IL VERO BARONE RAMPANTE

Il vero Barone Rampante
Scoperto il personaggio che ispirò Italo Calvino
di
Aldo Alessandro Mola
“Credo molto nell’individuo, proprio perché mi preoccupo della storia collettiva”. Così scriveva Italo Calvino nell’agosto 1957. Dieci mesi prima i carri armati sovietici avevano schiacciato l’Ungheria insorta contro il totalitarismo comunista, incompatibile con la sua anima di popolo libero, mai piegato neppure dagli Asburgo. Kruscev – proprio l’uomo che aveva denunziato i crimini di Stalin – si comportava da stalinista. Repressione nel sangue d’ogni anelito alla libertà. Dopo mesi di attesa un segnale da parte del PCI di Togliatti e compagni contro il liberticidio sovietico ai danni degli “Stati satelliti”, Italo Calvino ruppe col partito. “Comunista”, del resto, non era mai stato davvero: era entrato nel PCI durante la lotta di liberazione, convinto di trovarvi un più alto livello di rispetto per l’uomo. Scoprì invece.- anche nel famoso viaggio in URSS che lo vide cronista autocensurato – che il totalitarismo rosso era la tromba della libertà, il disprezzo dell’uomo praticato nei gulag non per caso allestiti prima ancora che Hitler impiantasse i lager per concentrarvi e sterminarvi gli oppositori e le “razze inferiori”.
Diffidente, e con buone ragioni, nei confronti dell’altra forma di totalitarismo contemporaneo, la massificazione del puro e semplice “consumo”, una sorta di neomarxismo da grande magazzino, Calvino si tuffò allora nelle radici illuministiche dei principi di libertà. E s’imbatté nella massoneria.
Non fu affatto un incontro casuale. Suo padre, Mario, il celebre agronomo e creatore della moderna floricoltura del Ponente Ligure, così come lo zio, Quirino, era stato tra i fondatori della Loggia “Giuseppe Mazzini”, sorta a San Remo nel 1900. Lì Mario fu “fratello” di suo padre, Gio. Bernardo e di uno zio, entrambi già affiliati a una loggia di Napoli e ora attivi in quella sanremasca. Di più: prima di trasferirsi in Messico e a Cuba (ove nacque Italo), Mario Calvino fu anche affiliato alla “Garibaldi” di Porto Maurizio, a sua volta fondata nel 1900. Per i Calvino Massoneria significava unificazione nazionale, laicismo, utopia riformatrice, emancipazione delle plebi dall’ignoranza e dalla miseria, libera circolazione di uomini e idee e lotta contro ogni forma di tirannide. Non erano solo “parole”. Mario Calvino dette il suo passaporto a un giovane russo che rientrava nei confini dell’Impero zarista per combattervi l’intolleranza (era l’epoca dei pogrom contro gli ebrei) e finì impiccato. I giornali riferirono che l’orrenda fine era toccata proprio all’agronomo sanremasco. Motivo in più, per lui, di accettare l’invito del governo messicano a organizzare l’agricoltura nel Paese di Pancho Villa.
Italo aveva sempre avuto un rapporto difficile col padre: due mentalità, due mondi, due stili di vita. Però sentiva la suggestione dei simboli che i Calvino ponevano sull’ingresso delle loro case, dalla Pigna a San Giovanni, sul fianco della collina di San Remo. Liberatosi dal partito “padre” ideologico e artificioso, come un Guerin Meschino dell’èra atomica Italo andò quindi in cerca dei suoi veri antenati. E s’immerse nello studio dei simboli liberomuratori e di quanti li avevano praticati. Una ricerca fruttuosissima. In parte riversata nel Barone rampante, primo fortunatissimo romanzo della trilogia completata con Il Visconte dimezzato e Il Cavaliere inesistente, pubblicato nel 1957.
Come ora documenta Luca Fucini in Il Barone dell’Impero Tomaso Bd’Olmo (Sorbello editore, via Paleocapa 16/ B, Savona), Cosimo Piovasco di Rondò, il “barone” calviniano, non fu affatto parto di fantasia. Era nientemeno che il maire di San Remo dal 1805: un nobile (creato marchese da Vittorio Amedeo III) apprezzato da Napoleone sin da quand’era generale dell’Armata d’Italia e poi creato barone dell’Impero “con maggiorascato”. Abilissimo – narra Fucini, sulla scorta di documenti inoppugnabili – nel traghettare il Ponente Ligure, e soprattutto la “sua” San remo, dall’esoso dominio di Genova (che nel 1753 gli arrestò il padre e gli impose una pesantisSima “taglia”) all’ingresso nell’Impero di Francia, dal crollo napoleonico al Piemonte in attesa di libertà costituzionali. Non per caso il figlio di Giobatta Borea d’Olmo, Tomaso Pietro Francesco, fu a fianco di Santorre di Santa Rosa ad Alessandria nel moto del 1821. Rampante a sua volta: e sempre verso la libertà. Carbonaro, il giovane cospiratore del 1821 aveva per padre un massone. Tomaso Giobatta, infatti, venne “iniziato” nella loggia di Nizza, “I Veri Amici Riuniti”. Vietata e perseguitata dai giacobini, la Massoneria stava rinascendo sotto la protezione di Napoleone, celebrato come “primo massone” e del resto fratello di “grandi
). e il cui figliastro, Eugenio Beauharnais, fu il primo gran maestro del Grande Oriente d’Italia, creato a Milano nel 1805.
Quella massoneria – emerge dal bel lavoro di Fucini – non era però affatto irreligiosa. Fautrice dell’ordine e della legge, essa rispettava la libertà di coscienza dei suoi adepti. Non per caso proprio Giobatta Borea d’Olmo, nel sontuoso palazzo di San Remo (ove ora vive il suo discendente, il duca Guido Orazio, e in cui si trova l’interessante Museo, zeppo di simboli massonici) ospitò papa Pio VII che rientrava dalla Francia verso Roma, per riprenderne il governo temporale.
Il Borea d’Olmo scovato da Fucini nacque 1’8 marzo 1767 e morì il 10 maggio 1838. Calvino fa nascere il suo Barone rampante alla nuova e vera vita – gli spazi celesti sui boschi di Ombrosa, cioè San Remo – il 15 giugno 1767. Il Barone vero e quello apparentemente “fantastico” furono dunque una stessa persona. Nella cappella gentilizia dei Borea d’Olmo, nella chiesa di Santo Stefano a San Remo, ormai bene addentro nella lettura dei “simboli”, Calvino colse l’intreccio degli elementi primigeni: acqua, terra, aria e fuoco, raccolti nello stemma del Barone dell’Impero, sovrastato dall’elmo senza volto del Cavaliere inesistente.
Abilissimo nel ri-velare, cioè nascondere nuovamente, le sue scoperte, i suoi sogni, le sue scorribande nei liberi spazi della fantasia (così remote dallo stalinista Zdanov e dal Togliatti che liquidò senza tanti complimenti l”‘intellettuale” Elio Vittorini), quando approntò di persona un’edizione “scolastica” del Barone rampante e ne scrisse la prefazione col nome anagrammato di Tonio Cavilla, Italo sforbiciò del tutto i capitoli sulle riunioni notturne dei massoni sui boschi d’Ombrosa a cospetto di Cosimo Piovasco di Rondò. L”‘ambiente” torinese in cui lavorava rimaneva succubo della tetra egemonia marx-comunista. Di massoneria – tutt’uno con la nascita della borghesia liberale moderna – non si doveva parlare. E così il Barone rampante continuò a svolazzare per i cieli, lontano dalle miserie della Torino degli anni della contestazione e del sangue. “Andrà sempre peggio”, scrisse ancora Calvino in una lettera che ora compare a cura di Luca Baranelli per IMeridiani di Mondadori. “Più le cose del mondo vanno male, meglio si scrive”. Fedele, insomma, alla sua “missione”: inventare simboli e contrapporre al materialismo incombente il piacere della libertà. Partendo dalla storia, compreso, finalmente, il rapporto con i suoi “Antenati”: il Barone rampante (o dell’Impero) Borea d’Olmo e quelli “di casa”: Mario, Quirino, Gio. Bernardo…recuperati di nascosto nella

loro dignità di “liberi muratori”.•

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