L’ ORLANDO FURIOSO

L’ ORLANDO FURIOSO

 

Ludovico nacque nello stesso anno che Michelangiolo, il 1474. Machiavelli, Berni, Bembo, Guicciardini, Folengo, Aretino, i principali personaggi di questa età letteraria, nacquero in questo scorcio del secolo, a poca distanza di anni: il Machiavelli nel sessantanove, il Bembo nel settanta, il Guicciardini nell’ottantadue, e nel novantaquattro il Folengo, e nel novanta Pietro Aretino.

Nel novantotto, proprio l’anno che il Machiavelli era eletto segretario del comune fiorentino, Ludovico scrivea in prosa le sue due prime commedie. L’uno attendeva alle gravi faccende dello Stato, e ne’ suoi viaggi in Italia e in Europa attingeva quella scienza dell’uomo e quella pratica del mondo, che dovea fare di lui la coscienza e il pensiero del secolo; l’altro faceva il letterato in corte, e scrivea sonetti, canzoni, elegie, capitoli, commedie, tutto nel mondo della sua immaginazione.

Aveva allora ventisei anni. Cinque ne aveva sciupati intorno alle leggi; finchè, avuta dal padre licenza, si mise con ardore allo studio delle lettere, e tutto pieno il capo di Virgilio, Orazio, Petrarca, Plauto, Terenzio, cominciò a far versi latini e italiani, come tutti facevano, elegie, canzoni, odi, epigrammi, madrigali, sonetti, epistole, epitalami, carmi.

Nel ’94, quando Carlo ottavo scendeva in Italia, il giovane Ludovico scrive un’ode oraziana a Filiroe, nome ch’egli appicca ad una contadinella. Carlo minaccia

… … asperi

furore militis tremendo,

turribus ausoniis ruinam.

E il giovane sdraiato sull’erba e con gli occhi alla sua Filiroe scrive:

Rursus quid hostis prospiciat sibi,

me nulla tangat cura, sub arbuto

iacentem aquae ad murmur cadentis…

Pensa e sente e scrive come Orazio. Il mondo precipita: e che importa? sol che possa andar pe’ campi, seguire Lida, Licori, Filli, Glaura, e cantare i suoi amori:

Est mea nunc Glycere, mea nunc est cura Lycoris

Lyda modo meus est, est modo Phyllis amor…

Antra mihi placeant potius montesque supini,

vividaque irriguis gramina semper aquis …

Dum vaga mens aliud poscat, procul este Catones …

E scrive De puella, De Lydia, nome oraziano di una sua amata di Reggio, De Iulia, una cantante, De Glycere et Lycori, De Megilla, e fino De catella puellae, imitazione felice di Catullo. Luigi decimo-secondo conquista il ducato di Milano, chiamatovi da Alessandro sesto e che importa,

… … si furor, Alpibus

saevo flaminis irmpetu

… … iam spretis, quatiat celticus ausones?

Che importa servire a re gallo o latino,

si sit idem hinc atque hinc non leve servitium?

Barbaricone esse est peius sub nomine, quam sub

moribus?

Tutti barbari e tutti tristi. E il giovane, esclamando: “Improba secli conditio!” e lamentando “clades et Latii interitum”,

nuper ab occiduis illatum gentibus, olim

pressa quibus nostro colla fuere iugo,

svolge l’occhio dallo spettacolo e cerca un asilo in Orazio e Catullo. L’anno appresso alla calata di Carlo ottavo l’Ariosto recita l’orazione inaugurale degli studi nel duomo di Ferrara, De laudibus philosophiae, e poi la reca in esametri. Scrivea pure sonetti, canzoni, elegie, dove si sente lo studio del Petrarca. Nel movantatre a diciannove anni, scrive un’elegia per la morte di Leonora d’Aragona, moglie del duca di Ferrara. Nell’introduzione si scopre ancora lo studente e il dilettante:

Rime disposte a lamentarvi sempre,

accompagnate il miserabil core

in altro stil che in amorose tempre:

che or giustamente da mostrar dolore

abbiamo causa, ed è sì grave il danno

che appena so s’esser potria maggiore.

I suoi amori in italiano sono platonici, alla petrarchesca; in latino sono sensuali, all’oraziana. In latino tiene Megilla tra le braccia, e non può credere a’ suoi occhi, e dice:

An haec vera Megilla

cuius detineor sinu?

Haec, haec vera mea est; nil modo fallimur,

mi anceps anime: en sume cupita iam

mellita oscula, sume

expectata diu bona.

Ma in italiano Megilla è “l’alta beltade”, che “col suo beato lume illustra e imbianca l’occaso”, e l’amante e “nel dir lento e restio” e non descrive, perchè “chi descriver puote a pieno il sole?”.

Non è valore uman che tanto ascenda.

Se avesse potuto apprendere il greco, Anacreonte o Teocrito gli avrebbe instillata nell’immaginazione un’altra fraseologia: perchè tutto questo è un gioco di frasi. Ma, tutto dietro al latino, non pensò per allora al greco:

Che ‘l saper nella lingua degli Achei

non mi reputo onor, s’io non intendo

prima il parlar de li latini miei.

Mentre l’uno acquistando, e differendo

vo l’altro, l’occasion fuggì sdegnata,

poi che mi porge il crine ed io nol prendo.

Morì il padre, ch’egli aveva soli ventott’anni, e lo lasciò tra sorelle e piccoli fratelli capo della casa: così dovè mutare Omero nel libro de’ conti:

Mi more il padre, e da Maria il pensiero

dietro a Marta bisogna ch’io rivolga;

ch’io muti in squarci ed in vacchette Omero.

Nè potè avere più agio e modo d’intendere “nella propria lingua dell’autore ciò che Ulisse sofferse a Troia e poi nel lungo errore, e ciò che scrisse Euripide, Pindaro e gli altri, a cui le Muse argive donar sì dolci lingue e sì faconde”; perchè venuto in corte fu mandato qua e là, oppresso dal giogo del cardinale d’Este:

E di poeta cavallar mi feo:

vedi se per le balze e per le fosse

io potevo imparar greco o caldeo.

Fra questi studi e imitazioni uscì la Cassaria, una commedia in prosa, scritta con tutte le regole della commedia plautina, e che parve un miracolo a Ferrara, appunto perchè vedevano in italiano quello che erano usi ad ammirare in latino. Ai misteri e alle farse succedea la commedia e la tragedia, con tutte le regole dell’arte poetica e con le forme di Plauto e Terenzio. E non solo s’imitava quel meccanismo, ma si riproducea lo stesso mondo comico, servi, parasiti, cortigiane, padri avari e figli scapestrati. Il giovane autore, a quel modo che trasforma le sue contadine in Filli e Licori, vive tutto in quel mondo di Plauto, e nel suo lavoro d’imitazione perde di vista la società in mezzo a cui si trova. La sua commedia è una ricostruzione, non è una creazione, e intento al meccanismo, si lascia fuggire le più belle situazioni e contrasti comici. Nel Bibbiena e nel Lasca ci è una certa vita che viene dal Decamerone, non so che licenzioso e buffonesco, conforme allo spirito comico, quale s’era sviluppato a Firenze, e si sentiva nel Lasca e nel Berni, segretario del Bibbiena. Ma l’Ariosto vive fuori di questo ambiente, e in un mondo tutto di erudizione, e quando vuol essere faceto, ti riesce grossolano. Oltrechè, essendo quello un mondo di accatto e con caratteri già dati, ci sta a disagio, e non ci si abbandona, e non se lo assimila. Un effetto comico ci è; ed è ne’ viluppi, negl’intrighi, negli equivoci, prodotti dal caso o dalla malizia, in un imbroglio drammatico, che spesso stanca l’attenzione. Ma l’intrigo non basta a sostenere l’interesse, quando i caratteri non sieno bene sviluppati e l’intrigo non si trasformi in situazione comica. Trappola, Volpino, Nebbia, Erofilo, Lucrano sono esseri insignificanti, nè dall’intreccio esce alcuna scena fondamentale, dove si raccolga l’interesse. Più tardi scrisse altre commedie, intestatosi a farle in versi sdruccioli, per rendere l’imitazione latina perfetta, parendogli che quel metro rispondesse a capello al giambo. Nè in questa forma sgraziata, che vuol essere poesia e non è prosa, gli riesce meglio la commedia, ancorchè il soggetto alcuna volta potesse convenire a quella società, come è il Negromante. Sbagliata la via, non si raddrizza più. Un negromante o astrologo che fa mestiere di sua arte, e con sue bugie cava quattrini da’ gonzi, è un argomento popolarissimo, e trattato allora da tutt’i novellieri. Il Boccaccio avea messo in iscena il prete o il frate, come il prete di Varlungo o frate Cipolla: allora la parte di scroccone e giuntatore era rappresentata dall’astrologo. Il nome era mutato: il motivo comico era lo stesso. Ricordiamoci con che brio ne ha trattato il Lasca in una sua novella. Ci si sente la tradizione e la malizia del Boccaccio, e l’ambiente di Firenze, dove lo speziale arguto continua il Sacchetti, il Pulci, il Magnifico. Ma nel Negromante ariostesco senti la società latina, dove il servo è più astuto del padrone, rappresentata da chi non vi sta in mezzo e non l’intende e la studia su’ libri. Cinzio, Camillo, Massimo sono mummie più che uomini, preda facile de’ birboni che ci vivono intorno. Sono essi non il principale, ma il fondo del quadro, la vile moltitudine sulla quale si esercita la malizia de’ servi e degli avventurieri. Concetto profondo, se l’Ariosto l’avesse trovato lui e ne avesse cavato un mondo comico. Ma ci sta a pigione e senza alcun senso, come se fosse cosa naturalissima questo mondo colto al rovescio, sì che i servitori ne sappiano più dei padroni e diventino i loro tutori e salvatori, come Fazio e Temolo, che scoprono e sventano le malizie del negromante. Costui, che è il protagonista, non è proprio un astrologo, com’è nel Lasca, e come il prete è prete nel Boccaccio; ma è un birbone matricolato, che fa l’astrologo senza crederci punto. Nel Lasca la materia comica è cavata dall’astrologia messa in burla: qui l’astrologia ci sta per comparsa, nè da essa escono i mezzi d’azione. Se mastro Iachelino, che è il negromante, fosse un vero astrologo, che mentre vuol farla a’ padroni è burlato da’ servitori, il concetto sarebbe così spiritoso, com’è nell’astrologo del Lando, di cui si mostra più sapiente un contadino, anzi l’asina del contadino. Ma qui l’astrologo è un ignorantaccio, che, come dice il Nibbio suo servo e confidente, mal sapendo leggere e male scrivere, fa professione di filosofo, di medico, di alchimista, di astrologo, di mago:

e sa di queste e dell’altre scienzie

che sa l’asino e il bue di sonar gli organi.

Sicchè il tutto si riduce a una gara di malizia tra maestro Iachelino e Nibbio da una parte, e Fazio e Temolo, che sono i servi, dall’altra. Non mancano bei tratti, che rivelano nell’autore un ingegno e uno spirito comico non comune. Cinzio racconta al servo le maraviglie del negromante, e il servo si beffa del negromante e del padrone, ed è in ultimo colui che l’accocca a tutti. Cinzio l’assicura gravemente che sa trasformare uomini e donne in animali. Risponde Temolo:

Si vede far tutto il dì, nè miracolo

è cotesto . .

Non vedete voi che subito

un divien potestade, commissario,

provveditore, gabelliere, giudice,

notaio, pagator degli stipendii,

che li costumi umani lascia, e prendeli

o di lupo o di volpe o di alcun nibbio?

– Capisco – dice Cinzio. La poca esperienza che hai del mondo ti fa parlare così. Ma non credi tu dunque che e’ possa scongiurare gli spiriti? – E Temolo risponde:

Di questi spirti, a dirvi il ver, pochissimo

nè meno crederei; ma li grandi uomini,

e principi e prelati, che vi credono,

fanno col loro esempio ch’io, vilissimo

fante, vi credo ancora.

Questo tratto è stupendo d’ironia; è il popolano ignorante che col suo naturale buon senso si prende spasso de’ grandi uomini. Bella situazione drammatica è dove Nibbio, viste le reti tese a Cinzio, a Massimo e a Camillo, il più ricco, domanda al negromante:

Delle tre starne che in piè avete, ditemi,

qual mangerete?

ASTROLOGO

Vedraimi ir beccandole

ad una ad una, ed attaccarmi in ultimo

alla più grassa, e tutta divorarmela.

NIBBIO

Eccoven’una, e la miglior: mettetevi,

se avete fame, a piacer vostro a tavola.

ASTROLOGO

Chi è? Camillo?

NIBBIO

Si.

ASTROLOGO

Si ben; mangiarmelo

voglio, che l’ossa non credo ci restino.

E questo Nibbio, quando vede scoperte le magagne dell’astrologo, egli, suo servo, confidente e mezzano, gli dà il calcio dell’asino, e lo ruba e lo pianta lì. Sono bei tratti perduti in un mondo convenzionale e superficiale, e poco studiato, e abborracciato nei momenti più interessanti. L’autore vi mostra un’attitudine più a narrare, ad esporre, a descrivere, che a drammatizzare. Che uomo sia mastro Iachelino, è benissimo esposto in un monologo di Nibbio; ma quando lo si vede in azione, lo si trova noioso, insipido, grossolano, molto al di sotto dell’aspettazione.

Ludovico era di coltura al di sotto de’ tanti dotti di quel tempo, ed anche di alcuni della corte. Il cardinale Ippolito pregiava assai meno i poeti, gente oziosa, che i suoi staffieri e camerieri, e volendo trarre un utile dal nostro poeta, ne fece un “cavallaro”, mandandolo qua e là in suo servigio. Ludovico, ricordandosi la grande amicizia di Leone decimo, quando era proscritto con la sua famiglia da Firenze, vistolo papa, andò a lui pieno di speranza, e non ne cavò altro che belle parole. Fu anche in Firenze per commissione della corte ferrarese, e la profonda impressione fattagli da quella vista si rivela in una elegia scritta in quell’occasione:

A veder pien di tante ville i colli

par che ‘l terren ve le germogli,

come vermène germogliar suole e rampolli.

Se dentro un mur, sotto un medesmo nome,

fosser raccolti i tuoi palazzi sparsi,

non ti sarian da pareggiar due Rome.

Inviato governatore in Garfagnana, alza le strida perchè il cardinale lo abbia tolto a’ dolci studi e a’ cari amici e spintolo in quel “rincrescevole laberinto”. Da ultimo il cardinale volea trarselo appresso in Ungheria, e qui il nostro poeta perde le staffe e dichiara che in Ungheria non vuole andare. Lodare il cardinale in versi, sta bene; ma far da comparsa nel suo corteggio, questo no:

Io stando qui, farò con chiara tromba

il suo nome sonar forse tanto alto,

che tanto mai non si levò colomba.

E lo loda in latino e in volgare, e più sfacciatamente in latino:

Quis patre invicto gerit Hercule fortius arma?

Mystica quis casto castius Hyppolito?

Ma Ippolito non si curava delle lodi, e lo volea servo e non poeta:

Non vuol che laude sua da me composta

per opra degna di mercè si pona:

di mercè degno è l’ir correndo in posta…

S’io l’ho con laude ne’ miei versi messo,

dice ch’io l’ho fatto a piacere e in ozio:

più grato fòra essergli stato appresso.

Ludovico, scrittor di commedie, è lui medesimo un carattere de’ più comici, e se, rappresentando un mondo convenzionale, è riuscito nelle commedie poco felice, è stato felicissimo dipingendo se stesso alla buona e al naturale. Alcune sue qualità te gli affezionano Ama i fratelli e la vecchia madre, e per loro si acconcia a servitù, rodendo il freno. Il suo ideale è la tranquillità della vita, starsene a casa fantasticando e facendo versi, vivere e lasciar vivere. Ma il punto è che sia lasciato vivere. Il poveruomo era un personaggio idillico, non aveva ambizioni, non curava grandezze, nè onori; “gli sapeva meglio una rapa” in casa sua che t”ordo o starna o porco selvaggio “all’altrui mensa:

E così sotto una vil coltre,

come di seta o d ‘oro ben mi corco.

E più mi piace di posar le poltre

membra, che di vantarle che agli sciti

sien state, agl’indi, agli etiopi, e oltre.

Degli uomini son vari gli appetiti;

a chi piace la chierca, a chi la spada,

a chi la patria, a chi li strani liti.

Chi vuole andare attorno, attorno vada;

vegga Inghilterra, Ongheria, Francia e Spagna:

a me piace abitar la mia contrada.

Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna,

quel monte che divide e quel che serra

l’Italia, e un mare e l’altro che la bagna.

Questo mi basta: il resto della terra,

senza mai pagar l’oste, andrò cercando

con Tolomeo, sia il mondo in pace o in guerra.

Ma non è lasciato vivere, e ha tra’ piedi il cardinale, e ne sente una stizza che sfoga con questo e con quello. Qualche rara volta la stizza si alza a indignazione e gli strappa nobili accenti:

Apollo, tua merce, tua mercè, santo

collegio delle muse, io non possiedo

tanto per voi, ch’io possa farmi un manto.

… …

Or, conchiudendo, dico che, se ‘l sacro

cardinal comperato avermi stima

con li suoi doni, non mi è acerbo ed acro

renderli, e tôr la libertà mia prima.

… …

Se avermi dato onde ogni quattro mesi

ho venticinque scudi, nè sì fermi

che molte volte non mi sien contesi,

mi debbe incatenar, schiavo tenermi,

obbligarmi ch’io sudi e tremi, senza

rispetto alcun ch’io muoia o ch’io m’infermi;

non gli lasciate aver questa credenza:

ditegli che più tosto ch’esser servo,

torrò la povertade in pazienza.

Ma sono scarse faville. Non è così rimesso d’animo o cupido d’onori, che imiti i cortigiani e sacrifichi la sua comodità per fare a gusto del cardinale; e non è così altero, che rompa la catena una buona volta, e lo mandi con Dio. Serve borbottando e sfogando il mal umore, con una sua propria fisonomia nella scala de’ Sancio Panza e de’ don Abbondio. E ne nascono situazioni stupendamente comiche. Tale è il suo viaggio a Roma, con tante speranze nell’amico Leone. Come lo accoglie bene! Ma sono parole, e la sera gli tocca andare a cena sino all’insegna del Montone:

Piegossi a me dalla beata sede:

la mano e poi le gote ambe mi prese,

e il santo bacio in amendue mi diede.

Indi, col seno e con la falda piena

di speme, ma di pioggia molle e brutto,

la notte andai sin al Montone a cena.

Ora lo prende la stizza, e si sfoga descrivendo la cupidità ingorda de’ cardinali; ora fa il filosofo, come volesse dire: – E quando anche avessi le ricchezze del gran Turco e tre e quattro mitre, ne val poi la pena? –

Sia ver che d’oro m’empia la scarsella

e le maniche e il grembo, e se non basta,

m’empia la gola e il ventre e le budella;

in che util mi risulta essermi stanco

in salir tanti gradi? Meglio fora

starmi in riposo, o affaticarmi manco.

Ora ha aria di scusare il papa. – Poerino! Parenti, cardinali che gli diedero “il più bel di tutt’i manti,” amici che lo aiutarono a tornare a Firenze, dee dar bere a tanti!

Se fin che tutti beano, aspetto a trarme

la volontà di bere, o me di sete,

o secco il pozzo d ‘acqua veder parme,

meglio è star nella solita quiete.

Questa magnifica situazione è sviluppata con ricchezza di motivi e di gradazioni, con una perfetta varietà di caratteri, e con un’ironia tanto più pungente, quanto appare più ingenua e più bonaria. Lo stesso ho a dire di Ludovico fatto governatore, che fa un ritratto stizzoso de’ suoi amministrati, e deplora il tempo sciupato intorno ad essi, o di Ludovico che nega di andare in Ungheria, o che raccomanda a Pietro Bembo il figlio, e gli narra la sua vita e le sue contrarietà, i suoi studi. Ci si vede tra la stizza quella specie di rassegnazione delle anime fiacche, che significa: – Ma che ci è a fare? Pazienza! – E anche una specie di bonomia, che gli fa sciorinare tutt’i suoi difetti, come fossero perle. Anche il Berni è così, e si fa bello della sua poltroneria; ma carica e buffoneggia, con lo scopo di far ridere: dove Ludovico si dipinge tutto al naturale a semplice sfogo del mal umore, e meno cerca l’effetto e più l’ottiene. Si ride a spese degli altri e anche un po’ a sue spese, e senza ch’egli se ne accorga o se ne guardi. In un secolo così artificiato, dove per soverchio studio d’imitazione o per conseguire certi effetti artistici si perdeva di vista la realtà della vita, Ludovico, che scrivendo commedie o canzoni e sonetti petrarcheschi si pone in un mondo convenzionale, qui in presenza di se stesso, come Benvenuto Cellini, crea un carattere comico de’ più interessanti, perchè non è solo il suo ritratto, ma del borghese e letterato italiano a quel tempo nel suo aspetto men reo. Ha visto Roma, ha visto Firenze, è stato in Lombardia, ma il suo mondo non si è ingrandito; il suo centro è rimasto Ferrara; e le sue cure domestiche, i suoi umori con la corte, i suoi piccoli fastidi, i suoi amori, le sue relazioni letterarie, i suoi interessi privati sono tutta la sua preoccupazione allora appunto che l’Italia era corsa da’ barbari e si dibatteva nella sua agonia. Il borghese colto, spensierato, pigro, tranquillo, ritirato nella famiglia o tra le allegre brigate, è tutto qui con la sua quiete e il suo “fuge rumores”. Ci è in questo ritratto un po’ di Orazio, ma l’imitazione è qui natura, è somiglianza di anima e di genio. Il riso è puro di amarezza e di disprezzo, perchè senti che l’uomo di cui tu ridi è onesto, gentile, ingenuo, inoffensivo, ha tutte le qualità amabili delle anime deboli e buone. Non ci è il capitolo e non la satira, perchè quell’uomo non si propone di berteggiare nè di censurare, ma unicamente di sfogare il suo umore col fratello o l’amico. E perciò la sua narrazione è mescolata di osservazioni, facezie, motti, proverbi, movimenti stizzosi d’immaginazione, tratti e pitture satiriche, e soprattutto di apologhi graziosissimi, piccoli capilavori. La terza rima, il linguaggio eroico e tragico del medio evo, il linguaggio della Divina Commedia e de’ Trionfi, in questa profonda trasformazione letteraria diviene il linguaggio della commedia, il metro del capitolo, della satira e della epistola, con una sprezzatura che arieggia alla prosa. La parabola si compie in queste epistole dell’Ariosto, dove la terzina è profondamente modificata, e prende forma pedestre, aguzzata e sentenziosa, come un epigramma o un proverbio.

La terzina, come il sonetto e la canzone, era il genere letterario e tradizionale. L’ottava, la cui immagine si vede già abbozzata ne’ rispetti e ne’ canti popolari, era il linguaggio de’ romanzi, delle narrazioni e delle descrizioni, recata a perfezione dal Poliziano. Era il linguaggio di moda e popolare. E la terzina sarebbe rimasta, come il sonetto e la canzone, stazionaria e convenzionale, se il Berni e l’Ariosto non le avessero data nuova vita, traendola dal cielo, e dandole abito conforme al tempo. L’ottava rima cantava; la terzina discorreva, berteggiava, satirizzava, esprimeva la parte prosaica e reale della vita.

Fra tanti fastidi e piccole miserie della vita Ludovico scriveva l’Orlando furioso, con molta noia del cardinale Ippolito, che vedeva sciupato in quelle “corbellerie” il tempo destinato al suo “servizio”. Il Boiardo interruppe il suo Orlando innamorato proprio allora che calava le Alpi Carlo ottavo per andar “non so in che loco”. Morì qualche anno dopo, quando Ludovico traduceva Plauto e Terenzio e scriveva commedie, rappresentate magnificamente nel teatro di corte. La gloria dell’Omero ferrarese spronò l’Ariosto a tentar qualche cosa di simile. Cominciò in terza rima una storia epica de’ fasti estensi, ma smise subito, disacconcio il metro alla sua larga vena. E si risolse senz’altro di continuar la storia di Orlando, ripigliandola là dove l’avea lasciata il Boiardo. Se ne consigliò col Bembo, il quale lo esortò a scrivere il poema in latino. L’Orlando in latino! Il Bembo non capiva cosa fosse l’Orlando innamorato. Ma lo capiva l’Ariosto, che di quella lettura facea sua delizia, e deliberò senza più di usare lo stesso metro e le stesse forme. Così cansò l’imitazione classica, e ricuperò la libertà del suo ingegno. Pose mano al lavoro nel 1505, al suo trentunesimo anno, e vi si seppellì per dieci anni, e spese tutto il rimanente della vita a emendarlo. Si racconta che andasse sino a Modena in pianelle, e non se ne accorse che a metà della via. Altri fatti si narrano della sua distrazione. Che cosa c’era dunque nella sua testa? C’era l’Orlando furioso. Niuna opera fu concepita nè lavorata con maggior serietà.

E ciò che la rendeva seria non era alcun sentimento religioso o morale o patriottico, di cui non era più alcun vestigio nell’arte, ma il puro sentimento dell’arte, il bisogno di realizzare i suoi fantasmi. Ci è ne’ suoi fini il desiderio un po’ di secondare il gusto del secolo, e toccare tutte le corde che gli erano gradite, un po’ di tessere la storia o piuttosto il panegirico di casa d’Este. Ma sono fini che rimangono accessorii naufragati e dimenticati nella vasta tela. Ciò che lo anima e lo preoccupa è un sentimento superiore, che è per lui fede, moralità e tutto, ed è il culto della bella forma, la schietta ispirazione artistica. E lo vedi mutare e rimutare, finchè non abbia dato alle sue creazioni l’ultima forma che lo contenti. Da questa serietà e genialità di lavoro uscì l’epopea del Rinascimento, il tempio consacrato alla sola divinità riverita ancora in Italia, l’Arte.

Ludovico e Dante furono i due vessilliferi di opposte civiltà. Posti l’uno e l’altro tra due secoli, prenunziati da astri minori, furono le sintesi, in cui si compì e si chiuse il tempo loro. In Dante finisce il medio evo; in Ludovico finisce il Rinascimento.

Ritratto tutti e due della loro età. Dante fu più poeta che artista: all’artista nocquero la scolastica, l’allegoria, l’ascetismo, e la stessa grandezza ed energia dell’uomo. Ci era nella sua coscienza un mondo reale troppo vivo e appassionato e resistente, perchè l’arte potesse dissolverlo e trasformarlo. E quel mondo reale era involuto in forme così dense e fisse, che il suo sguardo profondo non potè sempre penetrarvi e attingerlo nel suo immediato.

Tutto questo mondo è già sciolto innanzi a Ludovico, nella sua realtà e nelle sue forme. È sciolto per un lavoro anteriore al quale egli non ha partecipato. Già nel Petrarca spunta l’artista, che si foggia il mondo del suo cuore, e se lo compone e atteggia come pittore, e ci crede e ci si appassiona e ne sente i tormenti e le gioie. Già nel Boccaccio l’arte si trastulla a spese di quella realtà e di quelle forme. Già su quel mondo è passato il ghigno di Lorenzo, e il riso beffardo del Pulci, e già, vòto il tempio, è surta sugli altari la nuova divinità annunziata da Orfeo, tra’ profumi eleganti del Poliziano. Ludovico non ha niente da affermare, e niente da negare. Trova il terreno già sgombro, e senza opera sua. Non è credente, e non è scettico; è indifferente. Il mondo in mezzo a cui si forma, destituito di ogni parte nobile e gentile, senza religione, senza patria, senza moralità, non ha per lui che un interesse molto mediocre. Buona pasta d’uomo, con istinti gentili e liberi, servo non fremente e ribelle, ma paziente e stizzoso, adempie nella vita la parte assegnatagli dalla sua miseria con fedeltà, con intelligenza, ma senza entusiasmo e senza partecipazione interiore. Lo chiamavano distratto. Ma la vita era per lui una distrazione, un accessorio, e la sua occupazione era l’arte. Andate a vedere quest’uomo mezzano e borghese come quasi tutt’i letterati di quel tempo, nella sua bontà e tranquillità facilmente stizzoso, e che non sa conquistare la libertà e non sa patire la servitù, e tutto rimpiccinito e ritirato tra le sue contrarietà e le sue miserie si fa spesso dar la baia per le sue distrazioni e le sue collere; andate a vedere quest’uomo quando fantastica e compone. Il suo sguardo s’illumina, la sua faccia è ispirata, si sente un iddio. Là, su quella fronte, vive ciò che è ancora vivo in Italia: l’artista.

Già questo mondo cavalleresco, che riempie la sua immaginazione, non era stato altro mai in Italia che un mondo di fantasia e visto da lontano. E quando ogni idealità si corruppe, molti cercavano ivi quell’ideale di bontà e di virtù che altri trovavano nella vita pastorale: così sorse sulle rovine del medio evo il poema cavalleresco e l’idillio, i due mondi poetici o ideali del Rinascimento. Una reminiscenza di quel mondo cavalleresco c’era, ma lontana e confusa per le date, per i luoghi e per i fatti; sicchè veniva alla coscienza non da tradizioni nazionali, ma dalla lettura di romanzi tradotti o imitati. Pure una immagine vicina di quel mondo era nelle corti, dove appariva quel non so che signorile e gentile e umano che fu detto “cortesia”, e dove spesso si davano spettacoli che richiamavano alla mente quelle forme e que’ costumi. Ci era dunque nella coscienza italiana un mondo della cortesia contrapposto al mondo plebeo per la pulitezza delle forme e la gentilezza de’ sentimenti; un mondo le cui leggi non erano derivate dal Vangelo, nè da alcun codice, ma dall’essere cavaliere o gentiluomo; e anche oggi sentiamo dire: “in fè di gentiluomo”. Ci era il codice dell’onore e dell’amore, che comprendeva gli obblighi del prode e leale cavaliere. La costanza e fedeltà nell’amore, la devozione al suo signore, l’osservanza della parola, la difesa de’ deboli, la riparazione delle offese, erano gli articoli principali di quel codice, il cui complesso costituiva il così detto punto d’onore. Questo è quel mondo della cortesia che nel Decamerone apparisce come il mondo poetico in contrapposto con la rozzezza plebea: e in verità Gerbino e Guglielmo e la figlia di Tancredi e Federigo degli Alberighi sono belle immagini di un mondo superiore per finezza e fierezza di tempra. Ma nelle corti italiane, come quelle di Urbino, di Ferrara, di Mantova, era rimasto di quel mondo appena un barlume, e più nell’apparenza che nella sostanza, anzi non rado avveniva di vedere accoppiata con l’eleganza e la galanteria dei costumi la più sfacciata perfidia, come in Cesare Borgia. Un sentimento vero e profondo dell’onore non era dunque parte intima del carattere nazionale, e se allora potevano esserci uomini di onore, non ci era certo nè un popolo, nè una classe, dove l’onore fosse regola della vita, anzi quegli uomini colti e svegliati erano inclinati a dar dello sciocco a quelli che con loro danno o incomodità osservavano quelle leggi: non era virtù, era dabbenaggine, e destava quel leggier senso ironico, la cui punta è appena dissimulata nell’esclamazione del poeta:

O gran bontà de’ cavalieri antichi!

Non ci era dunque in Italia un serio sentimento cavalleresco, che potesse ispirare qualche cosa come il Cid; e scaduto ogni sentimento religioso, morale e politico, l’onore rimaneva senza base, e non avea serbate che alcune delle sue qualità superficiali, e più brillanti che solide, di cui si vede il codice nel Cortigiano del Castiglione. Perciò la cavalleria, come la mitologia e come il mondo religioso, non era fra noi altro che pura leggenda o romanzo, un mondo d’immaginazione, che interessava non per il suo ideale, ma per la novità, la varietà e la straordinarietà degli accidenti. Meno il suo significato era serio, e più il suo contenuto era fantastico e licenzioso, cancellati tutt’i limiti di spazio e di tempo e di verisimiglianza. Il cantastorie non si proponeva altro scopo che di stuzzicare la curiosità e appagare l’immaginazione, intessendo sul vecchio fondo tradizionale cavalleresco le favole più assurde, e intrigandole fra loro in modo da tener sospesa e curiosa l’attenzione. Indi quelle forme di narrare bizzarre, interrompendo, intramettendo, ripigliando co’ passaggi più bruschi, e portando l’incoerenza fino nell’esterna orditura del racconto.

Già cominciava a spuntare una scienza dell’uomo e della natura. L’invenzione della stampa, la scoperta di Copernico, i viaggi di Colombo e di Amerigo Vespucci, gli scritti del Pomponazzi, i Discorsi del Machiavelli, la Riforma, la costruzione solida di grandi Stati, come la Spagna, la Francia, l’Inghilterra, erano fatti colossali che rinnovavano la faccia del mondo. Ma le conseguenze non erano ancora ben chiare, e il mondo moderno, il mondo dell’uomo e della natura, o, per dirlo in una parola, la scienza, era ancora come un sole inviluppato di vapori, che non danno via a’ suoi raggi. E i vapori erano il mondo popolare dell’immaginazione, che suppliva alla scienza, riempiendo la terra di miracoli. Ogni specie di soprannaturale era accumulata e ammessa, il miracolo de’ cristiani, il prodigio de’ pagani, gl’incanti de’ maghi e delle fate, le imposture degli astrologi. L’uomo stesso in mezzo a questa natura fatata e incantata era un attore degno di quel teatro: essere ancora primitivo, credulo, ignorante, abbandonato alle sue inclinazioni e passioni, determinato all’azione da sùbiti movimenti, anzi che da posata riflessione, e che non si ripiega mai in sè, non si studia, non si conosce, è tutto superficie, tutto fuori nel tumulto e nel calore della vita. Perciò è piuttosto anch’esso una forza naturale che un essere consapevole, una forza tirata e avvolta nel vario gioco degli avvenimenti, povera di “carattere” e di “autonomia”.

Nondimeno l’Italia era il paese, dove l’uomo, come intelligenza, era più adulto, più formato dall’educazione e dalla coltura, e dove il soprannaturale sotto tutte le sue forme non era ammesso che come macchina poetica, un gioco d’immaginazione. Perciò, se in altre parti di Europa ci era ancora un legame tra il mondo cavalleresco e il mondo reale, questo legame era spezzato tra noi, e la cavalleria non era che un mondo di pura immaginazione.

Ludovico era tutt’altro che uomo cavalleresco, anzi tirava al comico. E quando prese a voler continuare la storia del Boiardo, era come un pittore che dipinge con la stessa indifferenza una santa o una ninfa o una fata, pur di dipingerla bene. Molti chiedono: – Quale fu lo scopo dell’Ariosto? – Non altro che rappresentare e dipingere quel mondo della cavalleria. Omero canta l’ira di Achille; Virgilio canta Enea; Dante canta la redenzione dell’anima; l’Ariosto non canta l’impresa di Agramante o di Carlo e non le furie di Orlando e non gli amori di Ruggiero e Bradamante: l’impresa di Agramante è per lui come un punto fisso intorno al quale si sviluppa il mondo cavalleresco, non lo scopo, ma il tempo e il luogo nel quale si mostra quel mondo. Egli canta le donne e i cavalieri, le cortesie e le audaci imprese che furono “a quel tempo” che Agramante venne in Francia. Le furie di Orlando e gli amori di Ruggiero sono non episodi, appunto perchè non ci è un’azione unica e centrale, ma parti importanti di quell’immensa totalità che dicesi mondo cavalleresco. L’unità è dunque non questa o quella azione e non questo o quel personaggio, ma è tutto esso mondo nel suo spirito e nel suo sviluppo nel tal luogo e nel tal tempo. Se l’impresa di Agramante fosse non il semplice materiale dove si sviluppa il mondo cavalleresco, ma una vera e seria azione, lo scopo del poema, e se Orlando e Ruggiero fossero episodi in quest’azione, il romanzo sarebbe così difettoso, come difettosa sarebbe la Divina Commedia, a volerla giudicare con lo stesso criterio. Belli questi episodi che invadono l’azione e la soperchiano! Bella quest’azione che ha i suoi accidenti più importanti fuori del poema nella storia del Boiardo, e che ispira un interesse molto mediocre al poeta, il quale se ne ricorda solo allora che ha bisogno di raccogliere le fila troppo sparse in un centro, e volentieri e per lungo tempo se ne dimentica, e finita essa, continua senza di essa! Unità d’azione ed episodi sono un linguaggio convenzionale venutoci da Aristotile e da Orazio, e sarebbe cosa assurda a volerlo applicare al mondo cavalleresco. Perchè l’essenza di quel mondo è appunto la libera iniziativa dell’individuo, la mancanza di serietà, di ordine, e di persistenza in un’azione unica e principale, sì che le azioni si chiamano avventure, e i cavalieri si dicono erranti. Staccarsi dal centro, andare vagando, e cercare avventure, è lo spirito di un mondo che ripugna così alla unità come alla disciplina. Volere organizzare questo mondo co’ precetti di Orazio e di Aristotile è un volerlo falsificare. Il disordine qui è ordine, e la varietà è unità. Come l’unità del mondo nella sua infinita varietà è nel suo spirito o nelle sue leggi, così l’unità di questa vasta rappresentazione è nello spirito o nelle leggi del mondo cavalleresco.

La forza centripeta è assai fiacca in questo mondo della libertà e dell’iniziativa individuale; e ci vuole l’angiolo Michele o il demonio per tirare i cavalieri erranti a Parigi, dove si combatte. E non ci si trovano che un par di volte, e appena una giornata; chè il dì appresso corrono di nuovo dietro a’ fantasmi delle loro passioni, tirati da amore, da vendetta, da gloria, e vaghi tutti di avventure strane e maravigliose. La stessa impresa di Agramante non è un fatto religioso o politico, ma anch’essa una grande avventura, cagionata dal desiderio della vendetta. Parigi è un punto stabile dove stanno a offesa e difesa con gli eserciti Carlo e Agramante; ma i loro paladini e cavalieri, la più parte re e signori, vanno discorrendo per il mondo, e Parigi non è che un punto di convegno dove il racconto si raccoglie alcuna volta e si riposa, e di cui si vale il poeta per comporre e annodare le fila in certi grandi intervalli. Perchè al di sopra di quest’anarchia cavalleresca ci è uno spirito sereno e armonico, che tiene in mano le fila e le ordisce sapientemente, e sa stuzzicare la curiosità e non affaticare l’attenzione, cansare in tanta varietà e spontaneità di movimenti il cumulo e l’imbroglio, ricondurti innanzi improvviso personaggi e avvenimenti che credevi da lui dimenticati, e nella maggiore apparenza del disordine raccogliere le fila, egli solo tranquillo e sorridente in mezzo al tumulto di tanti elementi cozzanti. Parigi è il principal nodo dell’ordito, è come un faro, che di tanto in tanto brilla e illumina tutto intorno. La scena si apre a Parigi, appunto allora che le genti cristiane hanno avuto una gran rotta. E allora appunto, quando il bisogno è maggiore, Rinaldo, Orlando, Brandimarte vanno via. Rinaldo corre dietro a Baiardo, Orlando corre dietro ad Angelica, e Brandimarte corre dietro ad Orlando. Vi trovate già in pieno mondo cavalleresco: vi si sviluppano le avventure. E mentre essi corrono, Agramante mette il fuoco a Parigi, e Rodomonte vi entra solo e vi sparge il terrore. Parigi è salvato, perchè una pioggia miracolosa spenge l’incendio, e Rinaldo guidato dall’angiolo Michele giunge proprio a tempo e disfà i pagani. Agramante che assediava, è assediato. I cavalieri pagani sono anche erranti. Ferraù cerca Orlando, a cui ha giurato di toglier l’elmo; Gradasso cerca Rinaldo, a cui vuol togliere Baiardo; Sacripante cerca Angelica; Marfisa, Rodomonte, Ruggiero, Mandricardo contendono e pugnano tra loro. Riesce al demonio di farli correre appresso al ronzino di Doralice, che li tira seco a Parigi. Giungono e disfanno i cristiani. Ma il dì appresso si raccende la discordia e vengono alle mani. Mandricardo è ucciso da Ruggiero; Marfisa e Rodomonte lasciano per ira il campo; e chi rimane? Rinaldo tra’ cristiani, Ruggiero tra’ pagani. Un duello tra Rinaldo e Ruggiero dee porre fine alla guerra. Ma Agramante rompe i patti, è disfatto, la sua flotta è dispersa da’ nemici e da’ venti, e vede di lungi la sua patria arsa da’ cristiani. Il poema cominciato a Parigi si termina a Parigi, con le nozze di Ruggiero e la morte di Rodomonte. Parigi è il legame esteriore del racconto, ma non ne è l’anima o il motivo interiore. Il motivo è lo spirito di avventura e la soddisfazione degli appetiti, l’amore, o il punto d’onore, o il maraviglioso, che tirasi appresso il cavaliere, quando non sia sviato e impedito da forze soprannaturali. Il soprannaturale è qui come semplice macchina o forza, senza personalità; e forze sono e non persone Michele e il demonio e la Discordia e Atlante e Melissa. È un soprannaturale privo di ogni aureola e prestigio, e tali sono pure le spade e gli scudi incantati, e gli anelli fatati, e gl’ippogrifi, e la lancia di Argalìa, e il corno di Astolfo, e simili storie viete e note, che lasciano fredda l’immaginazione del poeta. Si è così avvezzi a questo soprannaturale, che ci si sta dentro come in un mondo ordinario; quel fantastico in permanenza uccide se stesso e perde le sue punte e i suoi colori; se interesse ci è, non è in quello, ma negli effetti tragici o comici che sa cavarne il poeta, come sono gli effetti comici del corno di Astolfo. Tra questo mondo soprannaturale vive una forza indisciplinata e quasi ancora primitiva, nelle varie sue gradazioni, dal mostro e dal gigante e dal pagano sino al cavaliere cristiano, il cui modello è nel codice di onore, e che rappresenta la civiltà e il progresso nella comune barbarie.

I motivi spirituali di questo mondo, l’amore, l’onore e il maraviglioso o lo spirito di avventura, sono dal poeta portati a quell’ultimo punto che confina col ridicolo: l’amore toglie il senno ad Orlando ed imbestia Rodomonte; il punto d’onore degenera in puntiglio e produce i più strani effetti, la cui immagine tragica è Mandricardo, e il cui modello comico è Rodomonte nelle sue imprese sul ponte; il maraviglioso ti conduce sino alla soglia dell’inferno e nel paradiso terrestre e nel regno della Luna. Il mondo cavalleresco ne’ suoi motivi interni è spinto all’ultima punta. Se l’elemento soprannaturale è fiacco, e la stessa Alcina pare quasi più una personificazione allegorica che una verace persona poetica, vivacissima è al contrario la pittura degli avvenimenti determinati da forze naturali e umane, che abbracciano tutto il circolo della vita nelle sue varie e contrarie apparenze. Vi si sviluppano profonde combinazioni estetiche, serie e comiche; come è Angelica che finisce moglie di un povero fante, la pazzia di Orlando, la peregrinazione di Astolfo nella Luna, la discordia nel campo di Agramante, Agramante in vista di Biserta, e Gradasso fatato, che, guerreggiando tutta la vita per avere Baiardo e Durlindana, quando le ha ottenute e si crede felice, è ammazzato da Orlando. Reminiscenza di Achille è Ruggiero, liberato dagli ozi del castello incantato e dalle delizie di Alcina, e riuscito il più perfetto modello di cavaliere. Intorno a queste grandi combinazioni si aggruppano fatti minori, che danno il finito e il contorno a questo mondo nelle sue più lievi sfumature, come è la morte di Zerbino e il lamento d’Isabella, Olimpia abbandonata, la morte e le esequie di Brandimarte, le avventure di Grifone, Dudone, Marfisa, e le scene comiche di Martano, di Gabrina e di Giocondo. Quantunque un mondo così fatto abbia un aspetto fuori dell’ordinario e si discosti tanto da’ costumi e dal sentire del suo tempo, pure Ludovico ci sta così a suo agio e ne ha sì vivamente impressa l’immaginazione, che te lo dà alla luce con tutt’i caratteri di una vita presente e reale. E qui è il maraviglioso del genio ariostesco, rappresentare un mondo così straordinario con semplicità e naturalezza. Le condizioni di esistenza sono veramente fantastiche sino all’assurdo; ma una volta ammesse quelle basi, il movimento storico diviene profondamente umano e naturale. Si vegga con che fine gradazioni psicologiche è condotto Orlando sino a perdere il senno, con che scala intelligente è rappresentato il dolore di Olimpia, o la discordia de’ pagani nel campo di Agramante. Perciò tutti quei personaggi ti stanno innanzi vivi, e non puoi dimenticarli più. Alcuni anzi son divenuti caratteri comici proverbiali, come Rodomonte, Gradasso, Sacripante, Marfisa. Il poeta non s’intromette niente nella sua storia, e più che attore, è spettatore che gode alla vista di quel mondo, quasi non fosse il mondo suo, il parto della sua immaginazione. Indi quella perfetta obbiettività e perspicuità del mondo ariostesco, che è stata detta chiarezza omerica. L’arte italiana in questa semplicità e chiarezza ariostesca tocca la sua perfezione, ed è per queste due qualità che l’Ariosto è il principe degli artisti italiani, dico “artisti” e non “poeti”. Non dà valore alle cose, slegate dalla realtà e puro gioco d’immaginazione; ma dà un immenso valore alla loro formazione, e intorno vi si travaglia con la maggiore serietà. Non ci è così piccolo particolare, che non tiri la sua attenzione, e non abbia le sue ultime finitezze. Appunto perchè l’interesse è non nella cosa, ma nella sua forma, la maniera sobria e comprensiva di Dante è abbandonata, e non hai schizzi, hai quadri finiti. Ciò che nel Decamerone ti dà il periodo, qui te lo dà l’ottava, di una ossatura perfetta, e congegnata a modo di un quadro col suo protagonista, i suoi accessorii e il suo sfondo. Il Poliziano ti dà una serie, di cui lascia il legame all’immaginazione: l’Ariosto ti dà un vero periodo, così distribuito e proporzionato che pare una persona. E l’effetto è non solo in quella ossatura materiale così solida e bene ordinata, ma in quell’onda musicale, in quella superficie scorrevole e facile, che ti fa giungere all’anima insieme coi fatti i loro motivi e i loro affetti. Nel secolo de’ grandi pittori, quando l’immaginazione italiana mirava a dare all’immagine tutta la sua finitezza, l’Ariosto è pittore compìto, che non ti lascia l’oggetto finchè non ne abbia fatto un quadro. E non è che cerchi effetti di luce o di armonia straordinari, o lusso di colori e di accessorii: non ci è ombra di affettazione, o di pretensione; ci è l’oggetto per se stesso, che si spiega naturalmente. Il poeta fissa l’esteriorità nel punto che è viva, quando cioè è atteggiata così o così per movimenti interni o esteriori, e non osserva, non riflette, non la scruta, non l’interroga, non cerca al di dentro, non la palpa, non la maneggia per volerla abbellire. Nessun movimento subbiettivo viene a turbare l’obbiettività del suo quadro; nessun movimento intenzionale. Non ci è il poeta, ci è la cosa che vive, e si move, e non vedi chi la move, e pare si mova da sè! Questa sublime semplicità nella piena chiarezza della visione è ciò che il Galilei chiamava a ragione la “divinità” dell’Ariosto. E non è solo nel minuto, ma nelle grandi masse. La sua vista rimane tranquilla e chiara ne’ più bruschi e complicati movimenti d’insieme. Indi è che dipinge duelli, battaglie, giostre, feste, spettacoli, paesaggi, castella, con quella purezza e semplicità di disegno che dipinge le cose minime. Nelle ottave del Poliziano la superficie non ha più nulla di scabro, ma ti accorgi che è stata strofinata, leccata, lisciata e si vede l’intenzione dell’eleganza. Qui la superficie è così naturalmente piana, che ti par nata a quel modo e che non possa essere altrimenti. Pigliamo ad esempio la rosa:

Questa di verdi gemme s’incappella;

quella si mostra allo sportel vezzosa;

l’altra, che in dolce foco ardea pur ora,

languida cade e il bel pratello infiora.

Qui la rosa m’ha aria di una fanciulla civettuola, che prende questa o quell’attitudine per parer vezzosa. L'”incappellarsi”, lo “sportello”, quell'”ardere in dolce foco”, sono immagini appiccatele da immaginazione umana. È la rosa non nella sua naturalezza immediata, ma come pare all’uomo. Ci si vede il lavoro dello spirito, che l’orna e la vezzeggia, la rosa passata attraverso lo spirito e uscitane trasformata. Vedi ora nell’Ariosto, la rosa,

che in bel giardin su la nativa spina

mentre sola e sicura si riposa,

nè gregge nè pastor se le avvicina;

l’aura soave e l’alba rugiadosa,

l’acqua, la terra al suo favor s’inchina:

gioveni vaghi e donne innamorate

amano averne e seni e tempie ornate.

Ma non sì tosto dal materno stelo

rimossa viene e dal suo ceppo verde,

che quanto avea dagli uomini e dal cielo

favor, grazia e bellezza, tutto perde.

Questa è la storia o il romanzo della rosa. Il poeta ha aria non di descrivere, ma di raccontare, e ti pone innanzi la cosa nella sua verità naturale, sì che niente paia oltrepassato, esagerato, o trasformato. L'”alba rugiadosa”, il “ceppo verde”, la “nativa spina”, i “gioveni vaghi”, le “donne innamorate”, i “seni e le tempie”, il “gregge e il pastore” sono tutte immagini naturali, distinte, plastiche, obbiettive, prodotte da una immaginazione impersonale, assorbita dallo spettacolo. E guarda alla movenza dell’ottava, con tanta semplicità che l’ultimo verso par ti caschi per terra, come vil prosa, a quel modo che è cascata la rosa da quella sua altezza verginale. Gli è che qui eleganza, armonia, colorito non vengono da alcun preconcetto dello spirito, ma sono la forma stessa delle cose, non il loro ornamento o la loro veste, ma la loro chiarezza. Come le cose minime, così le grandi masse sono disegnate con la stessa perspicuità e purezza. Fra tante battaglie e duelli e incanti e paesaggi non trovi mai ripetizioni o reminiscenze, perchè ciascuna cosa è come un individuo perfettamente distinto e caratterizzato. Quadro, piccolo o grande che sia, prende la sua movenza e il suo colore dalla cosa rappresentata, e però ciascun quadro è in sè distinto e compìto, condotto e disegnato negli ultimi particolari. Lo spirito ne’ suoi preconcetti è limitato, e produce la “maniera”, che ti pone innanzi non la cosa vista, ma il modo di guardarla, la visione: e perciò facilmente imitabili sono i poeti subbiettivi, ne’ quali prevale la maniera, come il Petrarca, il Tasso, il Marino, e simili. Al contrario inimitabile è l’Ariosto che non ha maniera, perchè è tutto obbliato e calato nelle cose, e non ha un guardare suo proprio e personale. Anzi egli ha una perfetta bonomia, un’aria di raccontare alla schietta e alla buona, come le cose gli si presentano, senza mettervi niente di suo. Ha un ingegno poroso, che riceve e rende le cose nella evidenza e distinzione della loro personalità, senza che esse trovino ivi intoppo o alterazione. Perciò il suo ingegno è trasmutabile in tutte guise, non secondo il suo umore, ma secondo la varia natura delle cose. Con la stessa facilità e sicurezza vien fuori l’eroico, il tragico, il comico, l’idillico, il licenzioso, come qualità naturali delle cose, anzi che del suo spirito. Di che viene l’evidenza miracolosa di questo mondo nella sua infinita varietà e libertà, e la sua serietà artistica nel suo insieme e nelle minime parti. L’evidenza è in quel coglier gli oggetti vivi, cioè in azione, e metterti innanzi tutti gli accessorii essenziali, anch’essi in azione, cioè come movimenti, attitudini o motivi, accessorii che Dante fa indovinare, e che qui si sviluppano nelle larghe pieghe dell’ottava. E perchè gli oggetti sono còlti in azione o in movimento, le descrizioni sono rare e sobrie, e appena accennati i caratteri e i paesaggi, che sono l’uomo e la natura nel loro stato d’immobilità, e abbozzate le intramesse e le commettiture e le circostanze facilmente intelligibili, e gli antecedenti richiamati brevemente, e l’azione colta nel momento più interessante e condotta innanzi con le vele gonfie e con prospero vento. Mai non ti accade d’impaludare o di deviare: come in questo mondo par che non esistano limiti di spazio o di tempo, così nello stile non trovi intoppi o ingombri, e sei in acqua limpida e corrente. Tutto è succo e pieno di senso. Niente ci sta in modo assoluto: tutto è relativo e intenzionale, e concorre all’effetto, ora serio ora comico. L’effetto è quale te lo può dare un mondo di sola immaginazione, al quale il poeta non prende altra partecipazione che artistica, che non ha alcuna relazione con le sue passioni e i suoi sentimenti. L’effetto è una viva curiosità sempre nutrita e accompagnata spesso da una tranquilla soddisfazione, come chi sa di sognare, e gli piace, e tiene gli occhi mezzo chiusi, immerso in quella contemplazione. Il sogno gli piace, pure non dice nulla al suo cuore e alla sua mente: è un dolce ozio dell’immaginazione. È un flutto d’immagini così vive e limpide, così naturali e così espressive, che ti tengono a sè e non ti concedono alcuna distrazione; e ti giungono portate da onde sonore, tra colori e tra mormorii, che dilettano la vista e suonano deliziosamente nell’orecchio. Quel mondo è il tuo rêve, o per dirla con linguaggio tolto a quel mondo, è il tuo castello incantato, il tuo sogno dorato. L’impressione non è così profonda che oltrepassi l’immaginazione e colpisca il tuo essere in ciò che di più serio ha il pensiero o il sentimento. La più gagliarda impressione ti suscita appena una emozione, nuvoletta nel suo formarsi già sciolta in quel limpido cielo. Di queste nuvolette leggiere, appena disegnate, è sparso il racconto, e sono movimenti subitanei che provocano una risata o una lacrima, immediatamente repressi e trasformati. Eccone qualche esempio:

– Nè men ti raccomando ancora la mia Fiordi… –

ma dir non puote “ligi”, e qui finìo…

Stese la mano in quella chioma d’oro,

e strascinollo a se’ con violenza;

ma come gli occhi in quel bel volto mise,

gli ne venne pietade e non l’uccise.

Così subitanee e così fugaci sono le tue emozioni, quando ti balzano innanzi certe immagini tenere. Si sveglia subito nel tuo cuore qualche cosa che si move, e che non puoi chiamare ancora “sentimento”, quando una nuova immagine ti avverte del gioco e ricaschi nella tranquillità della tua visione. Una delle creature più simpatiche dell’Ariosto è Zerbino, e quando gli giunge addosso la spada di Mandricardo, ci è nel nostro cuore un piccol movimento, che risponde ai palpiti della sua Isabella; ma il poeta con una galanteria piena di grazia paragona la lunga e non profonda ferita al nastro purpureo, che partisce la tela d’argento ricamata dalla sua bella, e spenge in sul nascere quel movimento. La morte di Zerbino è una scena molto tenera, il cui sentimento troppo straziante è rintuzzato da immagini graziosissime. Isabella è china sul morente: il poeta la guarda, e la trova pallidetta come rosa:

rosa non còlta in sua stagion, sì ch’ella

impallidisca in su la siepe ombrosa.

Zerbino, morendo, nella sua disperazione manda un ultimo sguardo pieno di passione all’amata:

per queste bocca e per questi occhi giuro,

per queste chiome onde allacciato fui…

Talora è una sola circostanza ben collocata, che dal sentimentale ti gitta nell’immagine:

e straccia a torto l’auree crespe chiome.

A quest’ufficio adempiono specialmente i paragoni, che nel più vivo dell’emozione te ne distraggono e ti presentano un altro oggetto. Sacripante nel suo dolore paragona la verginella alla rosa. Angelica incalzata da Rinaldo pare una cavriola fuggente, che abbia veduta la madre sotto i denti del pardo:

ad ogni sterpo che passando tocca,

esser si crede all’empia fera in bocca.

L'”impasto leone”, l'”uscito di tenebre serpente”, l'”orsa assalita nella petrosa tana”, il “vase a bocca stretta e a lungo collo, onde l’acqua esce a goccia a goccia”, e simili spettacoli, non nuovi e non originali, come presso Dante, ma di apparenze e movenze vivacissime, sono gagliarde diversioni e distrazioni che riconducono la vita al di fuori anche nel maggiore strazio della passione. Veggasi nel canto quarantacinquesimo il lamento di Bradamante, che è una vera canzone elegiaca, sparsa di amabili paragoni. Quell’occhio vagante, che cerca se stesso nella natura, ha già rasciutte le lacrime. Onde nasce quel tono generale del sentimento più vicino all’elegiaco e all’idillico che all’eroico e al tragico; ciò che è conforme non pure alla natura impressionabile e tenera del poeta, ma alla stessa tendenza dell’arte, dal Petrarca in qua. Anche la natura rimane tutta al di fuori e non ti cerca l’anima, com’è il giardino di Alcina e il paradiso terrestre. Ci è l’immagine, non ci è il sentimento:

Zaffir, rubini, oro, topazi e perle

e diamanti e crisoliti e iacinti

potriano i fiori assimigliar che per le

liete piagge v’avea l’aura dipinti…

Cantan fra i rami gli augelletti vaghi

azzurri e bianchi e verdi e rossi e gialli,

murmuranti ruscelli e cheti laghi

di limpidezza vincono i cristalli.

Qual è il suono che manda questa natura? Quali impressioni? Quali ispirazioni? Astolfo fra tanta bellezza guarda e passa, e non gli si move il core che di maraviglia alla vista di un muro che è tutto di una gemma

più che carbonchio lucida e vermiglia.

O stupenda opra! O dedalo architetto!

Non hai dunque il sentimento della natura, come non hai il sentimento della patria, della famiglia, dell’umanità, e neppure dell’amore, dell’onore. In luogo del sentimento hai la sentenza morale, che è la sua astrazione, il sentimento naturalizzato e cristallizzato in bei versi, come:

il miser suole

dar facile credenza a quel che vuole.

Ecco magnifiche sentenze intorno all’amore:

Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile,

e l’invisibil fa vedere Amore.

Che non può far di un cor che abbia suggetto

questo crudele e traditore Amore?…

Che lietamente in sul principio applaude,

e tesse di nascosto inganno e fraude.

… … Amor che sempre

d’ogni promessa sua fu disleale,

e sempre guarda come involva e stempre

ogni nostro disegno razionale…

Io dico e dissi e dirò finch’io viva

che chi si trova in degno laccio preso

pur che altamente abbia locato il core

pianger non dee, se ben languisce e muore.

Chi mette il piè sull’amorosa pania,

cerchi ritrarlo e non v’inveschi l’ale:

chè non è in somma amor se non insania,

a giudizio de’ savi universale.

Oh gran contrasto in giovenil pensiero

desir di lauda ed impeto d’amore!

Né, chi più vaglia, ancor si trova il vero,

chè resta or questo, or guel superiore.

Amor sempre rio non si ritrova:

se spesso nuoce, anche talvolta giova.

La lunga absenzia, il veder vari luoghi,

praticare altre femmine di fuore,

par che sovente disacerbi e sfogli

dell’amorose passïoni il core.

Amor dee far gentile un cor villano,

e non far d’un gentil contrario effetto.

Queste sentenze non sono osservazioni profonde e originali, ma luoghi comuni assai bene versificati, che non lasciano alcun vestigio di sè. Il sentimento, ora condensato in una sentenza, ora tradotto in una immagine, appena nato, si dissolve. Non mancano tratti sentimentali, come è la risposta di Dardinello a Rinaldo, o di Agramante a Brandimarte, o i lamenti di Olimpia o di Orlando o di Cloridano così musicali ed elegiaci; ma stanno come inviluppati in quel mare fantastico, e naufragati sotto a quei flutti d’immagini. Sono voci d’angoscia e di passione, che prima di giungere a noi già si confondono col rumore delle onde e diventano visibili: sono immagini Un ultimo esempio ce lo dà Orlando, che piangendo e chiamando Angelica la paragona ad un’agnella smarrita, e ci fa intorno de’ ricami.

In una società così poco sentimentale, così superficiale e mobile, e così ricca d’immaginazione, come povera di coscienza, si può concepire quale viva ammirazione dovessero destare questi quadri plastici. La nuova letteratura iniziata in quei giri musicali del Decamerone si contemplava e si ammirava in queste flessuose ottave, dove la vita nella sua rapida vicenda è così palpabile e così limpida “Procul este, profani.” Nessuna ombra del reale, nessuno spettro del presente, nessuna voce profonda del cuore o della mente venga a turbare questa danza serena. Siamo nel regno della pura arte: assistiamo a’ miracoli dell’immaginazione. Il poeta volge le spalle all’Italia, al secolo, al reale e al presente, e naviga come Dante in un altro mondo, e quando dalla lunga via ritorna, si circonda, come d’una corona, di poeti e di artisti, vera immagine di quella Italia, madre della coltura e dell’arte, a cui egli presentava l’Orlando. Ma Dante si traeva appresso nell’altro mondo tutta la terra: la patria lo inseguiva anche colà co’ suoi fantasmi. Ludovico naviga con la testa scarica e il cuore tranquillo, come un pittore che viaggia e dipinge quello che vede. Ciò che gli fa tremare la mano, ciò che gli fa battere il cuore, è questo solo pensiero: “Quello che mi sta nella testa, quello che io vedo così bene qua dentro, uscirà così sulla tela?”. E tocca e ritocca, sino alla morte, scontento, inquieto: perchè non è tranquillo, chi ha qualche cosa a realizzare, sulla terra. Ciò che Ludovico ha a realizzare non è questo o quel contenuto nella sua realtà e serietà. Il mondo cavalleresco è per lui fuori della storia, libera creatura della sua immaginazione. Ciò che ha a realizzare in quello è la forma, la pura forma, la pura arte, il sogno di quel secolo e di quella società, la musa del Risorgimento. Ed ha tutte le qualità da ciò. Ha sensibilità più che sentimento; ha impressioni ed emozioni più che passioni; ha vista chiara più che profonda; ha l’anima tranquilla, sgombra di ogni preoccupazione, piena di fantasie, allegra nella produzione, e tutta versata al di fuori nei suoi fantasmi. È lo spirito non ancora consapevole, che vive al di fuori e si espande nel mondo e s’immedesima con quello e lo riflette puro con brio giovanile. Così è venuto fuori quasi di un getto, quasi per generazione spontanea, questo mondo cavalleresco, sorriso dalle Grazie, di una freschezza eterna, tolto alle ombre e a’ vapori e a’ misteri del medio evo, e illuminato sotto il cielo italiano di una luce allegra e soave. Niente è uscito dalla fantasia moderna che sia comparabile a questo limpido mondo omerico. Il Risorgimento realizzava il suo sogno, la nuova letteratura avea trovato il suo mondo.

E che cosa volea questa nuova letteratura? Non volea già questo o quel contenuto. Era scettica e cinica, e credeva solo all’arte. E l’Ariosto le dava questo mondo dell’arte in un contenuto di pura immaginazione.

Ma non ci accostiamo molto a questa bella esteriorità. Se ci mettiamo sopra la mano, la ci fugge come ombra, e se guardiamo al di sotto, pare non ci sia nulla. Quando leggi Omero, senti uscirne, non sai come, le mille voci della natura, che trovano un’eco nelle tue fibre, e sembrano le tue voci, le voci della tua anima. Gli è che ivi la forma è esso medesimo il contenuto, e il contenuto sei tu, è vita della tua vita, è sangue del tuo sangue. Qui il contenuto è un giuoco della immaginazione, e non ti ci profondi e non ti ci appassioni, appunto perchè hai il sentimento che è un giuoco. Talora sta per spuntarti la lacrima, quando ti svegli di un tratto e scoppi in una risata.

Pare, ma non è vero, che al di sotto di questa bella esteriorità non ci è nulla. Al di sotto ci è Momo, ci è lo spirito di Giovanni Boccaccio.

L’elemento dell’arte negativo e dissolvente avea già percorso tutto il suo ciclo a Firenze, giunto sino alla pura buffoneria. Il Boccaccio, il Sacchetti, il Magnifico, il Pulci, il Berni hanno il proposito espresso della caricatura, hanno innanzi un mondo reale, di cui mettono in rilievo il lato comico. L’Ariosto non ha intenzione di mettere in gioco la cavalleria, come fece il Cervantes, e nel suo mondo s’incontrano episodi comici, e anche licenziosi, e anche grotteschi, come la Gabrina, con la stessa indifferenza che s’incontrano episodi tragici ed elegiaci. Ma, se il suo riso non è intenzionale, non è neppure un semplice mezzo di stile per divertire i lettori buffoneggiando, come fece poi il Berni nel suo Orlando. Il suo riso è più serio e più profondo.

È il riso dello spirito moderno, diffuso sul soprannaturale di ogni qualità; è, se non ancora la scienza, il buon senso, generato da un sentimento già sviluppato del reale e del possibile, è il riso precursore della scienza.

Ludovico è innanzi tutto un artista. A questo mondo cavalleresco egli non ci crede; pur se ne innamora, ci si appassiona, ci vive entro, ne fa il suo mondo, più serio a lui che tutto il mondo che lo circonda. Ma è un amore, un interesse semplicemente di artista. La sua immaginazione se lo assimila, ne acquista una piena intelligenza, fa e disfà, compone e ricompone, con assoluta padronanza, come materia di cui conosce tutti gli elementi, e che atteggia e configura a suo genio. La materia, in Dante così resistente e scabra, qui perde i suoi angoli e le sue punte, e come cera, riceve tutte le impressioni. L’immaginazione le si accosta sgombra di ogni preconcetto e di ogni intenzione, e vi si cala e vi si obblia, e pare non sia altro che la stessa materia. Il creatore è scomparso nella creatura. L’obbiettività è perfetta. Ma guarda bene, e vedrai sulla faccia di quella creatura la fisonomia poco riverente di colui che l’ha creata, e che in certi momenti pare si burli della tua emozione e ti squadri la mano. Non sai se è di te che si burli o della sua creatura, e a ogni modo ci mette una grazia, che gli daresti un bacio. La burla ti coglie improvviso, nella maggiore serietà della rappresentazione. Una barzelletta, un motto ti disfà in un istante le creazioni più interessanti, e ti avviene così spesso, che non ti abbandoni più e prendi guardia, e ti avvezzi a poco a poco a quell’ambiente equivoco nel quale si aggira quel mondo. Quando l’autore sembra interamente scomparso nella sua creazione, tu non te la lasci fare, e sai che un bel momento metterà fuori il capo e ti farà una smorfia. Di sotto a quella obbiettività omerica si sviluppa di un tratto sotto forma d’ironia l’elemento subbiettivo e negativo.

Cosa è dunque questo mondo? È la sintesi del Risorgimento nelle sue varie tendenze. È il medio evo, il mondo chiamato “barbaro”, il passato, rifatto dall’immaginazione e disfatto dallo spirito. Ci è lì dentro quel sentimento dell’arte, quel culto della forma e della bellezza, quella obbiettività di una immaginazione giovane, ricca, analitica, pittoresca, che caratterizza la nuova letteratura, che genera i miracoli della pittura e dell’architettura, e che lì giunge alla sua perfezione, congiunta con lo splendore e con l’armonia la massima semplicità e naturalezza di disegno. E c’è insieme quell’intimo senso dell’uomo e della natura, o del reale, che ti atteggia il labbro ad un ghigno involontario, quando ti vedi sfilare innanzi un mondo fuori della natura e fuori dell’uomo, generato dalla tua immaginazione. Tu ammassi le nuvole; tu le configuri; tu formi i magnifici spettacoli; e tu te la ridi, perchè sai che quel mondo sei tu che lo componi, e non ci vedi altra serietà se non quella che gli dà la tua immaginazione. Tu sei a un tempo fanciullo e uomo. Come fanciullo, senti bisogno di esercitare la tua immaginazione, e formi soldati e castelli e ci fantastichi intorno; ma ecco sopraggiungere l’uomo, che ti fa un ghigno, e quel ghigno vuol dire: – Sono soldati e castelli di carta. – La cultura è nel suo fiore, l’immaginazione è nel maggior vigore della sua espansione, ed opera i più grandi miracoli dell’arte; ma lo spirito è già adulto, materialista e realista, incredulo, ironico, e si trastulla a spese della sua immaginazione. Questo momento dello spirito moderno, che ricompone il passato non come realtà, ma come arte, e, appunto perchè semplice gioco d’immaginazione o arte pura, lo perseguita della sua ironia, è la vita interiore del mondo ariostesco, è il suo organismo estetico. Prendi un quadro di Raffaello ed un sonetto del Berni, ed avrai accentuati gli estremi, tra’ quali erra questa unità superiore, dove sono fusi e contemperati ciò che è troppo ideale nell’uno e ciò che è troppo grossolano nell’altro. La quale fusione è fatta con gradazioni così intelligenti e con passaggi così naturali, e il lettore fin dal principio vi è così ben preparato, che non hai dissonanze o stonature, e niente ti urta, perchè il poeta opera senza coscienza o intenzione, e concepisce a quel modo naturalmente, ed è lui medesimo l’unità che comunica al suo mondo.

Vedi come concepisce. Il protagonista non è il savio Orlando, ma Orlando matto e furioso. Questo tipo della cavalleria così trasformato è già una concezione ironica. Ma guarda ora come vien fuori questa concezione. Il momento della pazzia è rappresentato con tale realtà di colorito, che la tua illusione è perfetta. Ci si vede una profonda conoscenza della natura umana nelle sue più fine gradazioni. È un “crescendo” di particolari e di colori, che ti rendono naturalissimo un fatto così straordinario. Venuto in furore e matto, il poeta te lo abbandona alle risate del pubblico. Ad una scena tenera succede la più schietta allegrezza comica, la caricatura spinta sino alla buffoneria. Anche il modo come Orlando riacquista il senno ha un profondo senso comico. Secondo le tradizioni del medio evo, l’uomo non può trovare la pace che nell’altro mondo. È la base della Divina Commedia. Il poeta materializza questo concetto e lo rende comico, cavandone la bizzarra concezione che ciò che si perde in terra, si ritrova nell’altro mondo. Di qui il viaggio di Astolfo sull’ippogrifo nell’altro mondo, che è una vera parodia del viaggio dantesco. Il fumo e il puzzo gl’impedisce di entrare nell’inferno; ma all’ingresso trova le prime peccatrici, punite, come Lidia, per la soverchia crudeltà verso gli amanti. È il concetto della Francesca da Rimini preso a rovescio, e divenuto comico. Poi sale al paradiso terrestre, e in un bel palagio di gemme trova san Giovanni evangelista, Enoch ed Elia, che gli danno alloggio in una stanza e provvedono di buona biada il suo cavallo, e a lui danno frutti di tal sapore,

che a suo giudicio sanza

scusa non sono i due primi parenti

se per quei fur sì poco ubbidienti.

Astolfo vi trova buon cibo, buon riposo e “tutt’i comodi”. È il paradiso terrestre materializzato. Di là, “uscito del letto”, con san Giovanni ascende sulla Luna. Qui la parodia prende forma satirica, senza fiele e in aria scherzosa. In un vallone è ammassato ciò che in terra si perde:

Le lacrime e i sospiri degli amanti,

l’inutil tempo che si perde a giuoco,

e l’ozio lungo d’uomini ignoranti;

vani disegni che non han mai loco,

i vani desidèri sono tanti,

che la più parte ingombran di quel loco:

ciò che in somma qua giù perdesti mai,

là su salendo ritrovar potrai.

Per comprendere questa ironia, bisogna ricordare che la Luna era come un castello di Spagna o un castello in aria nelle idee popolari, e anche oggidì uno che vive nelle astrattezze si dice che “sta nel regno della luna”. Là si trova in varie ampolle un liquore sottile e molle, che è il senno che si perde in terra.

Di sofisti e di astrologhi raccolto

e di poeti ancor ve n’era molto.

Chiama sofisti i filosofi e li mette a un mazzo con gli astrologhi e i poeti. Dove il medio evo vedea il maggior senno, egli vede vacuità e astrazione. La fine è di una schietta allegria:

e vi son tutte l’occorrenze nostre;

sol la pazzia non v’è poca, nè assai,

chè sta qua giù, nè se ne parte mai.

L’ironia colpisce anche Angelica, la figliuola del maggior re del Levante, l’amata di Orlando, di Rinaldo, di Sacripante, di Ferraù, che finisce moglie di un “povero fante”. La scena comincia nel Boiardo con le più eroiche apparenze della cavalleria, giostre, tornei, duelli, con Carlomagno circondato de’ suoi paladini, tra il fiore de’ cavalieri di Francia, di Spagna, di Lamagna, d’Inghilterra, tra cui pompeggia la figura di Angelica, la reina del racconto; e va a finire in un idillio, negli amori di Angelica e Medoro. Ciò che nel Boiardo ha proporzioni epiche e cavalleresche, soprattutto nelle battaglie di Albracca, passando nel cervello di Ludovico, si trasforma in una concezione ironica.

Anche nella guerra tra Carlo e Agramante, unità esteriore e meccanica del poema, la cavalleria è guardata da un aspetto comico. Il lato eroico della cavalleria è l’individualità, quella forza d’iniziativa che fa di ogni cavaliere l’uomo libero, che trova il suo limite in se stesso, cioè a dire nelle leggi dell’amore e dell’onore, a cui ubbidisce volontariamente. Togli il limite, e l’iniziativa individuale diviene confusione e anarchia, l’eroico divien comico. Il cavaliere non ubbidisce più che a’ suoi istinti e passioni; si sviluppa in lui la parte bestiale, nascono collisioni e attriti del più alto effetto comico. Il concetto è già adombrato con brio nel ritratto della Discordia, capitata da san Michele in un convento di frati, “tra santi ufficii e messe”:

avea dietro e dinanzi e d’ambi i lati

notai, procuratori ed avvocati.

Questa scena, dove sono attori san Michele, il Silenzio, la Frode, la Discordia, è ammiratissima per originalità di concezione e fusione di colori:

Dovunque drizza Michelangel le ale,

fuggon le nubi e torna il ciel sereno,

gli gira intorno un aureo cerchio, quale

veggiam di notte lampeggiar baleno.

Versi stupendamente epici, che vanno digradando fin nel satirico con naturali mutamenti di tono. Ed è un satirico ancora più efficace, perchè non ci è apparenza d’intenzione satirica, anzi ci si rivela una bonomia, un’aria senza malizia, dov’è la finezza dell’ironia ariostesca. La Discordia fa il suo mestiere, e ne viene la famosa scena nel campo di Agramante rimasta proverbiale dov’è il vero scioglimento dell’azione, il motivo interno della dissoluzione e della sconfitta dell’esercito pagano. I movimenti comici in questa scena sono più nelle cose che nelle frasi, fondati su quel subitaneo e impreveduto delle impressioni e degl’istinti che toglie luogo alla riflessione e spinge i cavalieri gli uni contro gli altri. Rodomonte è il più spiccato carattere di questo genere, ed è rimasto proverbiale, mistura di forza e di coraggio e di bestialità. Le sue imprecazioni contro le donne, la sua credulità e sciocchezza nel fatto d’Isabella, la sua comica lotta col pazzo Orlando, la sua scurrilità e grossolanità verso Bradamante sono tratti felicissimi, che mettono in evidenza il cavaliere errante nel suo aspetto comico, materia gigantesca vuota di senno, grossolana e bestiale. Il contrapposto è Ruggiero, “di virtù fonte”, nel quale il poeta ha voluto rappresentare la parte seria ed eroica del cavaliere, leale, gentile, magnanimo. Nella sua concezione ci entra un po’ l’Achille omerico, un po’ Damone e Pizia, Quinzio e Flaminio, collisioni tra l’onore e l’amore, tra l’amore e l’amicizia, da cui escono molti effetti drammatici. Ma chi ha studiato un po’ Ludovico, come si dipinge egli medesimo, vede che l’uomo è al di sotto del poeta nè in lui ci è la stoffa, da cui escono le grandi figure eroiche, ne ci è nel suo tempo. Manca al suo eroe prediletto semplicità e naturalezza: l’eroico va digradando nel fantastico e nell’idillico. Perciò il suo Ruggiero non ha potuto togliere il posto a Orlando e Rinaldo, gli eroi dell’antica cavalleria, e malgrado le sue simpatie pel fondatore di casa d’Este, l’interesse è assai più per Orlando e Rodomonte, creazioni geniali e originali.

L’ironia è non solo nella concezione fondamentale del poema, ma negli accessorii cavallereschi. L’amore di Orlando verso Angelica è stato perfettamente cavalleresco, sì che, avendola per molto tempo in sua mano, non le ha tolto l’onore, “almeno” secondo che Angelica ne assicura Sacripante, il quale dal canto suo non vuole essere “così sciocco”. Doralice piange la morte di Mandricardo; ma, se non fosse vergogna, andrebbe “forse” a stringer la mano a Ruggiero:

Io dico “forse”, non ch’io ve l’accerti,

ma potrebbe esser stato di leggiero…

Per lei buono era vivo Mandricardo;

ma che ne volea far dopo la morte?

Un riso scettico aleggia sulle virtù cavalleresche e sui grandi colpi de’ cavalieri, quei gran colpi “ch’essi soli sanno fare”. Una frase, un motto scopre l’ironia sotto le più serie apparenze. È un riso talora a fior di labbra, appena percettibile nella serietà della fisonomia.

Questo risolino che quasi involontariamente erra tra le labbra e non si propaga sulla faccia, e non degenera che assai di rado in aperta e sonora risata, questa magnifica esposizione artistica che ti dà tutta l’apparenza e l’illusione della realtà nelle cose più strane e assurde, tutto questo, fuso insieme senz’aria d’intenzione e di malizia e con perfetta bonarietà, ti mostra la concezione come un corpo in movimento e cangiante, che non puoi fissare e definire, più simile a fantasma che a corpo. Non sai se è cosa seria o da burla; pur ti piace, perchè, mentre la tua immaginazione è soddisfatta, il tuo buon senso non è offeso, e contempli le vaghe fantasie egregiamente dipinte di secoli infantili col risolino intelligente di un secolo adulto.

Questo mondo, dove non è alcuna serietà di vita interiore, non religione, non patria, non famiglia, e non sentimento della natura, e non onore e non amore, questo mondo della pura arte, scherzo di una immaginazione che ride della sua opera e si trastulla a proprie spese, è in fondo una concezione umoristica profondata e seppellita sotto la serietà di un’alta ispirazione artistica. Il poeta considera il mondo non come un esercizio serio della vita nello scopo e ne’ mezzi, ma come una docile materia abbandonata alle combinazioni e a’ trastulli della sua immaginazione. Ci è in lui la coscienza che il suo lavoro è così serio artisticamente, come è serio il lavoro di Omero, di Virgilio o di Dante, e ci è insieme la coscienza che è un lavoro semplicemente artistico, e perciò dal punto di vista del reale uno scherzo, o come dicea il cardinale Ippolito, una “corbelleria”. E sarebbe stato una corbelleria, se l’autore avesse voluto dargli più serietà che non portava, e fondarvi sopra una vera epopea. Ma la corbelleria diviene una concezione profonda di verità, perchè il poeta è il primo a riderne dietro la tela, ed ha l’aria di beffarsi lui de’ suoi uditori. Questo stare al di sopra del mondo, e tenerne in mano le fila, e fare e disfare a talento, considerandolo non altrimenti che un arsenale d’immaginazione, è ciò che dicesi “capriccio” e “umore”. Se non che il poeta è zimbello spesso della sua immaginazione, e si obblia in quel suo mondo, e gli dà l’ultima finitezza. Di che nasce che l’umore piglia la forma contenuta dell’ironia, e tu ondeggi in una atmosfera equivoca e mobile, dove vizio e virtù, vero e falso confondono i loro confini, e dove tutto è superficie, passioni, caratteri, mezzi e fini, superficie maravigliosa per chiarezza, semplicità e naturalezza di esposizione, che all’ultimo dispare come un fantasma, cacciato via da una frase ironica, dispare, ma dopo di avere destata la tua ammirazione e suscitate in te molte emozioni. In questo mondo fanciullesco dell’immaginazione, dove si rivela un così alto sentimento dell’arte e insieme la coscienza di un mondo adulto e illuminato, si dissolve il medio evo e si genera il mondo moderno. E perchè questo è fatto senza espressa intenzione, anzi con la bonomia e naturalezza di chi sente e concepisce a quella guisa, i due mondi non sono tra loro in antitesi, come nel Cervantes, ma convivono, entrano l’uno nell’altro, sono la rappresentazione artistica dell’un mondo con sópravi l’impronta dell’altro. In questa fusione più sentita che pensata, e che fa dell’autore e della sua creazione un solo mondo armonico perfettamente compenetrato, sta la verità e la perpetua giovinezza del mondo ariostesco, per la sua eccellenza come opera di pura arte il lavoro più finito dell’immaginazione italiana, e per il profondo significato della sua ironia una colonna luminosa nella storia dello spirito umano.

 

 

 

 

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