Dante era massone?
«O voi che avete gl’intelletti sani, Mirate la dottrina che s’asconde Sotto il
velame detti versi strani!»
[Inferno, IX, 61-63]
Ai tempi nostri qualche sbrigliato ingegno, frugando
dentro alla Divina Commedia pensò che Dante stesso, ghibellino e in fondo
nemico dei papi, fosse ascritto a qualche setta segreta, anzi lo disse,
senz’altro, massone, o almeno assertore e vate di concetti massonici. E perciò
non è fuor di luogo dar posto qui a uno studio abbastanza ingegnoso che apparve
nel 1888 sulle colonne della «Rivista Massonica».
Lo riportiamo: «Ora che gli studi danteschi, specie per l’opera di illustri
uomini, tra i quali non secondo il Fratello Giovanni Bovio 33 ∴, sorsero sotto un aspetto novello di pensiero libero
e nazionale, abbandonate le questioni puerili di grammatica e di retorica, ho
voluto anche io spendervi una parola. E ho scelto il difficile tema di «Dante
massone» perché voglio appunto mostrare che, se alcuni si sono ingannati nel
credere Dante massone, pigliando mosse e ragioni dalla metrica e da certe
qualità puramente esteriori di alcuni luoghi della «Commedia», alcunché di
massonico presenta l’Alighieri, a chi lo studi con intelletto d’amore e con animo
scevro da preconcetti.
Essi dicevano: I versi sono rimati per terzine; le
cantiche sono tre, ognuna di 33 canti – l’altro è il proemio a tutto il poema –
l’Inferno è diviso in tre parti principali e in 21 gironi – numero massonico,
che ha per fattori tre e sette. – La prima parte, incontinenza, comprende tre
classi intermedie (poltroni, virtuosi non battezzati, eresiarchi) e sei cerchi.
La seconda parte, malizia, si divide in tre classi di violenti, e insieme alla
terza parte forma tre altri cerchi; in tutto nove cerchi.
E non è Dante massone? Pigliata la rincorsa, giù per la china.
A nove anni si innamora di Beatrice; questa, Lucia e Rachele, sono le tre donne
gentili; tre sono le terzine scritte sulla porta dell’Inferno: nel canto IV è
un nobile castello, che è sette volte cerchiato di alte mura e ha sette porte,
e Dante stesso, nel Convito, disse che le virtù sono sette: nel canto V da tre
specie di uccelli il poeta trae le più belle similitudini, e di tre specie di
amore parla Francesca da Rimini; Cerbero «Caninamente con tre gole latra».
Nel canto VI, tre cose vuol sapere Dante dal suo
concittadino Ciacco, e Ciacco tre risposte gli dà. E così a non finirla mai per
tutto l’Inferno. Ma non basterebbe per tutti il canto XXXIV, dove è Lucifero
che per tre bocche maciulla tre traditori e piangendo per sei occhi, con
quattro ali muove tre venti? E del Purgatorio non basterebbe dire che i cerchi,
senza il Paradiso Terrestre, sono nove, e nove sono i cieli del Paradiso senza
l’Empireo? Dante è dunque massone. Ma le forme e le figure numeriche nulla
dicono, quando il pensiero non l’eterna.
In Dante non si hanno a ricercare le espressioni oscure, gli acrostici e le
allusioni, quando una ragione giusta non vi si scopra. Il libro di Dante è come
la Bibbia; gli atei e i credenti vi trovano largo cibo, e abbondante ve ne
trovano guelfi e ghibellini e forse anche monarchici e repubblicani. Ma il
giudicio dei posteri s’ha da fermare su questo: quale è la parte che avanza?
Che cosa rimane? Un ateo o un credente, un guelfo o un ghibellino, un
monarchico o un repubblicano?
Così Dante, dissero alcuni, è massone: Dante, risponde la storia, massone non
fu mai; ma il giusto giudicio domanda: può trovarsi qualche cosa in Dante che
ci dica: egli mai fu massone, ma da massone in parte pensò e scrisse?
Il Prof. Giuliani diceva che, tra mille italiani, forse uno solo aveva letto la
Commedia dal principio alla fine. Ciò non sembri esagerato. Per Dante può dirsi
come per Giordano Bruno: tutti oggi ne parlano, ma pochissimi ne conoscono le
opere. La lettura del poema divino, per quanto bella, utile, necessaria,
diventa grave. Non si tratta di ammirare le pitture vivissime di Francesca, di
Farinata, di Ugolino, di Pia, di Sordello, ma bisogna anche intendere i
ragionamenti del Poeta, ora filosofici, ora rivolti alla politica dei suoi
tempi tenebrosi; bisogna scoprire il significato che si nasconde «Sotto al
velame de li versi strani».
E molti luoghi di Dante non si mostrano fulgidi di
verità, se non a chi vi torna su e li studia attentamente. Se gli studiosi
mancano, potranno aversi i lettori? Tra i massoni vi hanno molti studiosi e
molti lettori di Dante?
La Curia Romana non tarderà a rispondere a suo modo alla Protasi di Dante; ma
se un prete domandasse a un Massone: credi tu che Dante possa opporsi come
precursore del Rinascimento a Tommaso d’Aquino, che fondò la «Summa teologica»,
sulla materia vecchia del Medio Evo? Massone risponderà sì, ma, al redde
rationem, molti si troveranno a disagio. Ora noi tutti dobbiamo aver
coscienza di noi e di ciò che diciamo.
In Dante e negli scrittori del Rinascimento sono le ragioni dell’essere e del
divenire nostro, essere che non è grande, ma potrebbe dar fondamento a un
avvenire forte e glorioso. Che tutti i Massoni sappiano, almeno per via di
conferenze, qualche cosa intorno a Dante, che non sia un commento grammaticale
o letterario, mi pare – non perché mia – ottima idea, e spero che altri voglia
seguirmi su questa strada.
E mi spiego: ma è necessario prima uno sguardo al commento analitico di G.
Rossetti.
Dice il Rossetti: «Virgilio non è la filosofia, ma il filosofo politico, il
ghibellinismo che guida Dante Ghibellino, la sapienza politica dell’Impero. La
selva è Firenze, piena di guelfi sono i morti; i vivi sono i ghibellini. La
Lupa è la Chiesa, la Lonza Firenze, il Leone il Re di Francia. Lucifero è il
Papa, capo del guelfismo. Così la Commedia diventa un poema politico
esclusivamente. Anzi un poema sulla monarchia, perché Dante lasciò scritto per
la sua tomba: «Jura Monarchiae cecini».
Ecco la chiave che scioglierà tutti i segreti finora rimasti oscuri di quel
capolavoro di poesia e di arte; e non solo di esso, perché tutte le poesie un
po’ difficili, tutta la letteratura del tempo di Dante, che ha dato tanto da
studiare ai più grandi ingegni, ne avrà luce di verità. I ghibellini erano una
setta, e parlavano un gergo settario; i loro catechismi si trovano nei
Documenti di Amore e Reggimento e Costumi delle Donne di Francesco Barberino;
esempi se ne riscontrano in tutti quelli che scrissero leggiadre rime di amore.
Perché i Ghibellini, non altrimenti che i Massoni, si parlavano amorevolmente,
e avevano un capo che era chiamato duce o maestro; il Venerabile, secondo il
Rossetti, sarebbe stato Guido Guinizelli: «[…] il padre «mio e degli altri miei
maggior, che mai «Rime d’amore usar dolci e leggiadre,aveva detto Dante col
rispetto che in ogni setta va dovuto al capo.
Com’è provato questo? il Rossetti non lo dice, ma poiché egli crede di sapere
che Impero, o meglio Arrigo VII, si chiamava Iddio, che per amore si intendeva
desiderio di governo imperiale, e i Ghibellini si chiamavano donne e tra queste
la più eccelsa era Beatrice (la monarchia), speranza dei vivi (bianchi), e nemica
dei morti (neri), il forte Bardo abruzzese crede di aver soluto tutti gli
enigmi misteriosi di quella letteratura eminentemente allegorica, che fu la
letteratura del trecento. Ma prove egli non dà, e il tentativo deve essere
perdonato, perché venuto da un uomo che molto scrisse e molto soffrì per la
patria nostra.
Quel tentativo però, intuito nel suo giusto valore dal Bovio, ha questo di
buono: considera Dante come Poeta Ghibellino. Dante è cristiano, non cattolico;
è il primo poeta civile italiano, il primo filosofo laico.
“Donne ch’avete intelletto d’amore”(Dante
,Vita Nova ,cap. XIX )
Così Dante, dal brutto nome di vuoto accozzatore di
versi settarii, sale a dignità di pensatore, di poeta, di filosofo. Rossetti,
interpretando troppo alla lettera alcune parole del filosofo, gettò su Dante,
mentre credeva di innalzarlo, l’onta del riso e della dappocaggine.
Il Rossetti tentenna, però. Un concetto nuovo, originale e ardito gli è sorto
in mente, teme gli sfugga, e, per tenere dietro a questo, non bada ai mali
passi; di qui le inesattezze e le contraddizioni. Ciò avrà influito a far
dimenticare quel commento, che pur racchiude in sé moltissimi pregi, e ha spiegazioni
utili anche oggi. In certi punti tu credi almeno che il Rossetti sia il più
mortale nemico del papato, un commentatore massone, dirai; ma ecco egli si
dichiara fervente cristiano, e desidera alcuno che lo convinca sull’innocenza
di Clemente V. Egli, che chiama il papa principe dell’Inferno, con apertissimo
animo loda papa Celestino.
«[…] colui «che fece, per viltade, il gran rifiuto. Egli, che ripete sempre e
insiste e prova che la Commedia ha significato solamente allegorico, si ricrede
e dice che erreremmo, se in tutto il poema volessimo sognare allegorie. Egli,
che commenta Dante, lo biasima perché ha messo nel fuoco Niccolò III e altri
papi e vi aspetta Bonifacio VIII e Clemente V.
Ma del commento qualche cosa pur rimane. Dentro il gran monte, che sorge
nell’isola di Creta, e fu scelto da Rea per «[…] cuna fida «Del suo figliuolo
[…] «Sta dritto un gran veglio «Che tien volte le spalle in ver Damiata, «E
Roma guarda sì, come suo speglio. «La sua testa è di fin oro formata, «E puro
argento son le braccia e il petto,
«Poi è di rame infimo alla forcata. «Da indi ingiuso è tutto ferro eletto,
«Salvo che il destro piede è terra cotta, «E sta in su quei, più che in
sull’altro, eretto. «Ciascuna parte, fuorché l’oro, è rotta,
«D’una fessura che lagrime goccia». Questo gran veglio è, secondo il Rossetti,
immagine della monarchia attraverso ai secoli. A chi guarda esso come suo
speglio? A Roma. Ma il colosso, badate, ha il piede destro di argilla, e sopra
di esso poggia più che sull’altro. Non sarà facile atterrare simile colosso?
Una pietruzza scagliata da un Ghibellino non farà crollare l’inumano gigante
nella polvere? La monarchia, attraverso i tempi, si è andata man mano
corrompendo; prima oro, poi argento, poi rame, poi ferro, poi creta. La creta è
fango; l’impero è diventato un po’ di fango; non è ufficio della Massoneria
spruzzare l’acqua e lavarne l’umanità?
Lo stato Assiro fu di oro, il Medo di argento, il Persiano di rame, il Romano
di ferro; durante il Medio Evo e i tempi moderni che cosa è diventata
l’autorità imperiale? fango vi dice Dante da sei secoli, fango, perché, come
l’argilla, è segregato in parti vili e minute, le quali non hanno forza e non hanno
valore. «Quel duplice poter (dispotismo e monarchia rappresentativa) dice il
Rossetti stesso nei suoi canti:
«Quel duplice poter, che ottenne lode «D’aver prodotto il ben dell’universo, «Fatto
è congiura ornai di forza e frode». La Massoneria ha da distruggere il fango e
la frode. La testa solamente non è intaccata e non goccia acqua: quella testa
sarà la Massoneria, la quale sposerà tutta la famiglia umana nei tre patti di
libertà, uguaglianza, fratellanza, che formeranno nel complesso una sola e
formidabile autorità.
Ma andiamo oltre nell’allegoria, guidati sempre dal commento analitico del
Bardo abruzzese. Il gran colosso è vecchio – gran veglio – dunque, l’impero è
divenuto vecchio: bisogna rinnovarlo, è un secolare mastodonte; ma è vecchio
decrepito: prepariamogli la bara.
Non basta. Il figlio di Rea, cioè il figliuolo della terra, «[…] tien volte le
spalle in vêr Damiata «E Roma guarda sì, come suo speglio»,
Che cosa è questa Damiata? è una città dell’Egitto, sul Nilo. Nell’Egitto,
secondo Dante, ebbe culla la monarchia, col regno di Osiride, marito di Iside,
che fu chiamata anche Rea. Ecco un impero di origine massonica; il quale,
venuto in grandezza, volge le spalle a Damiata, luogo di sua origine, «E Roma
guarda sì, come suo speglio». Roma dovrà esser la sede dell’impero massonico. E
Roma non diverrà capitale di una monarchia universale, fine ultimo della setta
dei Ghibellini, se la sede dell’impero temporale e la sede dell’impero
spirituale non saranno in essa distrutte. Virgilio parla solamente della Lupa e
da essa difende Dante; il filosofo politico lo salva dal Guelfismo. Salvandolo
dalla Lupa, veniva a salvarlo dal Leone e dalla Lonza, alleati di quella. Qui,
una digressione che è un monito. Se vogliamo assorgere a libertà umana e unirci
in una sola, indipendente fratellanza, dobbiamo prima disfarci della Lupa, che
è il papato: gli altri tiranni cadono con essa. Quando le coscienze sono
vincolate dal misticismo, libertà di coscienza e libertà di nazione – che si
risolve poi in libertà universale – non si avranno mai.
Quando Giovanni Bovio, dice che è follia sperare in una conciliazione, e che il
papato non transige mai, ha forse torto? Gli dà ragione Dante:
«Non lascia altrui passar per la sua via, «Ma tanto lo impedisce, che
l’uccide». Il grande Ghibellino fu profeta, «Non lascia altrui passar per la
sua via». Lasciò passare le teorie degli umanisti, del Galilei, essa che
condannò ultimamente quaranta proposizioni dello stesso Rosmini?
«Ma tanto lo impedisce, che l’uccide». Non furono uccisi Arnaldo, Bruno,
Savanarola, e altri e altri? Non fu torturato Galilei? Chi, dunque, definì
primo ed egregiamente la natura della Lupa, che è la Chiesa cattolica? Dante in
pochi versi, che sono una condanna eterna.
Se noi siamo i nemici delle superstizioni, delle credenze della metafisica,
della furberia e avarizia dei preti, noi dobbiamo amar Dante, che ce ne svela
la morbosa natura. E se questo è uno degli scopi della Massoneria, perché non chiameremo
Dante Massone?
L’Inferno è l’Italia guelfa, il capo dell’Italia è il Papa, dunque capo
dell’Inferno è il Papa – dice il Rossetti, e spiega le parole di Pluto:
«Pape Satan, Pape Satan Aleppe», così: il capo dell’Inferno è Satana, ma Dante
intende per esso il papa, dunque il papa è Satana. Più tardi mostrerà che
è Lucifero. I Latini danno gran forza a una particella, e un semplice dativo
talvolta sottintende tutta una proposizione. Invece di pape, deve leggersi
papae: Alepp in ebraico vuoi dire principe e, come di Joseph si è fatto
Giuseppe, così di Alepp si è fatto Aleppe; perciò il verso:
«Papae Satan, papae Satan Aleppe» si
spiega: «Al Papa Satana, al papa Satana Principe» questo impero è sacro:
oppure, senza latino e per elisione: «Pap’è Satana, pap’è Satana Principe». Cioè
il Papa, che vuol per sé il dominio temporale, è il capo dell’Inferno; come
tale il Papa si macchia delle più gravi colpe, e tutti i vizi sono nella sua
natura di Lupa. «Venditur hic Christus, venduntur dogmata Petri; «Ast, ne venda
ego, perfida Roma, vale» (Qui si vende Cristo, si
vendono gli insegnamenti di Pietro;“Ma, per non essere
venduto, Roma traditrice) esclamò un pio Romeo che si era
portato in Roma; dallo spettacolo nefando di quella Curia, in Lutero nacque
scintilla della ribellione; e le nefandezze della Curia Romana ha combattuto in
tutti i tempi la Massoneria. Ma che cosa rimane di Dante, che sia scuola a noi?
Giovanni Boccaccio, sul finir della vita del nostro poeta, narra un sogno che
la madre di Dante ebbe prima di partorire. La gentildonna, seduta presso una
fonte, all’ombra di un altissimo alloro, si sgravò di un fanciullo, il quale,
mangiando le orbacche cadenti dall’alloro e bevendo all’acqua della fonte, in
breve tempo diventò un gran pastore; ma, desideroso delle fronde dell’alloro,
mentre si sforzava di averne, gli pareva di cadere, e di mutarsi improvvisamente
in bellissimo pavone.
Il primo novellatore di Firenze spiega il sogno così.
L’alloro è l’albero di Febo, delle cui fronde i poeti usavano coronarsi, e
Dante fu altissimo poeta.
.
Le orbacche sono i libri poetici e le loro dottrine, dai quali trasse tanti insegnamenti
l’Alighieri. Il divenire subitamente pastore vuol significare l’eccellenza a
cui giunse Dante in breve tempo. Ma i pastori possono essere di due specie:
corporali e spirituali; per corporali si hanno a intendere i guidatori di
pecore e i padri di famiglia; per spirituali i prelati da una parte, i
predicatori e i sacerdoti, dall’altra parte gli studiosi i grandi dotti e gli
scrittori, i quali col sapere educano gli animi e gli intelletti degli
ascoltanti e delle genti. A questa specie di pastori appartiene Dante. Il
pavone ha quattro proprietà naturali, delle quali una che la carne ne è
odorifera e incorruttibile; e Dante scrisse la Commedia, la quale, per
significato morale o politico, è semplice e immutabile verità, e questa non
solamente non si corrompe, ma, quanto più si gusta, più porge soavissimo odore.
Dante dunque è per noi. Egli non fu pastore delle greggi, non della famiglia,
non della Chiesa, ma dell’umanità, e imbandì un convivio, non solamente agli
uomini, ma ai fanciulli e alle femmine. E la Commedia, perché eterna, è della
Massoneria, che ha ideali universali e immarciscenti.
Qualche ultimo esempio vi mostrerà chiaramente che, se Dante non fu Massone,
gli intendimenti suoi, però, sono intendimenti massonici.
Il Prof. Bovio vi dice: Il veltro è Dante, perché la missione di Dante è
inseguire la Lupa per le città d’Italia. Gabriele Rossetti vi dice: Il veltro è
Can Grande, e Can Grande era un Ghibellino nemico della Corte Romana, centro
del Partito Guelfo. Come conciliare le due interpretazioni? Tolto Dante, tolto
Can Grande, resta il Ghibellino di fronte ai Guelfi: ecco il certo che non può
venir messo in dubbio. Sarà Dante, sarà Can Grande? Io non c’entro: mi basta
sapere dai due chiari scrittori che il veltro è un Ghibellino, che ha da inseguire
i Guelfi. Ecco il Massone. Il ghibellino contiene non solamente l’idea di
un uomo politico, ma di un nemico della Chiesa: la Massoneria ha anch’essa un
ideale politico e un ideale di religione che non è il cristianesimo cattolico.
Nel veltro, quindi, è il Massone; e se il veltro è Dante, Dante è Massone del
veltro sui guelfi d’Italia; il Rossetti passa oltre: il veltro non avrà
solamente nazione fra feltro e feltro, ma «Di quell’umile Italia fia salute»,cioè
rivendicherà il Lazio all’Impero. Non è quindi, a mio credere, opposizione
semplice alla Curia Romana, ma è distinzione di essa, è sua sottomissione di
schiava allo stato laico. Che mi prova in contrario l’ascetismo di Dante, e la
Vergine Madre, e i Santi, e Dio, se Dante non è cattolico? Se questo luogo
principalmente è la più grande affermazione dei diritti civili sull’autorità
papale?
Il prof. Bovio ha detto una cosa nuova: il veltro è Dante. Se voi domandate a
lui: risulta proprio dai versi di Dante nel Canto I, dalle risposte di
Virgilio, dal «Cinquecento dieci e cinque», dal canto XVIII del Paradiso e da
altri luoghi del poema che il veltro è Dante? Egli sorridendo vi risponderà di
«no». Ma se voi direte: l’opera del veltro, è opera di Dante? Egli vi rimanderà
alla sua «protasi».
Che cosa si propongono i Massoni? Voi tutti lo dovete sapere. Che cosa si
propone il veltro?
Cacciare d’Italia il malnato partito guelfo, fugare la Lupa che è la Chiesa. E
non è Dante Massone? A Firenze, a Pisa; a Livorno, a Genova, nelle Romagne,
nelle Puglie, fuoco distruzione, rovina; non è il Poeta, ma è il veltro
.
Ecco lo scopo della mia conferenza. Dante risorge a nuovi studi: sarebbe un
obbrobrio se i Massoni non facessero qualche cosa per Dante anch’essi, se non
conoscessero Dante. A Roma è una cattedra; noi della Valle del Sebeto non
possiamo assistervi; e dovremo, perciò, rimaner privi dei salutari frutti che
da quel luogo s’imbandiranno? Se gli Italiani hanno il dovere di studiare Dante,
nei Massoni il dovere cresce e si fa bisogno. Dante riaffermerà in essi
gl’intendimenti nobili, Dante li salverà dalla bassa gora d’intrighi, di
superstizioni, di tentennamenti, di occasionismo, di maldicenza, che d’ogni
intorno ne circonda e ne appesta di triste aria malsana. Dante è la nostra
salvezza. Il veltro fugava la Lupa e invocava la morte sui Guelfi d’Italia: lo
sdegno del veltro non può cessare. La Sicilia, culla, col napolitano, di
rivoluzioni, di spiriti impazienti e ribelli, tace. Ha un poeta civile, ma è
solo; gli altri sono novellatori di contadini e di marchese.
Napoli vanta uno dei più alti, dei più sodi ingegni italiani, Giovanni Bovio;
ma quanti pensano come lui? e quanti lo seguono? o meglio, il pensiero del
filosofo è divenuto tutto una cosa con la vita privata del popolo? Voi potete
rispondere che in Napoli vedete forte e preponderante il partito clericale, a
migliaia le edicole per le vie della città, tenaci i pregiudizi, non dileguate
le astruserie metafisiche, e uno spirito d’ambizione, di egoismo, di guadagno
che sale, sale, sale dal fango e copre anche quelli che si dicono liberali e
nati a liberi sentimenti. Roma riposa sulla sua grandezza secolare: è un
monumento così grande che scuoterlo è difficile. Da Roma potrà partire il
«Verbo» del Ghibellino, ma Roma non sarà agitata così facilmente; è un colosso
che, a smuoverlo occorre una forza da colosso. Sì, basta questo; nella città
universale, e che dovrebbe essere la città massonica per eccellenza, vive
ancora e regna sulle coscienze il più tenace, il più terribile tra i ministri
di tutte le furberie religiose. Finché il Papa non andrà via da Roma, la
Massoneria non potrà vantarsi di un suo vero e primo trionfo. Esso «[…] ha
natura sì malvagia e ria« Che mai non empie le bramose voglie»; esso è la
«bestia», che dà noia e impedisce di salire al «dilettoso monte». «Firenze vive
la vita oziosa di una damigella, che, se non è prostituta, neppure potete dire
che è onesta: Firenze, che fu patria di Dante, e che più delle altre ha obliato
Dante. Le Romagne non sono più quelle di una volta; i cittadini sono pieni
d’audacia e compresi di alto sentire; ma, chi li dirigerà, quando un simpatico
vecchietto avrà terminato il corso della sua vita? Genova ritorna ai commerci.
Venezia attende alla marina militare e agli amori voluttuosi. La Lombardia vive
un po’ più italianamente e può dirsi centro promettitore di bell’avvenire; ma
deve ancora liberarsi dalle unghie della consorteria, che fu tra le più brutte
piaghe d’Italia. Il Piemonte, caro alla dinastia Sabauda, risente gli effetti
del privilegio. In Trieste e Trento un partito generoso di giovani che anelano
al nome d’Italiani; ma i mezzi mancano e le forze e gli aiuti da noi promessi e
da loro sperati non giungono mai. Vi pare quindi che l’Italia sia fatta? Vi
pare che, finché camminerà per le vie un prete, potremo dirci veramente
Italiani? Vi pare che se tanta superstizione, tanta credenza fondata sul
lucrismo non si sperda, l’opera della Massoneria possa arrestarsi? E vi pare
che il veltro di Dante possa star fermo? I tempi l’hanno legato come Cerbero;
latra, si muove, si agita, freme; ma non cammina mai, e il fuoco, la
distruzione, la morte non li porta in nessun luogo, perché non può dare un
passo. Scioglierlo: ecco il da fare. E come si scioglie? Interpretando Dante,
che volle e che deve compiere la missione del veltro».
Giovanni Bovio, che assisteva alla lettura di questo studio, domandò di
parlare. Lodato il bel discorso del giovane parlatore e ringraziatolo delle
gentili parole a lui rivolte, incoraggiò gli altri a darsi a simili
investigazioni, anzi propose proprio che, in sedute massoniche, si dicesse
qualche cosa intorno a Dante, che non fossero la retorica e le quisquilie, onde
è infestata tutta la letteratura moderna. La cattedra di Dante a Roma non fu
capita; non si trattava di una cattedra che spiegasse Dante, ma di un pensiero
laico italiano messo di fronte alle dottrine cattoliche. Il genio italiano è eminentemente
laico; ciò egli disse, ciò egli sostenne; e quel genio si riafferma
potentemente in Dante Alighieri: il tipo del pensiero italiano non è la
sdolcinata poesia del Petrarca: ma il robusto concetto del Poeta, che non piegò
mai la fronte e nell’Inferno pose papi, amici, maestri. Carducci diceva: Dante
è del Medio Evo. No, Dante è del Rinascimento. In lui c’è codice nuovo, e
materia vecchia: ma non è della materia che dobbiamo occuparci.
Quando il Papa dirà: Vedete, c’è San Tommaso; noi risponderemo: c’è Dante.
E a proposito di questa lettura e dei commenti del Bovio, un altro fratello
della Loggia Bolognese aggiunse le seguenti considerazioni:
«Con molto piacere ho letta la bellissima conferenza, su «Dante Massone»; tema
svolto con rara maestria; e l’ho letta con soddisfazione perché risponde a un
mio antico intimo convincimento: l’idea che Dante possa essere stato Massone. «Alcune
cose dette dall’egregio conferenziere io avevo notato nella «Divina Commedia» e
più delle altre mi colpiva questo, che mi sembra sia cosa di molta importanza,
cioè, mentre Dante si fa spiegare da S. Pietro e S. Giacomo la «Fede» e la
«Speranza», mette la «Carità» in bocca a S. Giovanni: «Questi è colui che
giacque sopra il petto «Del «Nostro Pellicano», e questi fu e
«Di su la croce al «Grande Ufficio» eletto. «Ora sappiamo che la Carità è una
virtù eminentemente massonica e S. Giovanni è stato ab origine uno dei maggiori
patroni dell’Ordine. «Nelle parole del «nostro Pellicano» e «al Grande Ufficio
eletto» io vedo un’allusione che mi sembra davvero non abbia bisogno di essere
illustrata». Ritorniamo alla storia. Gli Albigesi, i Catari e altre sette
derivate dagli Gnostici e Manichei, praticavano una cerimonia che si denominava
«Consolamento»: si impartiva imponendo le mani sul capo. Questo Consolamento, o
battesimo dello Spirito Santo, si concedeva solo agli adulti; rimetteva i
peccati, comunicava lo spirito consolatore e procacciava eterna salvezza. La
cerimonia, una specie di iniziazione, si faceva dai vescovi, scelti fra i
perfetti, mentre i credenti, o semplici iniziati, costituivano la massa dei fedeli
o dei consolati. Dopo l’abluzione delle mani e una preghiera rivolta a Dio
perché avesse compassione dello spirito incarcerato, il Vescovo posava i
vangeli sul capo dell’iniziando, ripeteva sette volte l’orazione domenicale e
gli dava in ultimo il bacio di pace. A ricordo della sua iniziazione il
fratello consolato riceveva «quoddam filum subtile, lineum vel laneum, pro
habitu quem portat supra camiciam»; le consolate «cordulam cinctam ad carnem
nudam subtus mamillas».“(un vestito di filo
sottile, di lino o di lana che indossa su una camicia”;conforta “un cordino
circondato di carne nuda sotto i seni”) I Catari si dissero anche Patarini,
dei quali nella valle di Sesia fu maestro o capo o vescovo il celebre Fra’
Dolcino, che, vinto sul Rubello, fu poi arso vivo con la sua donna, la bella e
infelicissima Margherita. Altre molte denominazioni assunsero a seconda dei
luoghi nei quali poterono prolificare; furono dovunque e sotto qualsiasi nome
ferocemente perseguitati da papi e principi, tanto che, un po’ per le dottrine
loro, un po’ per la stravaganza delle forme e dei riti, perdettero di forza e
di credito; però lo spirito eretico rimase e si perpetuò in molte ramificazioni
del tronco Albigese e non cessò la continua e fiera protesta contro le
corruttele ecclesiastiche e si preparò e si intensificò il moto anticattolico
dei tempi moderni. Anche nel seno della Cavalleria non è improbabile si
formassero associazioni segrete.
I poemi cavallereschi spesso parlano del Vaso misterioso o San Graal, che i Cavalieri, sul tipo di Parsifal e di Lohengrin, custodiscono nel castello di Monsalvato. Ma il vaso è forse un simbolo, emblema del desiderio di ricondurre la Chiesa cristiana ai primi tempi della sua purità. Alla Tavola Rotonda, figura perfetta nella quale non sai chi sia primo e chi ultimo, sedevano solo i Cavalieri di alta rinomanza: essi armati di lancia, di spada a due tagli e di usbergo, che forse simboleggiarono la parola, il linguaggio bisense e la purezza della coscienza e della fede, correvano per giostre e tornei a difesa dell’innocenza perseguitata. Il Petrarca vi allude in quella terzina del «Trionfo d’Amore»:
«Amerigo, Bernardo, Ugo ed Anselmo E mille altri ne
vidi, a cui la lingua Lancia e spada fa sempre e scudo ed elmo». Sembra che anche i
Cavalieri avessero gradi e prove di iniziazione attinte alla Chiesa Albigese.
Il primo dei gradi era quello di Paggio; il secondo quello di Scudiero, il
terzo, o perfetto, quello di Cavaliere. Si davano anch’essi il bacio fraterno
«osculum fraternitatis». Alla Cavalleria
in campo opposto facevano riscontro le società religiose, delle quali il
ragionare ci porterebbe al di là dei confini che ci siamo assegnati. A 21 anni
l’iniziando alla Cavalleria si disponeva a ricever l’ordine con digiuni e
penitenze: faceva la veglia d’arme, cioè passava una notte pregando, udiva poi
un lungo discorso sopra i doveri del Cavaliere. Prima dell’iniziazione doveva
purificarsi in un bagno.
Il Redi narrando dell’ordine della Cavalleria conferito in Arezzo, a spese del
Comune e del popolo, a Ildebrando Giraserca, scrive così:
«Questi cotali Cavalieri, quando si fanno cingere la spada della Cavalleria, si
bagnano in prima affinché menino novella vita e novelli costumi; vegliano la
notte, che sono bagnati, in orazione, domandando da Dio che per grazia doni
loro quello che manca loro dalla natura. Per mano di Re o di Principe son fatti
Cavalieri novelli, affinché da colui, di cui debbono essere guardiani, ricevano
la dignità e le spese. In loro deve avere: sapienza, fedeltate, liberalitate,
prodezza, misericordia, guardia dei pupilli, zelo delle leggi, affinché quelli
che sono armati di armi corporali siano splendenti di costumi: perocché quanto
la dignità dei Cavalieri avanza gli altri in riverenza e in onore, tanto denno
eglino più risplendere di costumi e di virtute, e soperchiare in ciò le altre
persone».
Uscendo dal bagno, l’iniziando era vestito di bianca tunica, simbolo di
innocenza, di una roba vermiglia, emblema del sangue che doveva versare e di un
nero giubbetto, che gli ricordava la sua mortale dissoluzione «in pulverem
reverteris». Poi era condotto innanzi all’altare con la spada appesa al collo:
il sacerdote gliela benediceva sospendendogliela al collo di nuovo, quindi si
inginocchiava e colui, che doveva conferirgli la Cavalleria, gli chiedeva:
Perché vuoi entrare nell’Ordine? Per arricchire? Per riposare? Ne sei indegno,
vattene. Ma lo scudiero prometteva e giurava di ben osservare i propri doveri e
dopo ciò, o dai padrini o dalle dame, riceveva le nuove divise, gli sproni,
l’usbergo, la corazza, i bracciali, le manopole, l’asta e la spada. Si dava poi
al nuovo Cavaliere un piccolo colpo sopra la guancia – uso tolto dal sacramento
della Cresima – e talora tre colpi col piatto della spada sulla spalla o sulla
nuca, pronunciando le parole: «In nome di Dio, di S. Michele e di S. Giorgio ti
faccio Cavaliere: sii prode, coraggioso e leale». I Cavalieri obbedivano a
leggi di cortesia anche in mezzo agli orrori delle battaglie: non dovevano
combattere in più contro meno, né con armi superiori, né con incantesimi o
sortilegi; non dovevano colpire di punta, né ferire il cavallo; sacra dovevano
aver qualunque promessa; non vantare le proprie e pubblicare le prodezze dei
loro compagni; facendo un voto, non posare finché non lo avessero adempiuto:
taccia obbrobriosa quella di mentitore.