ALCHIMIA E PROTOCHIMICA: IL “CAPUT MORTUM

ALCHIMIA E PROTOCHIMICA: IL “CAPUT MORTUUM”
(Paolo Galiano)

L’Alchimia è arte complessa e di difficile comprensione per chi vi si accosta da un angolo di interpretazione errato: l’errore più diffuso è quello di ritenere tutte le forme di Alchimia solo una sorta di ingenua e primitiva lavorazione dei metalli e dei vegetali, una prechimica o protochimica dalla quale nascerà dopo molteplici tentativi l’attuale scienza della Chimica. Ad opporsi a tale identificazione, che mette sullo stesso piano l’Alchimia spagirica con l’Alchimia anagogica o spirituale, è il particolare utilizzo che viene descritto in certi trattati degli scarti dei metalli che ogni buon fonditore o chimico butterebbe via senza esitazione: il caput mortuum.

Fig. 1: Johannes de Sacrobosco, Sphaerae coelestis et planetarum descriptio, ms alfa.x.2.14 della Biblioteca Estense di Modena [[licenza per uso non commerciale: https://www.bibliotecaestense.beniculturali.it/info/img/mss/i-mo-beu-alfa.x.2.14.html), immagine modificata]

La discussione tra chi considera l’attuale Chimica la vera essenza dell’Alchimia e chi invece ritiene l’Alchimia un’arte anagogica da cui solo secondariamente derivano applicazione scientifiche è di antica data. Per i primi le preparazioni alchemiche sono tentativi di ottenere preparati chimici sempre più puri da sostanze minerali, vegetali e animali con tecniche che nel corso dei secoli si sono andate affinando fino a ottenere quei risultati che costituiscono la base della moderna Chimica. In definitiva l’Alchimia non sarebbe altro che una prechimica o protochimica che man mano si purifica da orpelli religiosi e superstiziosi fino a compiere il definitivo passaggio a scienza esatta. Con questo non si vuol dire che tutti i trattati di Alchimia nascondano un significato spirituale e vadano letti in tal modo, ma non è possibile generalizzare e applicare il concetto di «alchimia eguale protochimica» a tutta l’Alchimia, generalizzazione superficiale causata dall’imperfetta preparazione di certi storici, anche perché in virtù di una tale concezione si giunge a distorsioni nell’interpretazione degli scritti alchemici: uno degli esempi più evidenti è nella trasformazione del termine sal armoniacum in sal ammoniacum o sale di ammonio operata da tanti studiosi contemporanei dei processi metallurgici.

Il sal armoniacum è così chiamato nei trattati alchemici almeno fino al XX secolo, esso è così chiamato sia in Alchimia anagogica sia in Alchimia spagirica per la sua capacità di mettere «armonia» tra le sostanze alle quali viene aggiunto consentendone l’unione e la transmutazione, come spiega alla fine del XVII secolo Le Doux[1]: «Il sale armoniaco dei Filosofi è il loro mercurio perché è ciò che dà armonia agli elementi e lo spirito che produce tutte le cose».

In epoca più recente, all’inizio del ‘900, Fulcanelli[2] spiega il nome «sale armoniaco» con parole simili a quelle scritte da Le Doux: «Il sale ammoniaco dei saggi, o sale d’Ammone (αμμωνιακος) cioè dell’Ariete, un tempo veniva scritto, con maggior veridicità, harmoniac, perché realizza l’armonia (ἁρμονία, riunione), l’accordo tra l’acqua ed il fuoco, e perché è il mediatore per eccellenza tra il cielo e la terra, lo spirito e il corpo, il volatile e il fisso».

Quanto detto mette in luce uno degli abusi interpretativi commessi da taluni studiosi nelle loro trattazioni sull’Alchimia, ma ciò che è ancora più grave è la limitatezza delle loro conoscenze delle opere alchemiche, delle quali probabilmente conoscono solo quelle utili alla conferma delle loro tesi, mentre non hanno posto alcuna attenzione a testi fondamentali nella formazione del pensiero alchemico occidentale, quali il Pretiosum donum Dei, lo Speculum alchimiae, il De leone viridi e altri trattati attribuiti ad Avicenna (il De alchimia) e a Frate Elia (il Vademecum).

Se li avessero letti avrebbero rilevato certe curiose (per loro) considerazioni riferentisi al significato del cosiddetto caput mortuum, faeces o «cenere», i residui che restano sul fondo dei vasi dopo le operazioni di distillazione.

Il metallurgo che con pazienza e fatica ha sminuzzato il materiale originario da cui estrarre il minerale che gli interessa, lo ha distillato negli alambicchi più e più volte e poi lo ha messo nel forno per calcinarlo per ottenere l’oro, o quale sia la sostanza che cerca di ottenere, nella sua forma più pura possibile alla fine cosa fa? Mescola il prodotto purificato con le scorie che sono avanzate rovinando in tal modo tutto il lavoro fatto per settimane o per mesi! Un comportamento che non è compatibile con l’idea di un’Alchimia protochimica. Eppure nessuno tra gli studiosi rileva un tale intervento, che chiaramente è contrario a ogni lavorazione di carattere scientifico.

Quest’ultimo passaggio necessario a completare l’Opera è descritto in modo chiaro e inequivocabile nei trattati fin dal tempo degli alchimisti greci, se la citazione attribuita da Frate Elia nel Vademecum[3] ad Archelao è estratta in modo corretto da uno dei suoi lavori:

E così afferma il detto dei filosofi che dice che l’argento vivo è il servo fuggitivo e poi rubicondo, e in questa forma il servo rubicondo sposò una moglie nera, e posti nella fossa e portati agli inferi generarono un figlio biondo. Appare chiaro che il servo rubicondo è la Pietra sopradetta, la moglie nera è il piombo, la fossa è il vaso, l’inferno è il fuoco, il figlio biondo è il sole generato dagli elementi predetti[4].

Anche l’alchimista Ibn ‘Umayl[5], vissuto in Spagna o in Egitto nel X secolo, nella Tabula chymica sottolinea la necessità della «cenere» per portare a compimento l’operazione alchemica: «Ha detto Hermes: ‘L’acqua è il fermento per realizzare l’oro e i corpi sono la loro terra e il fermento dell’acqua divina è la cenere, che è il fermento dei fermenti’»[6].

Nell’Alchimia di lingua latina già vi si accenna nell’opera a nome di Morieno Romano, il Dialogo di Morieno con il re Khalid, della fine del XII secolo (che sia un’opera araba tradotta il latino o viceversa un’opera latina tradotta in arabo), là dove l’autore del trattato scrive che «l’endica è il segreto di tutti questi (sapienti), ed è chiamata mozath thimia, cioè feci e quindi immondizia»[7].

Il ruolo delle faeces è descritto nel Tractatulus dello pseudo Avicenna con le parole «non disprezzare la cenere», frase ripetuta da altri autori:

Non devi disprezzare la cenere, perché Dio le restituisce la liquefacibilità e alla fine il Re sarà incoronato per volontà divina con la corona rossa … Infatti il composto non si ha senza matrimonio e putrefazione, e il matrimonio è unire il sottile allo spesso, e putrefare, tritare, assare e irrigare finché non siano insieme mescolati e fin quando divengano una sola cosa[8].

Nel Pretiosissimum donum Dei l’importanza delle faeces è ugualmente sottolineata con le parole dell’anonimo Filosofo nel commento alla Figura 10: «Calcinare non è altro che togliere l’umidità e trasformare in cenere. Si bruci dunque senza timore finché sia fatta la cenere. Perché quando sia stata ottenuta la cenere avrai unito in modo ottimale (le sostanze). Quindi non disprezzare questa cenere ma restituiscile l’umidità [lett. il sudore[9]] che ne è uscita … Ciò che uscì da esso [l’acqua della distillazione] riconduci sopra di esso [il corpo ridotto in cenere], finché sia fissato e non se ne separi per mezzo del fuoco, cioè quella nigredo che (è stata) separata dal corpo sia ricondotta sopra il suo proprio corpo da cui è uscita e diventi un solo corpo» [10].

Questa cenere è ciò che rimane dalla calcinazione della materia prima nell’Opera al Nero, come scrive lo Speculum alchimiae attribuito a Fate Elia:

Il calore, agendo sulla (materia) umida, genera in primo luogo la nigredo, e l’albedo si opera nella citrinitas, e invero aspettati questo nella decozione del piombo, poiché in primo luogo il nero si trasforma in cenere, poi in bianco, quindi in citrino, da ultimo in minio rosso[11].

L’autore che nel XIII secolo ha più a fondo esaminato il riutilizzo del residuo delle operazioni alchemiche è stato Raymundus Gaufredi, tredicesimo Ministro generale dei Frati minori, nel trattato De leone viridi[12] a lui attribuito. L’autore raccomanda più volte di conservare i residui (faeces) delle operazioni che via via si stanno compiendo (ad esempio si veda c. 214v: semper faeces quas faciet reserva cum aliis faecibus), perché le «feci» sono «fuoco», quindi non materiale da scartare e gettar via ma da conservare con cura per sottoporle, come si legge nella seconda parte del trattato, a un’accurata distillazione per estrarre da esse un «olio» che è anch’esso «fuoco», in quanto contengono il sulphur occultum contenuto nella materia prima, il piombo o Saturno che è l’unico metallo da cui si può estrarre l’oro o Sole, come si legge nel Vademecum attribuito a Frate Elia: «I predetti filosofi testimoniano che l’oro perfetto non può esser fatto se non con il piombo … è il vero segreto dell’oro e chiamano quest’oro oro dei filosofi»[13].

Il segreto della preparazione dell’oro-Sole è quindi nella sua riunione finale con gli scarti, i residui della lavorazione del piombo-Saturno: in essi si trova un materiale che unisce la terra e il fuoco, i due elementi di segno opposto rappresentati dagli apici della stella a sei punte formata dall’incrocio di due triangoli, il cosiddetto sigillo di Salomone.

Scrive Raimondo: «Occorre notare che i residui che sono rimasti in luogo del fuoco è il fuoco, come sopra si è detto, racchiudente in sé due elementi, cioè la terra che nasconde e il fuoco, questi sono due elementi fissi che non fuggono il fuoco» (c. 215v).

Da notare che faeces est ignis, «i residui è il fuoco», non è un errore di stampa. Si tratta di una particolare regola grammaticale del latino che l’autore del trattato segue (il che evidenzia come si trattasse di persona colta ed esperta della lingua in cui scriveva), costituente un esempio di plurale singolativo[14].

Le faeces, dopo la separazione dell’aqua clara che è il «mercurio dei filosofi» (c. 214v), vanno essiccate, tritate e distillate con l’aceto (cioè un solvente forte) fino a espellere ogni impurità e divenire una sostanza di colore rosso o citrino, da cui si estrae un olio rosso che è il sulphur occultum (c. 215r), il principio maschile contenuto nei residui dopo che da essi è stato separato il mercurio, principio femminile.

Le faeces sono la materia riportata al suo stato elementare, ciò che rimane del corporeo dopo l’estrazione dell’anima mercuriale che lo vivifica, e che deve essere disgregato (“l’inimico … che tutto si disfaccia” si legge nel sonetto Solvete i corpi in acqua) per liberare le forze di pura potenza di cui è sostanziato, raffigurate dai “vermi” della Figura VI del Pretiosum donum Dei, forze che non devono essere disperse ma vanno reintegrate nell’unità finale dell’Opera. Questo perché in Alchimia minerale il piombo o Saturno è l’unico metallo da cui si può estrarre l’oro o Sole, come si legge nel Vademecum: «Se preparato in altro modo [cioè non dal saturno-piombo] è malato»[15].

Con le sue parole Raymundus indica il segreto dell’Opera alchemica: le operazioni sui metalli sono metafora della via che l’alchimista deve seguire se vuole giungere alla perfezione completa delle tre componenti dell’essere umano, corpo fisico, animico e spirituale, e nulla va eliminato se non le impurità che costituiscono un impedimento in quanto legate alla sua individualità. Si riporta in questo modo una parte di ciò che è stato creato dalla Natura alla sua forma principiale originaria operando quella che si potrebbe definire una «redenzione» della materia, senza dare alla parola un significato religioso ma solo quello etimologico di «riscatto, recupero», in quanto scopo dell’alchimista è quello di portare a compimento il lavoro che Dio stesso ha lasciato incompleto:

Il Creatore creò i quattro Elementi in germe [lett.: nello sperma], dette ad essi un periodo stabilito nel quale si perfezionassero e dopo il quale fossero compiuti per mezzo della Sua sapienza e forza, e quest’opera non è altro che il segreto dei segreti di Dio, che Egli stesso offrì ai filosofi.[16]

Nell’Alchimia metallurgica il paziente lavoro sui metalli che sono imperfetti, «malati», li transmuta in oro, unico metallo perfetto e senza alcuna «malattia», da cui l’uso della parola «medicina» per indicare sia il risultato dell’operazione finale, sia il medicamento spagirico che può curare le infermità umane. L’azione concreta di perfezionamento, o meglio di compimento, della creazione della Natura (per questo l’Alchimia fu anche definita philosophia manualis) è possibile per le corrispondenze tra il microcosmo che è l’uomo e il macrocosmo nella sua interezza, come Mirca Eliade nel trattare dell’Alchimia indiana:

L’alchimia indiana non è una prechimica ma una tecnica solidale con gli altri metodi della ‘fisiologia sottile’ elaborati dall’Hatha-yoga e dal tantrismo … Nessun dubbio sulla realtà delle operazioni alchemiche non si tratta di speculazioni ma di esperienze concrete effettuate nei laboratori sulle diverse sostanze minerali e vegetali … Piante, pietre e metalli, proprio come il corpo dell’uomo, la sua fisiologia e la sua vita psico-mentale, costituivano i diversi momenti di uno stesso processo cosmico[17].

Lungi dall’essere solamente una tecnica per l’elaborazione di nuove sostanze chimiche, l’Alchimia nel suo aspetto anagogico si rivela al lettore attento come un mezzo sottile per raggiungere uno stato di perfezione non solo dell’anima e dello spirito ma anche del corpo stesso.

NOTE
[1] Gaston Le Doux de Claves, Dictionnaire hermetique, contenant l’explication des termes, fables, enigmes, emblemes et manieres de parler des vrais philosophes. Accompagné de deux traitez singuliers … par un amateur de la Science, a Paris, chez Antoine D’Houry, rue Saint Jacques, devant la fontaine Saint Severin, au Saint Esprit, MDCXCV, s. v. Il testo, che nell’edizione del 1695 non ha il nome dell’autore, è anche citato come Gaston Le Doux de Claves e William Salmon.
[2] Fulcanelli, Le dimore filosofali, Roma 1973, vol. I, p, 205. Nella prefazione alla prima edizione dell’Ottobre 1925, scritta dal discepolo Eugene Canseliet, Fulcanelli è detto «già da molto tempo non più tra noi».
[3] Il Vademecum è un trattato di Alchimia spagirico-sapienziale di cui sono conosciuti venti manoscritti, sedici dei quali riportano nell’introduzione come autore il nome di Frate Elia, secondo Ministro generale dell’Ordine dei Frati minori.
[4] Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms Pal. Lat. 1267 c. 17v; per la traduzione e il commento del manoscritto si veda Paolo Galiano (a cura di), Frate Elia: il Vademecum, Roma 2019. Il nome di Archelao, alchimista bizantino vissuto tra il Vi e il VII secolo, viene esplicitamente riportato in altri codici del Vademecum, quale il ms Vat. Lat. 4092 della stessa Biblioteca, c. CLXXXIIIIr.
[5] Muhammed Ibn ‘Umayl al-Tamîmî, alchimista di lingua araba noto nel mondo latino con il nome di Senior Zadith (latinizzazione del suo titolo Sheik al-Sadik) o di Zadith filius Hamuel, la cui opera, Kitāb al-Mā’ al-Waraqī wa’lr dar an-najmiah (Libro dell’acqua d’argento e della terra stellata), venne tradotta in latino nei codici e poi stampata in numerosi testi, tra cui ricordiamo in particolare Philosophiae chymicae IV vetustissima scripta, Francoforte, 1605 (consultato 06/11/2017 in: Stiftung der Werke von C.G.Jung, Zürich, https://dx.doi.org/10.3931/e-rara-7153). A volte sia nei mss sia nei testi a stampa si trova solo una parte di quest’opera con il titolo Epistola solis ad lunam crescentem.
[6] Vetustissima scripta p. 31.
[7] Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, ms Guelf. 23.19 Aug. 4°, c. 18r (traduzione integrale e commento in Morieno Romano, Dialogo tra Morieno e re Khālid, a cura di Paolo Galiano, Roma 2021). Il monaco bizantino Morieno, a cui è attribuito il trattato, sarebbe vissuto nell’VIII secolo e, dopo aver studiato l’Alchimia con Stefano, uno dei primi alchimisti greco-bizantini, ad Alessandria d’Egitto, avrebbe scelto di ritirarsi sui monti vicino Gerusalemme, secondo quanto scritto nel Dialogo. Nel coevo ms Latin 7158 della Bibliothèque Nationale di Parigi c. 201va è specificato che endika id est faeces ignis, nome che sarà ripreso nel De leone viridi di Raymundus Gaufredi. Morieno spiega che l’endica «è l’aria … essa conviene in modo adatto a tutti i corpi, perché li vivifica e li predispone a non essere confusi dalla combustione ma trasferisce qualcosa di loro ad altri corpi e impedisce il calore del fuoco» (c. 16v), cioè possiede la funzione intermediatrice propria del sal armoniacum.
[8] Pseudo Avicenna, Tractatulus … in octo capitula (inc.: In primo capitulum dicam de Mercurio), cap. V De Fundatione seu etiam Fusione Aquae super terram suam, in Jean Jacques Manget, Bibliotheca chemica curiosa, seu rerum ad alchemiam pertinentium thesaurus instructissimus, Coloniae Allobrogum (Ginevra) 1702 (Stiftung der Werke von C.G. Jung, Zürich, https://dx.doi.org/10.3931/e-rara-7378), p. 630a.
[9] L’utilizzo del termine sudor per indicare l’umidità estratta dal corpo durante il trattamento si trova in molti testi alchemici come, per esempio, nella canzone Est fons in limis (Nam bene mundatum / proprio sudore lavatum), un breve trattato in versi di autore anonimo che si legge in un grande numero di codici e di incunaboli (testo e commento in Paolo Galiano (a cura di), Lo Speculum alchimiae di Frate Elia, Roma 2016, pp. 75-80).
[10] Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, ms Guelf. 77.2 Aug. 8° del XV secolo, c. 10r (traduzione integrale e commento in Paolo Galiano, Il Pretiosum donum Dei, pp. 101-102).
[11] Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms C.2.567 c. 7r, in Paolo Galiano (a cura di), La arte dell’Alchimia, Roma 2018, p. 197 (traduzione e commento del ms di Firenze del 1491). Lo Speculum è di sicuro anteriore al Donum Dei, il quale lo cita più volte e in modo così ampio che circa un quinto del trattato è costituito da frasi tratte da esso.
(12] Il trattato è attribuito a Raymundus Gaufredi, e se sua fosse l’opera sarebbe stata scritta prima del 1310, data della scomparsa dell’autore; il De leone viridi ci è pervenuto in manoscritti databili fin dal XIV secolo (London, British Library, ms Sloane 2327 e Oxford, Bodleian Library, ms 119). Rimandiamo per l’argomento delle faeces a Raimondo Gaufredi, Trattato del Leone verde, a cura di Paolo Galiano, Roma 2020 (traduzione e commento del ms Guelf. 433 Helmst. della Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel), in particolare sulla tradizione manoscritta e a stampa pp. 37-51.
[13] Vaticano, Biblioteca Apostolica, ms Pal. Lat. 1267, XIV sec., cc. 17rb-17va, traduzione e commento in Paolo Galiano (a cura di), Il Vademecum di Frate Elia, Roma 2019, pp. 50-51.
[14] Si veda Raimondo Gaufredi, Trattato del Leone verde, pp. 96-97.
[15] Bologna, Biblioteca Universitaria, ms 104, datato 1476-1484, c. 243r (Il Vademecum di Frate Elia, p. 70).
[16] Ms Guelf. 23.19 Aug. 4° di Wolfenbüttel, c. 15r (Morieno Romano, Dialogo tra Morieno e re Khālid, pp. 149-150).
[17] Mircea Eliade, Arti del metallo e dell’alchimia (trad. italiana Torino 1980 e 2018 di Forgerons et alchimistes, Parigi 1977), pp. 120 e 122-123.

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