BUON GOVERNO E ILUMINISMO MASSONICO SOTTO LA DINASTIA LORENESE


di
Blasco Mucci
Premessa
Anche noi toscani abbiamo appartenuto indirettamente a quella “Austria felix”, così definita dal buon governo di principi illuminati, dall’esistenza di una amministrazione onesta e parsimoniosa, di tecnici attivi e competenti, ma soprattutto da una concezione austera ed armoniosa della vita in cui ognuno, nella sua situazione e nelle sue competenze, trovava soddisfazione, rispetto e dignità.
Gli Asburgo-Lorena, successori dei Medici, diedero alla nostra regione sviluppo artigianale, industriale ed agricolo, strade ancor oggi essenziali ai nostri trasporti, bonifiche di terre trascurate da secoli, regimentazioni delle acque ancor oggi indispensabili e, purtroppo, mai più continuate, con i risultati che tutti i fiorentini ben conoscono. Più ancora, gli Asburgo-Lorena diedero, alla Toscana ed ai Toscani, diritti e libertà che precorsero quelli auspicati dalla Massoneria.
Quelli che furono poi i primi membri fiorentini della Massoneria ebbero un notevole ruolo nell’auspicare prima, e nello stabilizzare poi, il passaggio del Granducato a Francesco di Lorena, sotto il nome di Francesco III. Il Marchese Giulio Rucellai, Segretario della Giurisdizione, il Marchese Carlo Rinuccini, Ministro sotto Gian Gastone e poi del primo dei Lorenesi, Giovanni Lami, noto ed influente erudito, ed altri minori personaggi, avevano, infatti, appoggiato l’avvento dei Lorena
La gratitudine di questo sovrano, chiamato dai fiorentini “il fratello lorenese” protesse poi l’Ordine ed i suoi membri, contro lo strapotere ecclesiastico dell’lnquisizione, fino alla sua abolizione, il 5 luglio 1782. I Lorena suoi successori mantennero lo stesso benevolo atteggiamento verso la Massoneria. Non è da dimenticare che, proprio in Toscana, a Lucca e Livorno, con il sostegno di Pietro Leopoldo, furono pubblicate le prime due edizioni dell’Enciclopedia, la monumentale opera illuminista, quando era stata già posta all’indice, nel Marzo del 1759.
La concezione politica dei primi Granduchi Lorenesi era improntata agli ideali massonici, che ponevano nella pubblica felicità lo scopo dei governi, attraverso la tolleranza ed il rispetto dei diritti altrui, e, nel loro fine ultimo, la Fratellanza universale. La libertà di culto, l’abolizione della pena di morte, il principio della reciproca collaborazione e fiducia fra governanti e governati, ciò che Pietro Leopoldo stesso definiva la “cooperazione ed il consenso dei soggetti interessati”, fecero scrivere al fratello Mirabeau che:
“L’Europa del XVIII secolo può essere veramente felice perché ha voluto mettere alle due estremità del continente due sovrani, così rari in tutti i secoli, quali Gustavo [di Svezia] e Leopoldo”.
La raffinata ideologia umanistica di Pietro Leopoldo non penetrò purtroppo nell’anima popolare, in cui godeva in ogni caso considerazione e rispetto, ma rimase appannaggio delle classi colte fiorentine, che ebbero modo di formare delle colte accademie tuttora esistenti e culturalmente vivaci.

La validità riformistica indotta dall’illuminismo in Pietro Leopoldo ebbe quindi degli altissimi estimatori, che formarono una élite, cosciente di essere all’avanguardia in Europa. I maggiori spiriti toscani, nei principi della costituzione Leopoldina, videro un equilibrato ed efficiente compromesso fra la libertà nazionale e autocrazia illuminata. .
In quest’ambiente la stessa Rivoluzione francese fu vista come derivante da quegli stessi mali debellati pacificamente in Toscana, ed i suoi eccessi furono condannati, anche se compresi nel loro aspetto di dolorosa catarsi sociale.
Quest’equilibrio, politico e sociologico, ha una intrinseca natura massonica; per la sua ideologia umanistica a Massoneria è riformista o anche rivoluzionaria quando ciò è necessario all’evoluzione umana, ma, per le stesse motivazioni, ha in se anche elementi, bilancianti, di conservazione e di moderatismo.
Pietro Leopoldo, lasciando la Toscana per l’Impero, nonostante le gravi difficoltà e responsabilità dell’altissimo incarico, e le persistenti dicerie sul complotto massonico contro i troni e gli altari, sfociato nella Rivoluzione, mantenne una profonda coerenza di riformista, proteggendo coloro che, indicati come illuminati dalla propaganda antimassonica, conservarono, sotto il suo regno, proprietà, libertà e titoli. È inoltre nota la protezione e a benevolenza verso la Massoneria di un altro grande Asburgo-Lorena, l’Imperatore Giuseppe: in un suo noto editto, l’esistenza della Massoneria nelle nazioni sottoposte all’Impero era accettata e regolamentata.
La reazione dei principati europei, e soprattutto quella clericale, vide negli eccessi rivoluzionari la conseguenza dell’illuminismo e del riformismo della Massoneria, che avrebbe invece voluto un equo e pacifico trapasso di una parte dei poteri sovrani ai rappresentanti del popolo.
La leggenda del complotto massonico non ebbe tuttavia troppi estimatori in Europa, tranne che in Italia dove l’esistenza del potere temporale del Papato stravolse ogni possibilità… di contatto e rapporto fra Massoni e grandi masse popolari. Quando un principe come il popolare “Canapone”, ultimo Granduca lorenese di Toscana, prese la strada dell’Austria in carrozza, come un privato cittadino, la Massoneria toscana, nell’entusiasmo dell’unità italiana, non si rese conto di aver perso forse l’ultimo difensore ed assertore nei fatti dell’essen- za ideologica più profonda e vera della Massoneria.
Ma dei Lorena, in Toscana, non rimane soltanto il globo chiodato ai crocicchi delle vie, ma un’impostazione di vita e di pensiero che per quanto patrimonio d’élite trova risposta anche nell’istinto del popolo, che, alla fine, ritrova sempre il fiuto per l’odore che distingue i buoni dai cattivi padroni.
Note
– Francesco d’ Asburgo, Duca di Lorena era stato iniziato all’Aia in Olanda, nel 1731.
– Il Granduca inviò a Benedetto XIV una lettera in cui difendeva la libertà di stampa vigente in Toscana, in cui si affermava, a proposito del comportamento dell’lnquisizione nel caso Crudeli,: ” Prima che io mi partissi di Toscana mi fu domandato l’arresto di due dei miei sudditi per supposti delitti di fede, mai non può immaginarsi un caso più circostanziato di quello, per poter negarlo. E noto a V. S. l’esito di quel processo, com’è noto a me, ch’ho auti in mano i documenti autentici, ond’ella avrà una giusta idea dell’impressione che mi deve aver prodotto, e s’io abbia luogo senza offendere il dovere ed il lume della mia ragione medesima di restare ancora in dubbio o nell’indifferenza su questo punto” Traduzione di un biglietto di propria mano della Maestà Imperiale e Reale l’ Imperatore, concernente l’Ordine dei Liberi Muratori.
“La Libera Muratoria si è talmente diffusa nei miei Stati, che non vi è alcuna piccola città di provincia ove non vi sia una Loggia e vi è la più grande necessità di stabilire un certo ordine. Io non conosco i loro misteri, e non ho mai avuto la curiosità di penetrarli; mi è sufficiente di sapere che i Liberi Muratori fanno sempr qualche bene, che sostengono i poveri, coltivano roteggono le lettere, per fare per essa qualcosa in più che in ogni altro paese.
Ma siccome la ragion di stato ed il buon ordine domandano di non lasciare alcuno a se stesso e senza alcuna particolare ispezione, penso di prenderli sotto la mia protezione e di accordargli la mia gra zia speciale se si comportano bene, alle seguenti condizioni:
1 – Non vi sarà nella Capitale che una o due Logge, o se fosse impossibile riceverci tutti i Fratelli, tre tuttalpiù. Nelle città ove vi sia un’ autorità, si permetterà una, due o tre logge. Tutte le Logge nelle città di provincia dove non vi sia autorità, sono rigorosamente vietate, e l’ospite che accetta assemblee nella sua casa, sarà punito come un criminale che permette dei giochi proibiti.
2 – Le liste di tutte le Logge e dei loro membri saranno inviate al Governo, i giorni dell’assemblea sempre comunicati; ogni tre mesi si invierà un esatto dettaglio dei membri che sono stati ricevuti nella Loggia, o che l’hanno lasciata, ma senza annunziare i titoli, dignità e gradi che vi sono nelle Logge. Soddisfatto tutto ciò il Governo accorda ai Liberi Muratori accettazione, protezione e libertà; lascia interamente alla loro direzione le questioni interne delle Logge e delle loro costituzioni, senza far mai delle curiose inquisizioni. In questa maniera, l’ Ordine dei Liberi Muratori, che è compo-
sto da un gran numero di gente onesta da me conosciuta, può divenire utile allo Stato: si comunichi questa ordinanza al Governo delle Provincie”. P. S. L’esecuzione di questa ordinanza cominci dal primo di Gennaio.
Quando, nella metà del XVIII secolo, si venne compiendo una vasta opera riformatrice, questa si ispirò alla necessità di eliminare il dislivello tra città dominante e provincia soggetta. Infatti tutti i ministri e gli uomini di Stato che promossero queste riforme si sforzarono di dimostrare l’enorme sacrificio che la provincia aveva sopportato nei confronti della metropoli. L’industria della capitale, che aveva monopolizzato il mercato e subordinato ai propri interessi l’economia generale dello Stato toscano, apparve allora come la principale causa di questa sperequazione. L’origine era nel Comune, manifatturiero e commerciale, che aveva combattuto per la conquista dei mercati e per I ‘egemonia economica, e che nella legislazione protettiva e proibitiva, aveva trovato l’ arma più valida per mantenere il contado prima e, dopo le conquiste, il distretto in una condizione di dipendenza.
La dinastia dei Medici aveva sì guardato al di là delle mura cittadine e constatato la necessità di favorire l’evoIuzione in certe città del dominio come Pisa e Livorno, ma sempre in correlazione con i privilegi mercantilistici della metropoli che non furono mai intaccati ma anzi rafforzati. In questa contraddizione consiste il difetto maggiore della politica medicea, che da un lato è l’espressione di una unità più coerente dello Stato, e dall’altro è un processo di accomodamento e di compromesso tra i nuovi bisogni di uno Stato accentrato ed i sistemi e gli istituti del vecchio regime.
I ministri della reggenza di Francesco Stefano di Lorena, quando questa dinastia ebbe il governo della Toscana, notarono gli anacronismi, le incongruenze e la eterogeneità del sistema. In Toscana non si era ancora sviluppato nella sua pienezza lo Stato moderno che ha per fine l’assoluto assoggettamento di tutti i sudditi alla sovranità del principe, ponendo fine all ‘ esclusivo dominio di una classe o di un gruppo. Se in uno Stato, col persistere delI ‘ economia cittadina mercantilistica resta in piedi la struttura sociale che da questa è nata, tutte le istituzioni privilegiate conservano la prevalenza perché sono artificiosamente mantenute le condizioni necessarie al loro sussistere. Non essendo perciò in Toscana cambiato indirizzo nella politica economica, la progressiva decadenza del sistema ha reso questo più rigoroso ed ha fatto incrudelire la legislazione.
Al Consiglio di Reggenza di Francesco di Lorena, le condizioni della Toscana apparvero ovviamente artificiali e dovute ad un sistema coercitivo mantenuto saldo da ceti interessati a non rinunciare agli utili che questo sistema loro assicurava. Si presenta la necessità di risolvere il problema del dualismo città-campagna e molte opere furono scritte per combattere l’ esclusiva egemonia della metropoli nella sua forma più esosa: la politica annonaria. Questa politica sacrificava agli interessi delle classi cittadine quelle dei contadini e salvaguardava i privilegi di cui godevano le arti e le industrie a danno degli altri ceti produttivi. Il concetto di questa politica è che la capitale è tutto, e lo Stato deve servire ad essa.
Quando si parla di “popolo” e quando si dice che i prezzi bassi imposti dall’ Annona sono a favore di esso, in realtà non si pensa che ai consumatori cittadini e all’oligarchia sorta dalle manifatture e dai commerci della classe dominante. L’esclusivismo feudale ereditato dal Comune aveva generato il privilegio cittadino e questo privilegio non muore di consunzione ma occorre un coraggioso movimento riformatore per debellarlo completamente. Bisogna arrivare alle riforme leopoldine per assistere ai primi albori di una politica liberale perché il fine di queste riforme mirava ad abbattere il dualismo tra città e provincia, a eguagliare i sudditi nei loro diritti essenziali ed a potenziare l’ agricoltura per ottenere il maggior aumento possibile di prodotti alimentari.
Il successore di Ferdinando, Cosimo II, fu studioso di agricoltura, di botanica e di idraulica ed iniziò una vasta opera di bonifica delle paludi, accordando privilegi ed esenzioni a coloro che si fossero trasferiti nelle zone bonificate. Sotto Ferdinando II, successore di Cosimo II, le cose tornarono al peggio, sia per gli aggravati oneri fiscali e sia per la fissazione dei prezzi di imperio dei grani che indussero i contadini ad abbandonare i campi e ad annullare così i benefici delle bonifiche iniziate da Ferdinando I.
Verso la fine del Seicento, con Cosimo III, si tentò di mitigare la crisi dell’agricoltura con il diminuire le imposte e ripartire la spesa delle bonifiche tra i vari interessati non tenendo conto alcuno delle resistenze ecclesia-
stiche. Alcuni risultati positivi furono ottenuti da imprenditori privati, che favoriti da alcuni provvedimenti del principe, si interessarono a considerevoli opere di bonifica delle paludi della Maremma e della Valdichiana. Ma ben altro si rendeva necessario!
Al principio del Settecento, il Granducato di Toscana appariva consunto e disgregato. Nel 1737, con la morte di Gian Gastone, si estingueva la dinastia dei Medici e Francesco Stefano di Lorena assumeva il governo della Toscana. E sotto il nuovo principe che si creano le basi per la nascita di uno Stato moderno ed efficiente, anche se le vecchie istituzioni rimangono ancora in vigore. In Toscana, il principale problema dell’agricoltura era quello della proprietà della terra e della diversità delle leggi tra metropoli e provincia.
Il principe si volge pertanto a tutelare gli interessi dello Stato sottoponendo ad una legge comune quelle classi che avevano consolidato i loro privilegi ed i loro monopoli. Le conseguenze che i riformatori si prefiggono sono: a) sostituire un’economia territoriale all’esistente economia cittadina;
b) sostituire un’economia libera ad una economia di monopoli.

E ovvio quindi che i giuristi e gli uomini di cultura seguaci delle teorie illuministiche elaborino programmi destinati in futuro a risolvere le aspirazioni dei lavoratori della terra a disporre liberamente sia della conduzione dei terreni sia dei prodotti ottenuti con lo sfruttamento degli stessi.
La tesi fisiocratica del libero commercio dei grani aveva fatto sentire la necessità di abolire le antiquate manomorte ecclesiastiche e di risolvere una volta per sempre i vecchi dissidi tra l’aristocrazia terriera ed il nuovo ceto medio agrario. E poiché al diritto di chiusura e difesa dei fondi coltivati si oppongono i ceti più retrivi della società, i grandi proprietari di greggi ed anche le popolazioni più povere delle campagne, il movimento riformatore deve tenere conto di questi contrastanti interessi ed arrivare ad un compromesso che varia da regione a regione, da comunità a comunità, da popolazione a popolazione.
L’aumento dei prezzi dei cereali e l’aumento dei profitti favoriscono i provvedimenti presi dai riformatori tendenti a limitare gli usi comunitari del pascolo, a facilitare la chiusura dei fondi, a togliere gli impedimenti alla libertà di coltura e di rotazione ed a riscattare terreni mediante opera di bonifica.
Francesco Stefano di Lorena non governò direttamente la Toscana ma attraverso un Consiglio di Reggenza presieduto dal ministro Emanuele di Richecourt. Francesco non fu ovviamente il restauratore della Toscana, ma egli ha il grande merito di aver avuto fiducia in collaboratori intelligenti e favorex;oli alle più ardite riforme.
La dinastia medicea aveva conservato quasi tutte le forme esteriori della repubblica. Da Cosimo I a Gian Gastone, l’ultimo granduca mediceo, i fiorentini erano stati amministrati da uffici con i nomi repubblicani. Ma non erano ormai più i tempi degli ordinamenti comunali. Se inomi ed i sistemi erano gli stessi, diversi erano i desideri, le necessità e le aspirazioni della popolazione del Granducato. Inoltre lo Stato non era formato da una unica struttura omogenea ma da tre parti distinte: Firenze, Pisa e Siena. Di queste, Firenze godeva di una posizione di privilegio poiché i fiorentini esercitavano una vera e propria tirannia amministrativa nei confronti della provincia a causa del loro diritto di esercitare gli atti amministrativi per mezzo di uffici “estrinseci” solo ad essi riservati.
Il Richecourt era stato profondamente colpito dall’ingiustizia della diversità di trattamento applicato alle singole parti dello Stato. Il problema più importante era però quello finanziario. Il debito pubblico era enorme e colpiva il consumo dei beni di prima necessità come il pane e il sale con imposte e gabelle che erano applicate con severità perché molto facile ne era la riscossione. Sulla popolazione delle campagne gravavano inoltre delle gabelle superiori alla popolazione delle città ed era imposta anche l’iniqua tassa sul bestiame da lavoro. Il Richecout si adoperò ad alleviare il debito pubblico e ci riuscì operando la conversione della rendita. Fu perciò possibile ridurre il prezzo del sale ed abolire la tassa sul bestiame. Sotto Francesco fu iniziata la riforma giudiziaria, continuata e compiuta da Pietro Leopoldo, nello spirito della assoluta eguaglianza dei diritti dei sudditi di fronte al sovrano. La completa attuazione della riforma giudiziaria riparò alla disuguaglianza di trattamento tra le varie parti del Granducato per differenza di leggi e di consuetudini, estese la legislazione dello Stato ai territori sottoposti alla giurisdizione civile e penale dei feudatari, liberò le comunità da ogni ingerenza amministrativa degli stessi feudatari, proclamò inviolabile la libertà dei vassalli e dette ad essi, in caso di abusi, il diritto di ricorso diretto al granduca. Non era ancora abolita la feudalità ma ne era limitato il potere e proibito senz’altro ogni abuso. Francesco attuò anche una nuova politica nei confronti della Chiesa, politica che incontrò opposizione e contrasti nella parte più retrograda della società ma che, nonostante ciò, continuò per l’energia di governo del Richecourt e di Giulio Rucellai.
Una legge importante fu quella del 1751 che mirava ad arrestare lo sviluppo della “manomorta” ecclesiastica, legge che favorì la libera disponibilità della proprietà terriera e fu il primo passo delle ardite riforme di Pietro Leopoldo. La preparazione della legge fu scrupolosamente accompagnata da preziose tabelle statistiche, risultato di indagini difficilissime per quei tempi. Francesco aveva già dal 1745 riunito la corona di granduca a quella dell’Impero. Stabilì però che alla sua morte la corona granducale, nuovamente staccata da quella imperiale, sarebbe passata al di lui figlio secondogenito, Pietro Leopoldo. Alla di lui morte, avvenuta nel 1765, la Toscana con il nuovo granduca riacquistava la propria autonomia.
Pietro Leopoldo aveva 18 anni quando, nel 1765, divenne granduca di Toscana. Nessun altro principe lo supera per la sua intelligente, ardita e umana opera riformatrice. Iniziò la sua opera con la riforma agraria e trovò nel popolo toscano la comprensione e seguito. Ebbe consiglieri e cooperatori illuminati. Forse per tutte queste convergenze la riforma fu efficace.
Contemporaneamente venivano ripresi con maggior vigore la bonifica ed il ripopolamento dei territori paludosi e malsani. Questi lavori erano stati iniziati da Ferdinando I ma erano stati interrotti all’inizio del XVII secolo. Pietro Leopoldo staccò la Maremma dal territorio amministrativo senese e ne costituì una amministrazione speciale, ponendovi a capo tecnici idraulici e agrari. Furono costruiti canali, arginati fiumi, fatto colmate, costruite case coloniche e grandi strade di comunicazione. La Toscana ebbe allora una rete stradale che allacciava centri minori ai maggiori e le terre bonificate con i centri di consumo e di mercato.
Più degli interessi di una città, di quella che era stata la città dominante, la rete stradale serviva ai nuovi centri di popolazione rurale che la bonifica creava. Vi è un impulso che agisce su Pietro Leopoldo: la fede nell ‘ avvenire agricolo del Granducato secondo le nuove e interessanti teorie fisiocratiche del tempo. La legislazione leopoldina è animata da tale fede. Già avevamo osservato che uno dei principali problemi dell ‘ agricoltura toscana era quello della proprietà. Furono aboliti tutti i vincoli che inceppavano la libertà di produzione, furono sciolti i fidecommissi che la Reggenza non aveva interamente soppresso, furono abolite le “comandate”, le prestazioni servili da parte delle comunità, furono aboliti i prezzi d’imperio e confermata la piena libertà del commercio dei grani.
Il problema economico agrario era stato da Pietro Leopoldo collegato a quello sociale per l’elevazione e l’emancipazione del lavoratore. Prese pertanto concreta forma il sistema livellare leopoldino dopo che il latifondo si era frazionato mercé appunto l’istituzione del contratto di enfiteusi. Al frazionamento del latifondo contribuì ovviamente la legge creata per l’abolizione della manomorta, del feudo e dei fideocommissi. Il lavoratore si trovava così per la prima volta nella facoltà di poter disporre della terra da lui coltivata essendogli conferito il diritto dell’ alienabilità e dell’ affrancazione dei terreni. La Toscana trasse dalla rifot$la agraria elementi favorevoli ad un rapido sviluppo dell’agricoltura.
La riforma amministrativa, creando un nuovo sistema municipale basato sulle rappresentanze civiche, spostò decisamente l’ assetto economico-sociale dalla città alla campagna, formando una borghesia rurale capace di conoscere e regolare da sé gli interessi propri e delle comunità. Assistiamo pertanto alla frenetica attività dei municipi che, controllati dal potere centrale soltanto negli affari che riguardavano controversie con altre comunità, amministrano con oculatezza il Comune, regolano bene le spese per curare strade e canali, distribuiscono con giustizia tasse e imposte, nella convinzione che tutelare gli interessi delle comunità significa anche porre le basi per l’emancipazione ed il benessere dei singoli individui.
La riforma agraria di Pietro Leopoldo favorì specialmente il sistema degli affitti. Ordinando la legislatura dello Stato in modo di favorire l’agricoltura, il granduca conseguì lo scopo di formare nel suo Stato una riunione di famiglie patriarcali che popolavano le campagne a preferenza della città, e di riportare la provincia a quel livello morale e culturale che la decadenza dell’agricoltura, provocata dalla inerte oligarchia cittadina, aveva paurosamente abbassato.
I problemi dell’agricoltura toscana all’inizio della riforma leopoldina erano numerosi e complessi ed affondavano le origini nella notte dei tempi. Dopo le bonifiche erano aumentati sì i terreni coltivabili ma non erano aumentate le case coloniche. Erano aumentate le superfici dei singoli poderi ma non si erano divise le famiglie, con la conseguenza di moltiplicare sotto lo stesso tetto il numero degli individui. Questo particolare comportava la mancanza di subordinazione al capo famiglia e creava nei componenti, specialmente i giovani, la volontà di procurarsi redditi fuori. del podere. Il bestiame normalmente non stava nella stalla ma alla pastura ed era affidato alle cure di giovinetti spesso non volenterosi ed incapaci. Dove però il bestiame, come nella Valdinievole, era nutrito nelle stalle dalla mano dell’uomo, il prodotto era doppio ed anche triplo.

Un esempio: la bonifica della Valdichiana
Nel 1763 Pietro Leopoldo I di Lorena assume la guida del Granducato di Toscana. Visitò personalmente la Valdichiana ed in seguito inviò sul posto a compiere studi e rilievi il matematico padre Leonardo Ximenes, l’altro grande matematico Tommaso Perelli e gli ingegneri Pietro Ferrini e Giuseppe Salvetti. Il Salvetti eseguì il profilo della Valle nel 1769, ove risulta che la platea del Callone di Valiano che pareggia il fondo del canale maestro è più elevata di 15 braccia della cresta della Chiusa dei Monaci, dimostrando così di quanto si fossero sollevati il fondo della Valle e quello del canale maestro dopo il 1551, data della perizia di Antonio Ricasoli.
Tutti questi tecnici suggerirono il loro metodo sui lavori di bonifica da eseguire nella Valle e specialmente sulla convenienza o meno di conservare la Chiusa dei Monaci o demolirla. Alcuni tecnici suggerirono di abbandonare il metodo delle colmate, alcuni addirittura di dare libero sfogo alle acque mediante la costruzione di un nuovo grande alveo. Lo Ximenes sosteneva doversi abbassare la Chiusa dei Monaci, fabbricare diversi sostegni lungo il canale per uso di navigazione e costruire a quattro archi i ponti di Arezzo che allora avevano due arcate.
Di fronte a così diverse opinioni Pietro Leopoldo, in attesa di addivenire ad una decisione, invitò i proprietari dei terreni palustri a bonificarli nell’interesse loro e delle comunità, e molti aderirono all’invito venendo talvolta a patti di temporanea cessione. Infine Pietro Leopoldo affidò la Sovrintendenza della bonifica ad una deputazione di sei notabili eletti in Valdichiana, in attesa di conoscere l’esito della progettazione degli esperti. La deputazione non dette però buona prova e Pietro Leopoldo la sciolse nel 1788, istituendone una nuova composta di tre membri, due di nomina sovrana ed uno eletto dai possessori contribuenti. Infine completò il suo intervento affidando la direzione della bonifica a Vittorio Fossombroni, autore delle “Memorie idraulico-storiche sulla Valdichiana” che tenne la Sovrintendenza dal 1788 al 1827, cioè anche nell’interposto periodo francese. Nel 1794 il Fossombroni fu nominato anche Sovrintendente generale del dipartimento delle acque della Valdichiana dal quale dipendevano oltre ai lavori di bonifica anche la regolazione delle colmate.
Quando il Fossombroni assunse la direzione della bonifica, la maggior parte della Valle era già ridotta a pastura ed a sementa, tranne una piccola parte nel piano di Chiusi ed i due laghi. Non erano però totalmente fruttiferi i terreni adiacenti ai bassi tronchi dei fiumi. Il Fossombroni dichiarò che al presente la Valle non era più bisognosa di bonifica ma necessitava di lavori che la mantenessero in condizione di fruttare. Osservò il Fossombroni che la torre di Valiano, demolita, aveva subito un interramento di oltre 10 braccia ed altri interramenti erano avvenuti in prossimità di Foiano.
Nel 1789 i rii dell’Olmo, di S. Anastasio e di Pieve al Quarto facevano “colmata” presso la Chiana. I rii di Vitiano e di Cozzano venivano a fare una piccola colmata presso la piana di Brolio, quasi di fronte a Cesa. Il Vingone, il Biguzzo ed il Celone di Castiglione insieme al Cigliolo, al Loreto e all’Esse di Cortona mandavano le loro acque a colmare lungo la Chiana, tra la collina di Brolio e quella delle Capannacce ed il Montecchio. La Mucchia di Cortona scaricavasi a colmare lungo la Chiana quasi di fronte a Foiano, dove dalla parte opposta mandava le sue acque per formare colmata l’Esse di Monte S. Savino. La Foenna e la Fuga colmavano lungo la Chiana di faccia quasi ad Acquaviva e ad Abbadia. Il Salarco entrava nel chiaro di Montepulciano. Il Monaco entrava nel Chiarino, tra l’uno e l’altro lago, la Tresa voltava verso il Callone del Campo alla Volta e l’Astrone andava più oltre e passando l’argine di Clemente e la Torre dei Ladri andava nella Chiana romana.
Il Fossombroni constatando che le colmate avevano servito sino allora a bonificare soltanto appezzamenti di terreno, intese a modificare il piano di bonifica di tutta la Valle, ritenendo che prima di dare libero corso alle acque torbide occorreva dare a tutta la Valle ed alla campagna laterale una pendenza regolare, appunto perché le acque non chiarificate potessero in futuro convogliarsi verso l’Arno, liberamente. Allora la Chiana non sarebbe più stata un canale ma un fiume.
Il Torricelli aveva affermato che era impossibile bonificare la Valle senza prima togliere una grossa fetta di terreno verso Arezzo, il che impediva la soluzione essendo impossibile convogliare la Chiana in Arno per l’abbassamento di tutto il fondo valle. Fossombroni enunciò la teoria che si poteva fare il contrario: elevare il livello della Valle superiore verso Chiusi mediante colmata. In questo modo si rese perciò disponibile a ricevere un influente di più man mano che questi aveva “colmato”. Fossombroni riteneva che entro un secolo si poteva cessare di regolare artificialmente il corso delle acque, lasciando la natura ormai libera di continuare nel ciclo ormai definitivamente stabilito. Proseguendo la bonifica sembrò fosse possibile abbassare la Chiusa dei Monaci ma si preferì invece praticare nella parte destra uno scaricatore fornito di cateratte, la cui soglia inferiore era più bassa della cresta della pescaia, per poterne usufruire all’occorrenza.
Nel 1780 tra il Papa Pio VI e Pietro Leopoldo fu stabilito un trattato per la regolamentazione idraulica della Valle e delle acque di confine. Fu stabilita la nuova inalveazione della Tresa, la modifica del recapito del Maranzano nella Tresa stessa per dare sfogo all’uno e all’altra nella palude delle Bozze e nel chiaro di Chiusi, salvo valersene ancora per alcuni anni per “colmare” i luoghi più bassi appartenenti allo Stato PontifiCio. E affinché le acque torbide della Tresa e del Maranzano non turbassero il sistema di quelle quantità di acque chiare che doveva portarsi liberamente in un più profondo canale al Callone ed alla Chiana romana, si costruì un argine di separazione alto 6 braccia e largo 4, attestato dalle colline di Chiusi sino al lato opposto alle colline
di Città della Pieve. Il nuovo argine delimitò il confine tra la Chiana toscana e la Chiana romana in modo definitivo, sebbene fossero sorte quasi subito controversie tra i confinanti e messa anche subito in dubbio la convenienza di conservarlo.
Nel 1790 si pensò anche di abbassare il regolatore di Valiano per concedere uno scarico più abbondante nella Chiana alle copiose acque del chiaro di Chiusi, del chiaro di Montepulciano e delle campagne superiori. A ciò si oppose il Fossombroni per il timore che una maggiore copia di acque nell’alveo della Chiana potesse arrecare pregiudizi alle ubertose e popolate campagne inferiori.
In un atlante composto di oltre 100 tavole attualmente nell’archivio comunale di Foiano, sono rappresentati tutti i terreni strappati alle acque con i terreni di proprietà del granduca colorati in giallo, quello dei privati in bianco e quelli appartenenti alla Religione di Santo Stefano colorati in rosso. Da questo atlante si rileva che salvo limitate proprietà private, il granduca possedeva personalmente le fattorie di Dolciano, di Rigutino, di Policiano e del Bastardo, mentre tutto il rimanente apparteneva ai Cavalieri di S. Stefano.
L’Ordine acquisì anche altri terreni man mano che la bonifica proseguiva e nel 1797 acquistò dai monaci Benedettini di Arezzo il molino di Ponte a Chiani con la famosa Chiusa. Essa serviva all’Ordine a disporre del controllo delle acque della Valle. L’Ordine possedeva anche grandi magazzini per i raccolti, uno al ponte alla Nave, uno a Montevarchi ed uno a Firenze. Aveva inoltre fabbricati e rimesse a Cortona, ad Arezzo e a Monte San Savino. Una perfetta contabilità veniva tenuta in merito alla quantità dei raccolti, delle spese annue, delle medie dei redditi sia dei terreni coltivati sia di quelli tenuti a prateria, in “colmazione” o a bosco.
Non era prevedibile in quel momento di grande prosperità e potenza dell’Ordine di S. Stefano, che entro pochi anni la rivoluzione del 1799 avrebbe travolto proprio direttamente i Cavalieri della Religione di Santo Stefano. •

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