«Discorsi sulla solitudine»
di Claudia Filippi
Nella lingua inglese per dire che si è soli si usano due parole diverse:
ALONEe LONELY, che, pur essendo sinonimi, designano due realtà in cui il soggetto occupa un posto diverso. ALONE indica infatti l’essere soli in senso principalmente ontologico, riferito cioè all’essere fisicamente isolato dagli altri, mentre LONELY indica il sentirsi soli riferito al desiderio di compagnia.
C’è da aggiungere che l’aggettivo solo indica anche l’essere diverso dagli altri e in questo senso definisce un aspetto particolare della solitudine.
Essere soli, sentirsi soli ed essere diversi sono dunque i tre volti che
può assumere la condizione che chiamiamo solitudine.
Di fronte a un tema così complesso e affascinante, così coinvolgente e sentito, ci si pone l’interrogativo dell’ottica con cui trattarlo: la letteratura, la filosofia, la sociologia offrono spunti interessantissimi sull’argomento; la solitudine del bambino, dell’adolescente, del giovane,
dell’anziano e nella coppia forniscono altrettanti punti di vista del problema. Dal punto di vista psicologico, molti sono gli autori che hanno scritto sulla solitudine, molte sono le interpretazioni date a questo fenomeno, ma pochissime sono le ricerche sistematiche e anche
queste ultime non hanno portato a conclusioni definitive per ciò che riguarda una conoscenza effettivamente scientifica del fenomeno.
Non potendo fare riferimento diretto a tutti gli autori, si propone una sintesi personale delle teorie psicologiche sulla solitudine. La solitudine come fenomeno psicologico dell’esistenza può essere distinta in due dimensioni in diretta antinomia di funzione.
La prima dimensione è la solitudine del tipo mistico-meditativo, quella
che ci fa scoprire noi stessi e i nostri limiti, a funzione positiva, la soluzione augurabile ad ogni essere umano perché gratifica e fortifica,
perché è componente essenziale di una esistenza piena e felice.
La seconda dimensione è la solitudine del tipo drammatico, quella che ci fa sentire persi e impotenti e incapaci di comunicare, quella che ci dà l’angoscia, quella che viviamo ogni volta che ci sentiamo incompresi, indesiderati, rifiutati dall’altro: questa è a funzione negativa, detronizza le capacità relazionali dell’individuo, è la componente principale della infelicità.
La solitudine come dramma scaturisce il più delle volte dalla relazione
con gli altri, i quali ci possono dare conferma desiderandoci o ci possono negare, rifiutandoci.
Innescando, in questo ultimo caso, la spirale interiore del sentirsi non
desiderato, frustrato e, di conseguenza, solo e perso nel mondo.
Le relazioni sociali sono come l’aria che si respira: possono riempire i polmoni di energia se si manifestano in un clima di accettazione e di calore, ma possono farci morire di asfissia se si manifestano nel rifiuto e nella freddezza interpersonale.
Questa è quella che si può definire solitudine sociale, quella dimensione della solitudine che può essere indagata osservando le relazioni interpersonali e rilevando come queste influiscono sulla solitudine stessa.
Tale solitudine sociale sembra si manifesti quando l’individuo non
riesce ad entrare in EMPATIA con l’altro.
Empatia nel doppio senso di empatia cognitiva: il sentirsi in sintonia con l’altro perché capiti, compresi e a lui vicini a livello intellettuale quella cognitiva; e il sentirsi in sintonia con l’altro perché desiderati e desideranti il contatto interiore ed elettivo quella affettiva.
Mi pare che i due tipi di empatia siano in stretta relazione tra di loro e l’uno influenzi l’altro e che ambedue possano essere appresi e modificati,
per una buona percentuale della loro totalità.
Si può cioè imparare tecnicamente a gestire tutte le forme di linguaggio intercorrenti nella comunicazione interpersonale in modo da esprimere empatia e mettere a proprio agio la persona che ci sta davanti. Strategia questa che, in genere, ottiene dall’altro, il quale si sente compreso e accettato, un feed-back spontaneo di disposizione positiva alla comunicazione e conseguente empatia.
Anche in terapia quando si agisce in modo da attivare un dialogo empatico, accrescente l’autostima dell’individuo in difficoltà, questi, grazie all’incremento della stima nelle proprie capacità, modifica il proprio atteggiamento relazionale, riuscendo lui stesso a manifestare una comunicazione che fa sentire l’altro compreso-accettato come persona; quest’ultimo, a sua volta, reagirà più o meno in modo analogo e conseguente; e così via.
Si innesca in questo modo una spirale relazionale di rinforzi positivi
sull’autostima e sulle capacità di essere-con, processo questo che salva l’individuo dalla angoscia del sentirsi solo e abbandonato in balia del mondo.
Imparando bene a gestire l’empatia cognitiva, quella affettiva viene
di conseguenza. Quest’ultima infatti è frutto di una spontanea evoluzione
della prima, in quanto ogni individuo, nel momento in cui si sente con l’altro a livello cognitivo è spinto spontaneamente ad approfondire il contatto, attraverso il gioco affettivo del gratificare per essere gratificato, sino ad ottenere la compresenza di empatia cognitiva
ed empatia affettiva.
Il gioco può ancora continuare e qui ci imbattiamo nell’essere-con esistenziale che diventa desiderio amoroso e che esprime la totale comunicazione tra due individui.
Sono convinta che quando una persona riesce ad innescare la propria
spirale positiva attraverso l’acquisita capacità di entrare in empatia
con l’altro aumenta in modo statisticamente considerevole anche la
possibilità di costruirsi dei positivi rapporti amorosi.
Dopo queste riflessioni sembrerebbe relativamente semplice salvarsi
dalla solitudine, ma in realtà semplice non è.
Perché la capacità di costruirsi una dimensione socio-personale prevede a priori la capacità dell’individuo di essere autentico con se stesso e di sapere riconoscere le proprie interiori capacità positive e negative. Frutto, questo, di un rapporto con la propria interiorità libero da tutti quei meccanismi psicologici di automascheramento, così fortemente abbarbicati al sé inconsapevole nella funzione di proteggere la propria integrità.
Dunque ognuno è artefice, perlomeno per la grande parte delle cause,
della propria solitudine sociale. Ognuno perpetra questa opera nel
perseguire atteggiamenti e comportamenti che paradossalmente manifestano
il non bisogno o addirittura il rifiuto di quella dimensione umana di cui invece il singolo ha estrema necessità: il contatto e la relazione con l’altro. Operando così un mascheramento autodistruttivo.
Sarà capitato a chiunque di rilevare in alcune persone atteggiamenti
difensivi e quasi di rifiuto 0, al contrario, atteggiamenti di ostentata
apertura al dialogo: ambedue situazioni testimoni di come il soggetto
costruisca, sulla base dei propri problemi intrapsichici, l’incomprensione e la solitudine nel relazionarsi con l’altro.
Atteggiamenti, questi, derivanti forse da un rapporto tra il sé consapevole e il sé inconsapevole fondato sul mascheramento delle proprie tensioni interiori.
Quindi, per poter acquisire la capacità di esprimere empatia, si esige
la precedente acquisizione della capacità di distaccarsi da sé, sospendere
il giudizio su di sé, e solo dopo avere analizzato attentamente
la propria dinamica interiore, assumersi il peso della nostra totale realtà Intrapsichica.
Husserl chiamava un processo fenomenologico simile a questo «epoké
», Jung «individuazione», Murray, Alport e Rogers lo hanno chiamato
«attualizzazione o realizzazione del sé».
Ma in qualunque modo vogliamo chiamarla, l’acquisizione della consapevolezza
interiore è il primo passo verso la consapevolezza esteriore
che si manifesta nella capacità relazionare di empatia.
Questa è una lotta difficile e faticosa perché il nemico è dentro di
noi intangibile e tentiamo di nascondercelo per paura di scoprirci incapaci di padroneggiare le reazioni.
È possibile che ogni persona possa acquisire la capacità di neutralizzare quei meccanismi interiori che la rendono sconosciuta a sé o addirittura paurosa di conoscersi.
Ciò è possibile attraverso l’altra faccia della solitudine, quella positiva,
meditante, titubante e liberatoria, quella che ci fa scoprire la fondamentale prerogativa dell’esistenza umana: la cosa che ci è più difficile da ammettere e da accettare, dalla quale fuggiamo divenendo mistificatori verso noi stessi è la realtà di essere ognuno, prima di
ogni altra cosa, fragile e solo con se stesso nella incapacità di controllare la morte.
Questa morte che ci accompagna giorno dopo giorno, sino al suo impossessarsi
di noi: e più nascondiamo questa paura, più questa ci condiziona
e ci rende incapaci di essere autentici con noi stessi.
È solo nella accettazione prioritaria di questo rischio esistenziale che sta alla base della nostra natura, che possiamo guardarci dentro in modo disilluso ed autentico.
E, grazie a questa disillusione, conoscere le proprie pulsioni interiori
e trovare la spinta eroica verso l’altro e verso il mondo.
L’individuo nella consapevolezza della sua natura limitata, trova la
forza del vivere, il coraggio e il desiderio di cercare con l’altro i modi
di godere il più possibile della comune situazione esistenziale.
Proprio nella consapevolezza della propria insicurezza, l’uomo può
trovare la sua più grande forza e riconoscere ed esprimere nel rapporto con l’altro e con il mondo la sua pienezza ed autenticità interiore.
È da queste lontane premesse che si deve partire per giungere imparare a stare con l’altro, a manifestare e a ricevere empatia, quindi a salvarsi dalla solitudine.
Può suonare come un paradosso affermare che si deve sapere di essere soli per imparare a non esserlo, ma sembra proprio che perché il sé sappia essere Con l’altro debba prima sapere di essere solo.
Dunque è sulla solitudine del primo tipo, quella positiva, che ci fa
avere coscienza di noi e conoscere i nostri limiti, che si fonda la capacità di eludere la solitudine drammatica, distruggente.
A conclusione di queste mie riflessioni personali e discutibili, è auspicabile che noi Fratelli e Sorelle possiamo riconoscerci veramente
come tali attraverso i principi di Fratellanza, Uguaglianza, Libertà,
Tolleranza, affinché ognuno di noi per proprio conto, Ma in comunione di intenti, possa compiere il viaggio più lungo, cioè il viaggio verso l’interno, pet scoprire la propria dimensione di solitudine, quella positiva, che credo debba e possa essere sempre più fortificata dalla certezza che noi Fratelli e Sorelle, proprio perché tali, non dovremmo sentirci mai e poi mai soli e nella gioia e nel dolore.