LA PENA….
Un giudice americano, durante un processo, ebbe a dire: “la legge è il debole tentativo dell’umanità per convivere e altro non abbiamo”.
Per consolidare la società è stata creata la legge che, nella sua astratta e pura accezione, potrebbe far pensare ad un’entità metafisica mentre, in realtà, è un insieme di regole che tentano di far convivere gli uomini in forma organizzata e di garantire la concordia fra i consociati.
Il mezzo per far rispettare la legge, punendo i trasgressori, è la giustizia che, a sua volta, risponde ad un insieme di regole e quindi di leggi.
Come dire che il moto che unisce le due entità, legge e giustizia, è circolare, perché l’una è in funzione dell’altra, la legge si prefigura di organizzare, in maniera giusta, la società degli uomini, mentre la giustizia ne garantisce legalmente l’esistenza. La legge può essere buona o cattiva a seconda degli obiettivi che persegue e quindi può essere condivisa o meno da singole categorie di cittadini.
Coloro i quali non condividono l’oggetto di tutela e le finalità di una legge, tenteranno di modificarla oppure si adopereranno per trasgredirla e violarla. In questi ultimi casi (come in ogni caso di violazione) danneggiano sicuramente altri soggetti, che rappresentano però la maggioranza dei consociati, posto che l’obiettivo della legge è quello di porsi come regola generale.
A quel punto si attiva il meccanismo della giustizia, che dovrebbe punire esemplarmente il trasgressore e ripristinare, nella coscienza comune, il rispetto della legge ed affermare, nel contempo, lo stato di diritto.
Per giustizia bisogna però intendere due categorie: quella morale che si identifica nell’affermazione del bene, del giusto e quella giuridica che si identifica nei mezzi approntati dalle regole, e quindi dalle leggi, per affermare Io Stato di Diritto.
Tralasciando adesso la giustizia in senso morale, per affrontarla magari in altra Tornata di Lavori, concentriamoci su quello che interessa i cittadini, a maggior ragione quelli di uno stato democratico: la legge comune che li organizza e li consocia nella convivenza pacifica e disciplinata. Il grande scudo con cui la società si protegge dai suoi stessi consociati che si ribellano alla legge, è la giustizia.
Lo scudo è pur sempre un elemento materiale e non astratto: è formato da uomini, strutture e mezzi organizzati per far rispettare la legge, punendo il trasgressore. Lo strumento con cui perseguire tale fine è il processo “legale”, che si fonda sulle prove raccolte.
Nel processo si attua la dialettica tra accusa e difesa ed il Giudice emette, attraverso la sintesi, un giudizio e commina una pena in caso di condanna.
Attraverso il giudizio, il giudice interpreta la volontà della legge e stabilisce se vi sia stata violazione; soprattutto valuta le prove e decide, in base ad esse, se vi sia la colpevolezza o no.
Questo vale per ogni tipo di violazione, da quelle di minor conto a quelle che invece creano un vero e proprio allarme sociale e impongono un più difficile vaglio del fatto, onde emettere un giudizio che non sia, a sua volta, ingiusto.
Il giudizio richiede un processo formativo di valutazione e conclusioni logico-giuridiche di estrema difficoltà, considerando che il giudizio degli uomini è ovviamente limitato ed è soggetto all’errore.
Tuttavia Io sforzo per scongiurare l’errore deve essere enorme!
A tal fine occorrono i molteplici gradi del giudizio, attraverso i quali diversi giudici esaminano lo stesso caso e si pronunciano nella più assoluta ed inviolabile autonomia. Proprio per questo il giudizio può risultare ondivago e lasciare, nella comune opinione, un certo senso di sconcerto.
Emblematico è ciò che è successo per alcuni processi che si sono protratti per anni e anni, in molteplici gradi di giudizio, con numerosi giudici che si sono avvicendati e contraddetti a vicenda, fino all’ultima parola emessa dalla suprema Corte di Cassazione.
É un iter che può non essere condiviso ma rappresenta la garanzia del processo e delle sue regole.
Purtroppo queste regole, spesso, vengono meno sotto la spinta della sete di giustizialismo anziché di giustizia.
Proprio negli ultimi anni abbiamo assistito a forme sommarie di giudizio, segno inequivocabile di inciviltà giuridica; inciviltà che si è manifestata nel nostro Paese, considerato culla e patria del diritto.
Basta leggere Beccaria, per capire che il colpevole deve essere condannato, ma deve esserlo, in via di principio, in base alle prove raccolte dall’accusa e non già cercando in un modo o in un altro di estorcere” la confessione ,che ci riporta ai tempi dell’Inquisizione.
Il cattivo, il ladro, il delinquente è sempre l’altro, mentre io sono colui che può giudicare, perché la televisione o i giornali mi attribuiscono questo ruolo, incitandomi le passioni della rabbia, della vendetta, del castigo: tutto ciò che più dovrebbe essere alieno al senso di giustizia e di rigore del giudicare.
Il giudizio, in caso di condanna, comporta l’irrogazione della pena, così come previsto dalla legge; lo scopo della pena, nell’accezione moderna, non è quello di affliggere in condannato, bensì di rieducarlo e redimerlo.
Tuttavia il principio rimane quello dell’applicazione di una pena quale conseguenza della condanna.
Spetta al giudice trovare la misura giusta, tenuto conto di svariati correttivi (attenuanti ed aggravanti) nella determinazione della pena da scontare.
La pena è l’ultimo anello di una catena che inizia con il processo di primo grado, cui seguono le impugnazioni e gli altri gradi del giudizio, fino al passaggio in giudicato della sentenza.
Solo in questo momento la pena diventa definitiva ed il reo deve scontarla.
Questo è un principio che non deve essere stravolto!
Stravolgere Il principio che chi delinque deve essere punito con la pena stabilita dalla legge, equivale ad ingenerare una sorta di senso dell’elusione e quindi ad alimentare il senso dell’impunità, facendo venir meno l’effetto deterrente della pena, con conseguenze sicuramente negative e sfavorevoli per la convivenza sociale.
La definizione di pena, intesa come espressione della pretesa punitiva da parte degli organi giurisdizionali volta alla rieducazione nei confronti di chi ha posto in atto un comportamento punito con una sanzione penale, è un concetto alquanto moderno che compare in Italia con la costituzione del ‘48 ed è articolato con la riforma del ’75.
Per poter valutare come il concetto di pena sia stato modificato nel corso del tempo, si pensi, ad esempio, a come la letteratura medievale sia ricca di narrazioni riguardanti pene capitali crudeli e violente, sale di tortura, pene come le amputazioni, le marcature, lugubri prigioni con celle buie e segrete.
La pena medievale aveva carattere punitivo e privatistico. Compiere un reato, cosi come considerato anche dall’attuale codice penale, significava trasgredire determinate regole ma il suddito, a differenza del cittadino odierno, doveva il proprio rispetto alle regole imposte dal suo signore che era l’unico soggetto deputato ad emanare gli ordini e a giudicare il reo. La presenza di codici e leggi passava in secondo piano in quanto la definizione delle pene era stabilita sulla base di regole riconosciute da un sistema sanzionatorio che aveva come fonti primarie la consuetudine e la discrezionalità del signore a che giudicava a seconda del soggetto imputato.
Tutto il sistema giurisdizionale si basava, dunque, sulla legge del taglione intesa nel suo significato etico-giuridico: era necessario pareggiare i danni derivanti dal reato, privando il reo di quei beni riconosciuti dalla comunità come valori sociali (la vita, l’integrità fisica e il denaro). La crudeltà e la spettacolarità accompagnavano queste procedure di espiazione con una funzione prettamente deterrente.
Solo con l’avvio del processo di accumulazione capitalistico, e quindi con una nuova visione della vita basata sulla laboriosità, l’accettazione dell’ordine e la morigeratezza dei costumi, si è potuto assistere ad una evoluzione del concetto di pena, che ha interessato in modo particolare tutti quegli individui appartenenti alla classe dei “non occupati”: vagabondi, mendicanti e prostitute.
Verso questi soggetti, all’inizio del XVI secolo si era sviluppata una legislazione fortemente repressiva caratterizzata da durissime pene corporali; solo trent’anni dopo in Inghilterra nasce la prima house of correction con lo scopo di detenere tutta questa massa di “poveri” e rieducarli attraverso la disciplina e il lavoro. L’esempio inglese sarà adottato anche in altre parti d’Europa portando alla comparsa di esperienze simili in Francia come l’hopital o in Belgio con le rasp-huis.
Compare dunque un nuovo elemento che va ad arricchire il concetto dì pena: la rieducazione. La componente punitiva, tuttavia, anche nelle esperienze delle house of correction resta pur sempre la caratteristica principale della pena: lo dimostrano le pessime condizioni di vita all’interno di questi istituti e i principi su cui si basavano la disciplina e il lavoro.
L’Italia, nel suo mosaico di piccoli stati e signorie strutturate ancora secondo una logica feudale, varerà, nel XVII secolo, alcuni provvedimenti per fronteggiare i fenomeni della mendicità e del brigantaggio istituendo alcune prigioni come la “Casa di correzione” di Firenze in cui, i detenuti vivevano in condizioni molto al di sotto dei livelli di sopravvivenza:
Già nel XVIII secolo, la figura del “povero” da soggetto non rispondente ai valori del tempo diventa individuo socialmente pericoloso con la conseguente scomparsa della componente rieducativa all’interno del concetto di pena. Il carcere abbandona la logica del lavoro e della disciplina come strumento di rieducazione e si concentra su attività di carattere affittivo.
Foucault, analizzando il passaggio tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX, descriverà come “la festa punitiva” si vada spegnendo in due direzioni: la scomparsa dello “spettacolo’ della punizione” e l’allentamento della “presa sul corpo”.
Il cerimoniale della pena tende ad entrare nell’ombra, per non essere altro che un nuovo atto procedurale o amministrativo. In Francia, l’infamante confessione pubblica era stata abolita definitivamente nel 1830; la gogna soppressa nel 1789; in Inghilterra nel 1837. I lavori pubblici che Austria, Svizzera e alcuni degli Stati Uniti, facevano eseguire nelle vie delle città o lungo le strade maestre – i forzati, collare di ferro, palla al piede, abiti multicolori, scambiavano con la folla sfide, ingiurie, beffe, percosse, segni di rancore o di complicità – vengono soppressi quasi ovunque alla fine del secolo XVIII o nella prima metà del XIX.
La punizione cessa di essere uno spettacolo. E tutto ciò che poteva comportare di esibizione si troverà ormai segnato da un indice negativo.
Con la scomparsa dei supplizi è Io spettacolo a cessare; ma è anche la presa sul corpo ad allentarsi: non toccare più il corpo, o comunque, il meno possibile, e sempre per raggiungervi qualcosa che non è il corpo medesimo.
Il corpo qui si trova in posizione di strumento o di intermediario; se si interviene su di esso, rinchiudendolo o facendolo lavorare, è per privare l’individuo di una libertà considerata come un diritto e insieme un bene”.
La libertà come diritto dell’uomo e come bene che viene privato al reo con lo scopo di realizzare la componente retributiva della pena: una nuova concezione che nasce in grembo alla rivoluzione francese.
Altrettanto nuova è la concezione dell’uomo come essere razionale, detentore dei propri diritti e, soprattutto, responsabile delle proprie azioni: l’uomo è libero da condizionamenti, capace di scegliere deliberatamente l’osservanza o la trasgressione delle leggi.
Il crimine, dunque, è prodotto da una scelta libera del soggetto.
Ma queste innovative riflessioni illuministe non riguardavano solo la concezione dell’uomo ma vollero dare anche alla pena un nuovo significato. Quindi, aboliti i comportamenti vendicativi (non più “legge del taglione”), l’amministrazione della giustizia si realizzava nel perseguimento di due finalità: una retributiva, attraverso il risarcimento alla società dei danno compiuto, e l’altra deterrente, disincentivando sia il ‘reo che il resto della società dal commettere ulteriori reati.
Nel “Dei delitti e delle pene” Beccaria, in totale accordo con queste concezioni, aggiungerà che le pene devono essere scelte razionalmente: economiche, pratiche, convenienti e socialmente utili, attraverso una legge conosciuta e certa. Tutti gli individui devono sapere che se commetteranno un reato subiranno, certamente, una pena.
La pena, oltre ad essere pronta, proporzionale e infallibile, deve essere dolce, nel senso che deve risparmiare all’imputato inutili sofferenze. E’ importante che produca, a livello di habitus mentale, l’associazione tra commissione di un delitto e quello di pena.
Concentrandoci ora sul panorama italiano, la scuola positiva, verso la metà del XIX secolo, affronterà secondo un differente punto di vista la teoria della scelta razionale promossa nell’ambiente illuminista.
L’enfasi si sposta dal concetto di pena a quello di misura di sicurezza in quanto viene evidenziata la forza dei fattori biologici, l’idea del delinquente nato, lasciando, così, una tendenza pessimistica nell’intervento contro la criminalità.
Ma il governo Giolitti, inizio ‘900, seppur liberale, mantiene la linea conservatrice e non traduce queste teorie in articoli di legge.
Con l’avvento del fascismo, saranno presentati dei progetti di riforma rifacentesi alla scuola positiva e all’individualizzazione del trattamento carcerario, i quali portano in seno alcuni istituti innovatori come la sospensione della pena, la liberazione condizionale e il perdono giudiziale.
Nel 1926 viene approvata la nuova legge di pubblica sicurezza, nel 1930 il codice Rocco, nel 1931 il nuovo regolamento carcerario che rimarrà in vigore fino al 1975.
Nel dopo guerra, o più precisamente, neI 1947 inizia il travagliato iter per la riforma giudiziaria che si concluderà soltanto nel 1975. In questo arco di tempo si assiste ad un altalenarsi di aperture verso un concetto di pena risocializzante e di chiusure verso una maggiore rigidità.
Nel 1950 sono approvate alcune norme umanizzanti ma, già nel 1954, si assiste ad un ulteriore rincrudimento. Nel ‘60, in applicazione dei principi stabiliti dalle regole minime dell’ONU (1955), nel disegno di legge Gonella, viene introdotto il criterio dell’individualizzazione del trattamento rieducativo basato sull’osservazione della personalità.
Ma i timori di un eccessivo allargamento fanno si che non vi sia attuazione di questo disegno e solo più tardi, nel 1975, in un periodo di mobilitazioni sociali e politiche che investiranno anche il carcere e i detenuti, arriverà la riforma penitenziaria.
La riforma viene varata nel 1975 e già da subito è attorniata da critiche per la sua “mancanza di cultura e di coraggio civile” nel realizzare una rottura sostanziale col passato.
Ma il nuovo ordinamento penitenziario, seppur nella sua cosiddetta timidezza, apporta comunque delle significative modifiche al sistema carcerario.
Il legislatore dà forma a quei principi costituzionali che ancora non avevano ricevuto attenzione da parte del sistema penitenziario. Ci riferiamo in modo particolare all’Art.27, nel quale, si afferma espressamente che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Gli obiettivi della riforma furono i seguenti:
– mantenere gli equilibri esistenti dei soggetti che facevano ingresso
– nel carcere: rafforzare dunque il rapporto con la famiglia, valorizzare i colloqui e la corrispondenza nella loro intimità
– introdurre strumenti per evitare l’impatto col carcere per pene detentive brevi, attraverso sanzioni sostitutive;
– concretizzare il concetto di risocializzazione attraverso un trattamento rieducativo individualizzato e un graduale reinserimento nel mondo esterno.
A tale scopo, la riforma del ‘75 introduce due nuove figure professionali: gli educatori e gli assistenti sociali del Centro di Servizio Sociale per Adulti.
Le maggiori critiche che furono mosse a questo sforzo riformatore furono caratterizzate dalla poca considerazione che il legislatore ebbe a riguardo del contesto esterno.
Alcune correzioni arrivarono nel 1986 con la Legge Gozzini che introduce alcuni elementi espressamente rivolti alla possibilità per il detenuto di riguadagnare un risoluto rapporto con l’ambiente esterno: la legge disciplina infatti i permessi premio, le misure alternative alla detenzione quali, ricordiamo, l’affidamento in prova al servizio sociale e l’ammissione alla semilibertà.
Gli entusiasmi iniziali superano di gran lunga le perplessità e le critiche che accompagnarono l’approvazione della legge.
Pochi anni dopo, però, nel 1990, si registrano i primi interventi di legge volti a ricalibrare in senso restrittivo la legge Gozzini, spinti, in modo particolare, da quel sentimento che caratterizzava l’opinione pubblica per cui la premialità prevista dalla legge dell’86, appariva eccessiva ed ingiustificata.
Lo stesso Mario Gozzini dirà, commentando questo ritorno ad una maggior austerità, che, prima di ogni altra cosa, è necessaria un’opera di coscientizzazione popolare volta a far capire che il carcere rieducativo è un interesse collettivo primario. Inutile dire, dunque, quanto sia necessario un profondo cambiamento dell’opinione pubblica, per evitare che la riforma penitenziaria, gli sforzi verso l’apertura del carcere, non restino episodi isolati a cui non è attribuita la necessaria importanza.
L’essenza della pena, delineatasi in questi ultimi venti anni, può essere ricondotta dunque a più funzioni:
– la funzione retributiva, relativa all’azione antisociale posta in essere dal reo, attuata attraverso una riduzione della sfera giuridica del soggetto sotto il profilo della proporzione tra entità e tipo di pena e la gravità dell’offesa arrecata;
– la funzione di prevenzione generale, rivolta all’intera società nel senso di indurre gli individui a non commettere quel determinato reato. Si sostanzia nel rafforzamento della coscienza morale verso un adeguamento spontaneo al diritto e nella minaccia della pena;
– la prevenzione speciale con lo scopo di impedire che il condannato ricada in quel particolare delitto. Questa funzione si concentra, dunque, sul singolo reo e si realizza attraverso la rieducazione che possiamo precisare in due differenti concetti: la non desocializzazione, impedendo la destrutturalizzazione del condannato durante l’espiazione della pena e la non-neutralizzazione, evitando la incapacitazione del soggetto attraverso l’allontanamento dalla società libera.
Lo Stato, attraverso la rieducazione non intende realizzare una correzione della personalità del soggetto e tantomeno imporre determinati valori: sono proposti dei valori, viene data un’opportunità affinché il condannato possa porsi in discussione ed uscire dalla propria antisocialità.