RIFLESSIONI SULL’EQUINOZIO

RIFLESSIONI SULL’EQUINOZIO

Se l’asse terrestre fosse perpendicolare al piano dell’orbita, il circolo d’illuminazione passerebbe per i poli e coinciderebbe in ogni momento con un circolo meridiano, tagliando in due parti uguali tutti i paralleli. In ogni punto della superficie terrestre il giorno e la notte avrebbero la stessa durata di dodici ore. Ciò accade però soltanto due volte nel corso dell’anno, nell’equinozio di primavera e in quello d’autunno. In entrambi, infatti, l’asse terrestre non risulta più inclinato verso il sole e quest’ultimo si trova ad essere esattamente perpendicolare rispetto all’equatore.

Gli equinozi costituiscono un momento di equilibrio tra il giorno e la notte, ma anche di profondo mutamento e, come vedremo, di oltrepassamento. In primavera, la natura e la vita rinascono, in autunno, invece, da un lato ci si dedica al raccolto e alla vendemmia, dall’altro ci si prepara ad affrontare i rigori invernali. La primavera rappresenta la fase dell’espansione, dell’apertura, l’autunno quella del ripiegamento, dell’interiorizzazione. Esotericamente parlando, in autunno l’iniziato, chiamato a vigilare costantemente sulla propria trasmutazione e a perseguire motivatamente il proprio percorso, deve rinvenire in sé le forze per opporre all’incalzare delle tenebre l’energia della luce.

Se è vero che in natura tutto è collegato e la realtà visibile, temporale, materiale, è espressione di un’altra invisibile, atemporale, spirituale, appaiono evidenti la complessità e la ricchezza del simbolismo equinoziale, con l’allusione alla congiunzione delle polarità estreme e all’illusorietà di una loro separazione.

Luce e oscurità, bene e male sono aspetti della stessa medaglia. Tutto e uno, come sostiene il Tao, ed e al di la dei contrari.

L’essere e il non essere si generano reciprocamente. Nel Tao,questa condizione viene raffigurata dal cerchio costituito dall’interdipendenza dei due principi dello yin e dello yang. Il primo è passivo, oscuro, nero. Il secondo, al contrario, è attivo, associato al cielo, luminoso, bianco. È l’interazione di questi due principi inseparabili a muovere il mondo. L’uno è illimitatamente contenuto nell’altro. Se osserviamo attentamente il circolo formato dalla sintesi di queste due polarità, noteremo un punto nero nella parte bianca ed uno bianco in quella nera.

Ogni essere”, scrive Lao Tzu, “si porta sulle spalle l’oscurità e stringe tra le braccia la luce”.

Se così stanno le cose, saggio è colui che si rende disponibile ad accettare la natura ritmica del mondo, l’altalenarsi dell’alto e del basso, dell’ascesa e della caduta, astenendosi dal forzare, manipolare, modificare il perpetuo movimento dell’evoluzione cosmica.

Come afferma Chuang Tzu, chi professa il vero senza vedere il  falso, l’ordine ignorando il disordine, non comprende nulla dell’universo e della natura reale degli esseri. E non a caso il Tao Te Ching consiglia di sapere osservare con lo stesso occhio il grande e il piccolo, il molto e il poco.

Nel ritualismo del vajrayana tibetano, il dorje o vajra, simbolo maschile della via verso l’illuminazione, e il drilbu, la campana che simboleggia il principio femminile, sono metafora del dualismo fenomenico che sarà estinto dall’acquisizione della retta comprensione del reale. Allo stesso modo, nel maithuna, coito cosmico del tantrismo shivaita, il lingam, il fallo perennemente eretto di Shiva, penetra in continuazione la yoni.

La stessa complementarità si riscontra in correnti filosofiche indiane come nel Samkhya o nello yoga, nel rapporto tra la ricettiva prakriti, sostanza primordiale, materia informe, e l’attivo purusha, essenza, principio formatore. Purusha è la luce della pura coscienza che è spettatrice del multiforme universo oggettuale costituito da prakriti.

Quest’ultima, dal canto suo, priva di coscienza, instancabilmente dispiega dinanzi al primo l’inesauribile spettacolo delle sue forme in continuo mutamento.

Lo yoga si prefigge di oltrepassare l’unione tra soggetto e oggetto dimostrandone l’illusorietà.

Chi s’incammina sulla via della liberazione deve realizzare in sé che i contrari si manifestano come tali solo se si è ancora inviluppati nel mondo condizionato.

Bene e male, luce e tenebre sono momenti della medesima unità, forme apparenti dal cui dualismo siamo chiamati a distaccarci. La vera negatività è data dalla non conoscenza, dall’ignoranza che ritiene reale ciò che, invece, è ingannevole. Bisogna rendersi conto che, come ha suggerito Jacob Boehme, l’abisso delle tenebre e vasto quanto il dominio della luce. Tra i due poli non c’è distanza ma compenetrazione. Non è un caso se nell’iniziazione chi si accinge a intraprendere il sentiero della retta conoscenza viene inizialmente rinchiuso in un ambiente oscuro. Se non ci immergiamo nella tenebra, come ci insegna Juan de la Cruz, non possiamo sperare di  raggiungere la vera luce.

È questo il senso del gabinetto di riflessione massonico, del Vitriol, del visitare l’interno della terra per rinvenire, rettificando, la pietra occulta. Da qui anche la simbologia del pavimento a scacchi del tempio che vuole indicarci come tutto scaturisca dall’intreccio dei contrari.

Per tornare più direttamente all’equinozio va, dunque, sottolineato come costituisca una sorta di paradigma, essendo simbolo di congiunzione del giorno e della notte.

L’equinozio d’autunno corrisponde all’entrata nella Bilancia, segno zodiacale che allude all’equilibrio e alla giusta misura di tutte le cose. Invita a superare ogni elemento divisorio, a perseguire la sintesi, a scendere in profondità imparando con umiltà dall’apparente declinare della natura, dall’ingiallire delle foglie, a vivere dinamicamente tra gli opposti.

In termini buddhisti ciò corrisponde all’equanimità, sapienza non discriminante, comprensione disinteressata, priva di attaccamento. L’equanimità è la dimensione determinante del sentiero interiore, consapevolezza non-giudicante, senza avversione o attaccamento. Quando la realizzeremo ci renderemo conto dell’origine interdipendente di tutte le cose.

Nel Samyatta Nikāya, Buddha è estremamente esplicito: «Il mondo si attacca all’esistenza e alla non esistenza. Tutto esiste, ecco un estremo. Nulla esiste, ecco l’altro estremo. Ma chi possiede la retta visione delle cose quali sono non afferma che le cose non esistono, dato che sono prodotte, ne che esistono, dato che periscono (…). Chi possiede la retta visione non e prigioniero delle proprie idee come la gente nel mondo. Chi non si attacca ai sistemi ne ricerca mere speculazioni (…) e libero dal dubbio e dall’inquietudine».

Occorre sviluppare una visione scevra da pregiudizi, che oltrepassi le esasperazioni dicotomiche, le false opposizioni per indirizzarsi alla piena comprensione di quella sensibile unità relazionale in cui siamo immersi.

Come ha scritto il maestro zen Dennis Genpo Merzel: Pensiamo che la vita e la morte siano fenomeni separati. Non pensiamo mai che siano la stessa cosa, perché non sarebbe razionale. Ma c’e un problema, un piccolo problema: la realtà non è razionale. La verità non è razionale. Razionale è solo la nostra mente. Siamo così egocentrici, cosi arroganti che vogliamo fare della realtà un concetto, ridurre la vita a una formulazione logica. Passiamo il tempo cercando concetti della  verità, ma la verità è ciò che rimane quando abbandoniamo tutti i concetti (…) Quando lasciamo cadere la mente dualistica e discriminante, quando rinunciamo a confini e ad etichette, tutto e cosi come e: continuamente mutevole, in movimento, frammischiato, inseparabile».

E Thich Nhat Hanh ci ricorda che «finche saremo prigionieri delle idee e dei segni, ne saremo accecati. Camminando al buio, non possiamo vedere la realtà per quello che è. Ma una volta liberi dalle concettualizzazioni (…) siamo simili a chi cammina sotto il sole di mezzogiorno, con una vista perfetta».

La via di mezzo è la via della comprensione non dualistica, dell’inter essere, della compassione che ci svela la coesistenza di tutti gli esseri, della chiara luce che sorregge la corretta visione.

È a questa comprensione che l’evento equinoziale ci sollecita insegnandoci come la natura sia correlata ad un altro piano di coscienza ed esortandoci a condurre un percorso di affrancamento dal fitto velo dell’apparenza, ad andare più in la, sempre più in la, verso quell’altrove che trascende le polarità

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