“GLI ETRUSCHI A TAVOLA”

Civiltà da scoprire”: “Gli Etruschi a tavola”

di Umberto Nerucci

di Umberto Nerucci

      Plinio il Giovane ci ha lasciato una bella descrizione della campagna etrusca: “Prata inde campique, campi quos non nisi ingentes boves et fortissima ara­tra perfrigunt. Perata florida et gemmea trifolium aliasque herbas teneras semper et molles et quasi no­vas alunt” (V, 10). Tutto questo si era realizzato a seguito delle continue opere di bonifica e di irriga­zione attuate dagli aquilices che intervennero effi­cacemente su terreni dalle più varie caratteristiche geologiche. Infatti nella pianura maremmana fu pra­ticato un controllo particolare delle risorse idriche mediante la creazione nei pressi delle case coloni­che di laghi artificiali, questi, dopo essere stati resi impermeabili con un impasto di argilla e calce spenta potevano raccogliere e trattenere le acque piovane dell’inverno che poi venivano fatte defluire nei cam­pi, durante i mesi caldi, con un sistema di canali di coccio, mentre nelle zone collinari della stessa area era stato approntato un sistema diverso di irrigazio­ne simile a quello americano del dry farming.

      L ‘a­gricoltura nella Federazione seguì un costante pro­gresso garantitole da moderni modelli dì sviluppo i quali furono una vera novità nel mondo antico e portarono benessere e ricchezza in quella regione tanto che Varrone definì la Dodecapoli: “Terra pin­gue, di campi ubertosi e di assidua coltura, nonché di altissimi alberi e il tutto senza muffa”, mentre Diodoro Siculo scrisse che: “Gli Etruschi abitava­no una regione incredibilmente fertile la quale op­portunamente coltivata forniva non solo il necessa­rio, ma anche il superfluo per i piaceri e il lusso”.

      I prodotti principali di quelle campagne erano le gra­naglie e fra queste ricordiamo il Triticum Spelta, il T. Vulgare, il T. Turgidum, il T. Sphaerococcum, il T. Dicoccum e l’orzo. Queste semente rendevano dalle dieci alle quindici volte, come asserisce Colu­mella, mentre il reddito usuale nel resto dell’Italia era di appena quattro. Il T. Spelta costituiva il cereale più diffuso nella nostra penisola durante il pe­riodo protostorico, si coltivava facilmente anche in terreni umidi, e da esso derivava il Farro, la zona di Chiusi ne produceva una qualità molto apprezzata (Columella II, 6) detta, appunto, far clusinum che pesava ventisei libbre al moggio, contro le normali venticinque, però non era adatto alla panificazio­ne, dava un macinato con cui si preparava un polenta che, con il nome di puls, rappresentò per tre­cento anni il cibo dei Romani, i quali di solito la consumavano in stoviglie di fattura etrusca: “Po­nebant igitur tusco farrata catino” , (Giovenale XI).  

      La gente di Rasna in seguito cominciò a tostare il farro, pestandolo, in un secondo tempo, dentro un particolare mortaio il cui inventore, un certo “Pilumno”, fu perfino divinizzato, con questa lavorazione si otteneva una farina panificabile con la quale venivano preparate delle focacce che erano facilmen­te digeribili per la parziale destrinizzazione dell’amido contenuto nel T. Spelta causata dal processo di torrefazione. Plinio (XVIII, l0) ci ha tramanda­to le fasi di quell’operazione: “Pistura non omnis facilis quippe et Etruria spicam farris tosti pinsente pilo praeferrato, fistula serrata et stella intus denticulata ut nisi intenti pinsant, coincidantur grana ferroque frangantur” . Nel territorio di Pisa cresceva un’ ottima qualità di T.Spelta e la siligo bianca di questa zona assieme a quella della Campania dava il miglior pane d’Italia. Il basso Val d’Arno era famoso per la segale, l’Etruria circumpadana per il miglio, quella settentrionale per le biade.  

      Gli uomini di Rasna in seguito sostituirono i cereali più rozzi con il grano vero, mentre i Romani continuarono a mangiare puls fino alle guerre puniche tanto era rimasta arretrata la loro agricoltura. Anche se questa si era sviluppata nella nazione dei Lucumoni grazie al contributo delle tecniche degli ingegneri idrau­lici e al lavoro degli agronomi, le genti della cam­pagna restarono sempre legate alle tradizioni, infatti prima di seminare, come ci tramanda Varrone, nel De Re rustica (I, 40), seguivano scrupolosamente i consigli degli aruspici. Una caratteristica dei conta­dini della Dodecapoli era quella di piantare in mo­do tale che il Circio, vento di NO, sfiorasse le colture solo in obliquo in quanto un eventuale im­patto frontale avrebbe compromesso l’intero raccolto.

      Gli Etruschi per molto tempo riuscirono a bilan­ciare saggiamente, all’interno del loro sistema eco­nomico, l’agricoltura con l’industria e così furono evitati squilibri a livello delle classi medie che era­no la struttura portante delle poleis. La terra veni­va lavorata da manodopera libera, gli schiavi suben­trarono come bracciantato intorno al III sec. a.C. con il sopraggiungere della malaria, sempre in quel periodo la borghesia campagnola abbandonò le terre a basso reddito e le subentrò il latifondo con la sua economia agricola estremamente antiquata.

      Uno dei prodotti più celebrati della Duodecim Populi era il vino, Plinio (Hist. Nat. XIV, IV) dice che “…..nes­sun’altra terra più dell’Etruria gode della vite:..” (Etruria nulla magis vite gaudet). Le migliori quali­tà provenivano dall’alto Fiora, dal Chianti, da Or­vieto, da Statonia e Luni (Plinio op. ct. XIV, 24) da Todi e da Firenze (XIV, 36). Pisa era famosa per la Pharia, ad Arezzo cresceva la Talpana che dava con la sua qualità nera un mosto chiaro per cui gli agricoltori etruschi conoscevano la vinificazione in bianco. Un vitigno molto noto era la Tuderna che nella lingua locale si chiamava Florentia (Plinio op. ct. XIV, IV, 3)! Molto apprezzata era la rotondità della dolce Apiana e dei moscatelli in generale, que­sto gusto filtrò anche nelle abitudini degli austeri cit­tadini dell’Urbe per i quali, come ci tramanda Mar­ziale (XIII 10), la puls accompagnata da del vino  amabile costituiva una vera leccornia: “Imbue ple­beias Clusinis pultibus ollas ut satur in vacuis dul­cia musta bibas”.

      L ‘olivo per molto tempo restò una coltura scono­sciuta sia nella nostra penisola che in altre aree del Mediterraneo occidentale, in uno scritto di Fenestel­la risalente ai tempi di Augusto, citato da Plinio (XV, 1 ), si legge che in Italia durante il regno di Tar­quinio Prisco (183° anno di Roma, 571 a.C.) non esistevano oliveti, per cui gli Etruschi importavano l’olio direttamente dalla Grecia; infatti un vaso di epoca arcaica con scritto “aska mi eleivana” (tr. “io sono un orcio per l’olio”) ci ricorda la dipendenza della Dodecapoli dall’Ellade per ciò che concerne­va questo prezioso prodotto che veniva saggiamen­te risparmiato alternandolo con l’estratto di semi di lino e di lentisco, mentre per l’illuminazione erano adoperati la cera, la resina e il sego. In seguito, pe­rò, questa coltura attecchì anche nella Federazione divenendo uno degli elementi che maggiormente ca­ratterizzarono quelle campagne.

      Inoltre gli uomini di Rasna facevano largo uso di ortaggi soprattutto di carciofi, di rape, di aglio, di cipolla, di asparagi, di sedano, apprezzavano gli aromi della menta e del timo che chiamavano «nepeta» e «mutuca». Dal lat­te di pecora veniva preparato il formaggio, il più fa­moso era quello di Luni che poteva pesare fino a trecentoventisette chilogrammi ed era in grado di sfamare, come ci dice Marziale (XIII, 31), quasi un migliaio di persone: “Caseus Etruscae signatur ima­gine Lunae praestabit pueris prandia mille tuis”.

      In quella campagna oltre agli ovini erano allevati anche i maiali che venivano fatti ingrassare d’au­tunno nei querceti in quanto le ghiande rendevano più saporite le carni. Anche la selvaggina ora mol­to richiesta in particolar modo il cinghiale nero: “Cur tuscus aper generosior quam umbro” (Stazio Silv. IV, 6).

      Nelle acque del Tirreno si pescavano anche i tonni il cui passaggio era avvistato da delle poste fisse si­te nei pressi di Porto Ercole e di Populonia. (Stra­bone V, 2). Nel Tevere, il “tuscus amnis” secondo Virgilio (Georg. I, 499-Aen. VIII, 473) viveva il pre­libato “lupus tiberinus”, il luccio. 

      La religione che fu l’elemento di più intima coesione della nazione dei Lucumoni, interveniva attraverso precise prescri­zioni anche nelle abitudini alimentari di quel popo­lo, infatti era vietato mangiare i frutti dei cosiddetti arbores infelices, cioè di quelle piante che per la Etrusca Disciplina costituivano la rappresentazio­ne terrena delle entità degli inferi. Secondo una li­sta tramandataci da Macrobio, derivata da un’ope­ra dall’aruspice Tarquizio (I sec. a.C.), erano proi­biti i fichi scuri, le pere selvatiche, le more e i lam­poni. La mensa della gente di Rasna, oltre a godere dei prodotti di una campagna particolarmente ric­ca e generosa, era caratterizzata da una gastrono­mia estremamente raffinata. Icuochi preparavano le vivande mentre citaredi e suonatori di subulo, il flauto, intonavano le loro musiche, in quanto la gioia di vivere di quel popolo era così intensa da trasparire perfino dalle più comuni attività quotidiane. La tavola veniva imbandita due volte al giorno con grande sfarzo di stoviglie e varietà di cibi. Api­cio nel “De re coquinaria” (VIII 8,1) ci tramanda una delle ricette più famose: “Per preparare un sugo per la lepre, tritare pepe, ligustro, semi di seda­no, intestini di pesce del Tirreno, silfio, il tutto in abbondante aggiunta di vino e olio, lasciarvi mace­rare la lepre, indi bollirla a lungo nell’intingolo do­po averla fatta convenientemente rosolare. Un al­tro piatto tipico di questa cucina erano le tagliatelle la cui preparazione, come vediamo nella tomba dei rilievi di Cerveteri, era identica a quella dei nostri giorni.

      Nell’Urbe si faceva un solo vero pasto al giorno, il pranzo restò sempre una colazione molto frugale che veniva consumata, fredda, in piedi: ” Sine men­sa prandium post quod non sunt lavandae manus” (Seneca, ep. 83,6) e questa abitudine sarebbe rima­sta anche in epoca imperiale allorché la gastrono­mia si fece più raffinata con l’introduzione di piatti ricercati come lo spezzatino con albicocche, il pe­sce con purea di mele cotogne e le varie salse di garum e di muria. Per i Romani le abitudini alimen­tari degli uomini della Dodecapoli erano sinonimo di mollezza e assimilarono l’ etrusco ad una sorta di grassone dedito solo ai piaceri della tavola.

      L’obe­sus etruscus di Catullo (Carmina XXXIX, II) e il pinguis tyrrenus di Virgilio (Georgiche II, 193) so­no immagini falsate dell’uomo di Rasna, create per porre in maggior risalto i pregi della romanità che tanto aveva, invece, attinto dalla civiltà dei Lucu­moni e ci risulta davvero difficile pensare che l’uni­co erede di Romolo in sovrappeso, come certe fon­ti vorrebbero farci credere, sia stato Nerone il qua­le per dimagrire si sottopose ad una ferrea dieta a base di feci di cinghiale stemperate in acqua tiepi­da. Inoltre le caratteristiche dell’obesus etruscus, se­condo una valutazione antropologica coincidereb­bero con quelle di un’etnia euro-asiatica che in epo­che remote si era sovrapposta alle popolazioni locali.

      Questo ventre grosso dell’uomo della Duode­cim Populi potrebbe essere la conseguenza di un’e­patosplenomegalia causata dalla malaria e scambiata erroneamente per adipe in quanto l’associazione del­la malattia con l’addome voluminoso fu un dato ac­quisito soltanto in epoca più tarda con Galeno.

      Co­munque agli Etruschi spetta il merito di aver concepito l’agricoltura in termini straordinariamente moderni mediante selezioni botaniche, opere di bo­nifica e di irrigazione, questo fece sì che i prodotti della  Dodecapoli venissero esportati molto lontano già nel VI sec. a.C. , tanto che le strutture della na­zione dei Lucumoni si configurarono presto con quelle di una economia in piena espansione la qua­le si era consolidata anche per il lavoro svolto nei campi da intere generazioni di agricoltori che ave­vano reso quelle terre non solo ricche, ma addirit­tura più suggestive dal punto di vista paesaggistico tanto che Plinio il Giovane, adoprando delle imma­gini tipiche della filosofia platonica, le identificò in una rappresentazione ideale del bello: “Neque enim terras tibi sed formam aliquam ad eximiam pulchri­tudinem pictam videberis cernere; ea varietate, ea descriptione quoqumque inciderint oculi reficientur” .

 da A. V. N° 1 1988. A tavola con gli Etruschi.

      I prodotti della terra, come è ovvio, hanno avuto certamente una parte notevolissima    nell’alimentazione degli Etruschi: cereali, legumi, ortaggi, dovevano costituire il piatto forte, almeno sulla tavola delle classi meno agiate. Gli Etruschi conoscevano già l’aratro.

      Oltre alle coltivazioni di cereali quali orzo, avena, grano, farro, dall’inizio del VII secolo, iniziò in Etruria la coltivazione intensiva della vite e non molto tempo dopo anche l’olivocultura. Pur essendo in queste zone già noti in forme selvatiche sia la vite sia l’olivo fin dal II millennio a.C., è soltanto ora che la coltivazione si è estesa su larga scala per la produzione di vino e olio, destinati ad essere esportati nel Tirreno via mare in anfore da trasporto, prodotte soprattutto nell’area Vulcente e ceretana.

      Durante il banchetto i servitori preparavano il vino in grandi contenitori dove veniva mescolato con altri ingredienti aromatici; filtrato con colini, veniva poi versato con mestoli nelle brocche e portato in tavola.

Questa voce è stata pubblicata in Storia. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *