PER UNA DOSSOLOGIA MASSONICAGIA

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DI Raffaele K. Salina
Illustrazione del mito della Caverna di Platone in un ‘incisione del 7604 di Jan Saenredanì. I prigionieri immobilizzati davanti al muto, incapacitati nel guardare indietro, fissano la parete e vedendo delle ombre, in realtà ombre di manichini proiettate dalla luce di una torcia, credono che esse siano vere figure umane

In questo articolo ci si propone di tracciare le coordinate per una possibile dossologia massonica. L’obiettivo fondo è quello di valorizzare in questo senso alcune formule rituali usate nei lavori di Loggia per metterne ulteriormente in evidenza la profondità simbolica. Qui ci limitiamo al rituale attualmente in uso presso il GO’ ben sapendo che altri rituali, come quello Emulation, utilizzano formule che possono essere ricomprese in questo ambito.
La dossologia cattolica
A questo scopo dobbiamo necessariamente partire dalla sua definizione in ambito cristiano-cattolico. Secondo l’Enciclopedia cattolica la dossologia è il corpus di alcune specifiche formule di lode a Dio usate nel contesto della liturgia, Il termine deriva dal greco ôoioÀovia, composto dalle parole 564a che significa «opinione» ma anche «lode» e Aovia «discorso» quindi, nel nostro caso, «formula di lode». ln specifico per dossologia si intende, sempre secondo l’Enciclopedia cattolica: «Una formula liturgica o scrittura usata per lodare, glorificare o rivelare Dio uno e trino o distintamente te tre Persone della Trinità. La formula presente nel passo evangelico del battesimo di Gesù in Matteo 28,1 9 [Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo N.d.A.] presenta un esempio del nominare le tre persone in ordine parallelo».
Doxa e Episteme
Partendo da questa etimologia possiamo già avanzare alcune analisi sulla natura della dossologia cattolica e cominciare a tracciare possibili analogie con alcune formula usate in Massoneria. Per farlo dobbiamo richiamare l’affermazione di Platone per il quale la conoscenza si muove tra due livelli principali: la déxa, nella sua accezione di «opinione», che pertiene dunque al campo del sensibile, e l’epistéme, il sapere fondato sui principi intelligibili, le essenze eterne della Realtà. A loro volta, queste due forme si suddividono in altre, sino a formare un complesso schema gnoseologico, nel quale si parte dalla percezione delle immagini riflesse, la d6xa appunto, per arrivare all’intuizione delle idee pure. Qui è già evidente il nesso che lega le due forme della conoscenza ed anche il possibile passaggio dall’una all’altra.
Per illustrare questi passaggi, e chiarire come la maggior parte dell’umanità percepisca solo le parvenze della realtà intellegibile – la mâyâ dei fenomeni direbbero gli induisti – Platone introduce il mito della caverna (La Repubblica 514 b 520 a), descrivendola come un luogo in cui i soggetti sono incatenati e possono così vedere unicamente le ombre riflesse sulla parete davanti a loro, percependo anche suoni o movimenti generati da qualcosa o qualcuno che muove o anima oggetti posti su un muretto alle loro spalle, illuminati da una luce proveniente dall’esterno. Quando infine qualcuno riuscirà a liberarsi dalla prigionia, arriverà a vedere prima gli oggetti reali che producono le ombre, e poi la luce originaria che tutto illumina ed anima.
La complessità del mito e le sue interpretazioni esulano da questo breve articolo, ma il riferimento è opportuno, perché la caverna platonica ha rappresentato, sin dalla nascita della fiIosofia Greca, l’apologo più coerente ed esemplificativo della relazione tra opinione e conoscenza, illusione e consapevolezza, vedere e visione (epopteia).
Ciò che a noi interessa è, allora, evidenziare il nesso che esiste tra un vedere all’inizio falsato da una percezione puramente sensibile, ed il suo progressivo spostamento verso la visione nella luce della Verità intelligibile. M. Cacciari sintetizza questa relazione in un passaggio del suo Metafisica concreta: «Anatogia si darebbe tra vista e mente, ed è quella ‘classica’: la vista sta alle cose visibili, come il noûs sta alle cose intelligibili. In questo caso la relazione si direbbe intrinseca, poiché posso realmente attribuire ai due termini un carattere comune: come la vista fa vedere le cose sensibili, così il noûs rende chiaro, illumina, permette di conoscere ciò che i sensi consentono solo di toccare. Come senza vista le cose visibili resterebbero ignote, o meri percepta, così, se il noûs non agisse, ci resterebbero oscure le verità intelligibili. L’organo della vista e l’intelletto• noûs si riferiscono entrambe, substantialiter, al vedere. [ . .
L’indicibilità del Principio rende impervia la ricerca di quelle forme in grado di connettere i fenomeni, ovvero quelle con• nessioni tra gli eide che ci mette in grado di cogliere i fenomeni stessi come un Tutto e non solo come u n mucchio di apparenze. Certo, con le apparenze, tutti noi abbiamo a che fare all’inizio della nostra esperienza. La luce, tuttavia, penetra sino in fondo al pozzo in cui siamo gettati dalla nascita, altrimenti mai avremmo potuto neppure iniziare il cammino».
Non a caso, affinché il soggetto possa cominciare ad uscire da questo stato di “minorità percettiva”, qualcosa deve aiutarlo. La passività dell’incatenamento va rotta con un passaggio ad un altro piano: un percorso iniziatico che sarà doloroso e rischioso. La rete dell tabitudine, Io sgomento nel comprendere il vecchio stato illusorio ma il non aver ancora piena contezza delle implicazioni esistenziali del nuovo, le responsabilità che nascono dal possedere una conoscenza più lucida, ebbene tutto questo configura una condizione difficile da affrontare e Forte è, allora, fa tentazione di tornare sui propri passi, al mondo riflesso ma rassicurante delle ombre, della comune déxa: per molti è meglio restare alla catena insieme agli altri che rischiare l’isolamento nella luce della verità. E dunque, come dicono tutte le tradizioni sapienziali, ogni transito da un livello ad un altro di consapevolezza richiede adeguamenti sostanziali, una vera e propria trasmutazione del proprio essere; questo, testimoniato in sommo grado da Socrate con la sua morte, è il prezzo da pagare per essere realmente liberi?
Immediata l’analogia con la morte iniziatica ed il mito di Hiram che caratterizza il passaggio al grado di Maestro. Ma qui ci preme evidenziare come sia in qualche modo necessario proprio partire dalla déxa per arrivare all’epistéme: nel nostro caso percorrere il cammino che, muovendo dal simbolo fonico delle formule rituali, indica la strada verso la luce della verità iniziatica. Ecco perché possiamo, in questa prospettiva, parlare di una dossologia massonica in quanto alcune formule utilizzate durante i rituali dei tre gradi, rappresentano proprio questo possibile percorso verso verità più profonde. Concludendo la parte teorica possiamo dire, dunque, che esiste un progressivo passaggio analogjco-anagogico, dal vedere alla visione, cioè dallo sguardo sui percepta sensibili alle verità intellegibili.
Questo significa che la dossologia cristiano-cattolica mira evidentemente, con le sue «formule di lode», prima a “fissare” l’attenzione del fedele sulle verità dogmatiche, che dal nostro punto di vista possiamo paragonare ai percepta platonici, per poi preparare, mercé l’accettazione di questi stessi dogmi, l’animo alla fede nella potenza trascendentale di Dio in vista della Salvezza. Nel caso della Libera Muratoria, invece, attraverso le sue formule dossologiche, si tende ad un risultato diverso: prima attivare l’attenzione dell’iniziato verso fa sua ricerca esoterica, per poi lasciarlo libero di percorrerne la valenza simbolica sino alla Liberazione. Utile, a questo punto, richiamare brevemente la differenza tra Salvezza e Liberazione, che rappresenta il vero piano di distinzione tra la via del credente religioso e quella dell’iniziato. La prima è per così dire

discendente e tende alla purificazione dell’anima concessa da parte della divinità in vista di un trapasso verso la vita eterna al Suo cospetto; la seconda è invece ascensionale ed ha come scopo Io scioglimento dell’essere dai vincoli delle passioni ter rene in vista di una riunificazione del sé individuale con quello Universale.3 ln sintesi possiamo dire che le formule dossologiche sono, sia nella liturgia ecclesiale sia in quella massonica, espressioni che si inseriscono appieno nella successione anagogica dei simboli nei rispettivi percorsi rituali.
Formule dossologiche cristiano-cattoliche.
E’ interessante, anche ai fini della nostra trasposizione massonica, capire come e perché nasce fa dossologia cristiano-cattolica. I primi esempi di dossologia risalgono al IV secolo con lo scopo di contrastare l’eresia ariana.
L’arianesimo è una dottrina trinitaria di tipo subordinazionista, elaborata dal monaco e teologo Ario (256-336), condannata come eretica. Tale dottrina sostiene che il Figlio sia un essere che partecipa della natura del Padre, ma in modo inferiore e derivato (subordinazionismo), negandone così quella consustanzialità che sarà poi dogmatizzata nel Concilio di Nicea (325) attraverso il Credo niceno-costantinopolitano: «Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio ]
Alla base della tesi di Ario, permeata di neoplatonismo, vi era invece la convinzione che Dio, principio unico, indivisibile, eterno e quindi ingenerato, non potesse condividere con altri la propria ousìa, cioè la propria essenza divina. Per questo le prime formule dossologiche sono rivolte solo a Dio Padre, o a Lui attraverso il Figlio e «nello» o «con lo» Spirito Santo. La cosiddetta dossologia finale o conclusiva è usata nella preghiera eucaristica, che costituisce il momento centrale della Messa, con la formula: «Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio, Padre onnipotente, nell’unita dello Spirito Santo, ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli. Amen».
A partire da questo periodo viene elaborata una dossologia finale inerente alla celebrazione eucaristica. Un esempio è la formula: «Ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen» oppure, derivata dalla consuetudine ebraica «È tua è la gloria nei secoli dei secoli. Amen». Altre forme finali significative si trovano nel Nuovo Testamento in Romani 1 1 ,36: «Poiché da fui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui sia la gloria in eterno. Amen» come pure nell’introduzione di Saluto e augurio e in Efesini 321 : «A lui sia la gloria nella chiesa in Cristo Gesù per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli. Amen». Qui è l’Amen che sigilla per cosi dire la formula ed il suo significato per il credente.
Per una dossologia massonica
Date queste premesse è interessante cercare di delineare i primi rudimenti di una dossologia massonica, coerente con la ritualità Libero Muratoria, a partire dalle formule comuni che troviamo nei rituali dei vari gradi.
La prima formula dossologica maggiore, analoga per intento a quella «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» che apre il rito eucaristico, è certamente «Alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo». Da qui l’orientamento del rito massonico svela in pieno il suo intento, ponendo l’iniziato in una posizione di rispetto e di ascesi, ma non di subordinazione, nei confronti del Principio creatore universale al quale vengono dedicati i lavori. Il G.A.D.U., in effetto, è un principio descrittivo e non prescrittivo.
E dunque, va sottolineato che il legame tra la formula Alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo e la tradizione Massonica va ritrovato ed apprezzato nel nesso simbolico tra il mestiere in oggetto ed il Principio universale del quale essa è espressione. In altre parole, sperando di essere chiaro in un passaggio
fondamentale: la formula dossologia rivolta al Grande Architetto deve essere assunta come «supporto» del percorso iniziatico di modo che esso risulti, per così dire, una applicazione contingente dei principi stessi, immutabili ed eterni, meta-umani, ai quali si riferisce e dai quali trae la sua ispirazione.
La formula viene ripresa anche alla chiusura dei lavori per sancire che tutto il rituale, ed anche la parola circolata tra le colonne, è stata dedicata alla Gloria dell’Uno. La seconda serie di formule dossologiche maggiori possono essere considerate le invocazioni pro. nunciate dalle tre luci all’accensione ed allo spegnimento delle stesse in relazione al ruolo della Sapienza della Bellezza e della Forza. Qui è la Luce stessa della conoscenza prima emessa, irradiata e sostenuta dai tre principi che viene prima evocata, solve, poi, per così dire, fissata, coagula, nel cuore dell’iniziato. Un analogo intento nel panorama dossologico cristiano-cattolico è certo reperibile nel: «Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose».
Altra formula dossologica massonica che può essere considerata alla stregua dell’Amen, è il «Tutto è giusto e perfetto» pronunciato dal Primo Sorvegliante alla fine del giro dei Diaconi o dall’Oratore come conclusione del suo intervento. Stessa valenza ha il «Ho detto» alla fine delle parole pronunciate dai Fratelli.
Conclusioni
Come detto in apertura, non vi è, in queste brevi riflessioni, nessuna pretesa di esaurire un argomento che, però, abbiamo perlomeno voluto proporre come ulteriore arricchimento dei significati simbolici delle nostre formule rituali. II parallelo, che individua sia le convergenze sia le differenze, con la dossologia cristiano-cattolica, ci è parso interessante non solo dal punto di vista storico, quanto per evidenziare ancora una volta le apparenti similitudini che intercorrono tra due vie che, in realtà, viaggiano su binari paralleli. Certo dalla ritualità cristiano-cattolica c’è molto da imparare, noi pensiamo, introducendo appropriatamente certe analogie, nei debiti distinguo che le differenziano, anche perché, spesso, studiando il simile si capisce meglio la natura dell’uguale.

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