro le rifrangenze mitologiche dell’induismo – apparentemente politeistiche – c’era lo spirito unitario del Brahma vedico. Il problema, naturalmente, non si poneva per gli indiani di religione islamica e per quelli della comunità sikh, credenti per antichissima tradizione in un Essere Supremo. Più complesso sarebbe il discorso per il buddismo, date le differenze esistenti tra Grande Veicolo (Mahayama) e Piccolo Veicolo (Hinayama), negatore quest’ultimo di un principio creatore divino ; e per certi altri culti dell’India, come lo jainismo, portatore di una visione ascetico-eroica dell’universo, quale risultato dell’opera congiunta di anime superiori sulla materia increata. Né si può dire che l’intransigenza inglese nei confronti di questi culti non fosse in qualche modo giustificata, poiché da una certa apertura nei loro confronti finirono per derivare forme discutibili di co-masonry (massoneria mista), lontane dallo spirito massonico originario. E’ tuttavia innegabile che al di là della necessità del discrimine un certo pregiudizio britannico dovette in certa misura giocare nell’enfatizzare queste difficoltà anche laddove si sarebbero potute superare. Non si spiega altrimenti perché mai la Gran Loggia dell’India abbia ricevuto il riconoscimento soltanto nel 1961 (per essere poi disconosciuta nuovamente, come si sa, in questi ultimi anni). Non è superfluo comunque ricordare che fu proprio un venerabile proveniente dal movimento Brahmo ad iniziare il giovane Kipling alla massoneria. Rudyard Kipling venne iniziato nella loggia Hope and perseverance n.1 di Punjab, in India, nel 1886 (quindi giovanissimo, tanto che fu necessaria una dispensa speciale, non avendo compiuto ventuno anni). Risulta da documentazione certa che gli fu conferito il grado di maestro all’atto stesso dell’iniziazione e che fu in seguito venerabile dell’importante loggia di Lahore. Ebbe accesso un anno dopo ai gradi superiori. Ricevette nell’87 il Grado del Marchio e nell’88 quello di Royal Ark Mariner. E’ lo stesso Kipling a fornire ampie indicazioni sulla sua attività massonica in una realtà coloniale segnata, come quella indiana, da pesanti differenze, non solo di razza, ma di casta. Nella poesia Mother Lodge parla di uomini che nell’intimità del “tempio” si chiamano tra loro “fratelli”, mentre all’esterno si salutano dicendosi formalmente: “Sir, sergente, sahib, salaam”. E’ significativo, in relazione a quanto si è detto sulla difficoltà d’incontro e integrazione tra la massoneria e le culture indigene. Più specificamente, nel racconto L’uomo che volle farsi re (dal quale venne tratto un film con Sean Connery e Michael Caine) spiega in termini quasi didascalici come non si debba usare la massoneria a fini di potere. Anche qui lo scenario coloniale diventa uno sfondo di straordinaria efficacia didascalica. La trama racconta di due soldati inglesi che raggiungono l’impervia regione del Kafristan per fondarvi un proprio regno, modellato secondo la struttura di una Loggia, ritenendo che le regole massoniche possano servire a dominare la popolazione indigena. Ma la gente del luogo già conosce i segreti dell’Arte reale e l’intento dei due avventurieri fallirà per il distorto uso ch’essi intendono fare di un potere incompatibile con interessi profani. Comunque lo si voglia interpretare, questo racconto non è certo animato da spirito imperialista. Anzi, contrasta in maniera radicale con le accuse ricorrenti dei detrattori di Kipling. Ma anche in maniera meno esplicita, meno evidente talvolta, i grandi principi d’ispirazione muratoria sono sempre presenti nelle opere più note di Kipling, come Kim e i due Libri della giungla, dove i rapporti tra le creature non soltanto umane rispondono a finalità di armonia universale. Il che non è sempre facile da cogliere, nonostante l’apparente semplicità del testo, poiché spesso la descrizione scorre in funzione di una contingenza storica immediata e particolare, dalla quale scaturisce l’equivoco della vocazione imperialista di Kipling. Per esempio, si voluto intravedere nel brano che segue l’intento, da parte dell’autore, d’imporre anche alla giungla la mistica del militarismo coloniale britannico: – Ma gli animali sono intelligenti come gli uomini? – Essi obbediscono come gli uomini: il mulo, il cavallo, l’elefante e il bue, tutti obbediscono al loro conducente, e questo al suo sergente, e il sergente al suo tenente, il tenente al suo capitano, il capitano al suo maggiore, il maggiore al suo colonnello, il colonnello al comandante della brigata, che comanda tre reggimenti, e il comandante della brigata al suo generale, il generale al viceré, che è al servizio della regina. C’è chi ha preteso di leggere questa tirata in un’ottica imperialista, attribuendole fini apologetici di quell’ordine gerarchico grazie al quale ogni azione, ogni evento provocato e ordinato dall’uomo – anche la fatica degli animali – diventa funzionale all’interesse dell’Inghilterra. C’è chi ne ha tratto la conclusione che per Kipling uomini e bestie debbano essere, perché il loro ruolo sia compiuto, “al servizio della regina”. Ma è un’interpretazione riduttiva, rispetto a quella più nobile, più aderente ad una visione divina e al tempo stesso razionale del mondo, secondo la quale ogni evento è armonicamente collegato a tutti gli altri. E’ questa, con ogni probabilità, l’idea centrale dell’universo “coloniale” di Kipling, della sua giungla pensante, delle sue regole dall’apparenza elementare ma dallo spirito spesso imperscrutabile. Ed è da questo che nasce probabilmente il malinteso al quale non seppero sottrarsi nemmeno i dotti che gli conferirono nel 1907 il Premio Nobel, motivandolo come riconoscimento “all’opera più segnata d’indirizzo idealistico”. Ma il Nobel di massone è lo stesso Kipling a darselo da solo, per coloro che seppero leggerlo tra le righe di If, la più popolare delle sue poesie, quando nomina gli “utensili logori” con i quali il perdente deve ricostruire il suo destino.