dal libro “Vita quotidiana degli Etruschi”
di Jacques Heurgon
“……………l’Etruria produceva cereali a sufficienza da poterne esportare neipaesi vicini; nel V secolo, Roma che soffriva di carestia, ricorse più volte ai depositi rigurgitanti nei magazzini dell’Etruria marittima e tiberina, come ricordano i testi che parlano dei grandi convogli discendenti il corso del fiume. La lista del 205 rammenta anche il frumento di Cere, Rusellae, Volterra e soprattutto di Chiusi, Perugia ed Arezzo; nell’epoca classica è ancora all’interno, a Chiusi e ad Arezzo, che troviamo i granai dell’Etruria più ricchi per quantità e per qualità.
Si vantavano i raccolti miracolosi di questi Tusci campi, che davano un prodotto di quindici volte la semente, il rendimento del farro di Chiusi (far Clusinum), farro che raggiungeva le ventisei libbre, per moggio, e il candore della sua farina ( candoris nitidi), di cui Ovidio consigliò una volta alle sue lettrici l’uso come polvere per il viso, ma che nell’attesa serviva al popolo minuto, per fare quelle focacce (clusinae pultes) che hanno costituito per moltissimo tempo il nutrimento principale degli Etruschi e degli Italici.
Chiusi ed Arezzo erano famose anche per il loro grano tenero, la siligo, che si usava nella confezione del pane fine. Questo frumento di prima qualità faceva altresì la reputazione di Pisa, che non era meno rinomata per quella che noi, chiameremmo la sua pasta, fabbricata con una specie di semola (alica) mescolata con vino e miele. Quanto alla Gallia Cisalpina essa era particolarmente atta alla coltura del miglio.
La vigna e gli alberi
Anche sui vini siamo informati esaurientemente. Dall’epoca di Alessandro i vini etruschi erano noti in Grecia. Dionisio di Alicarnasso li raccomanda in generale alla pari del Falerno e di quelli dei colli romani, lo spagnolo Marziale riconosce che valgono quelli di Tarragona, mentre altri autori precisano che il migliore prodotto è quello di Luni, ai confini della Liguria. Le vigne di Graviscae, nonostante la malaria che esalavano i miasmi dei dintorni e quelle di Statonia sulle colline dell’alto Fiora, davano un vino eccellente. Ma il territorio di Veio non produceva, con grande pregiudizio degli stomaci di Orazio, Persio e Marziale che un vinello rosato dalla feccia spessa e gradito soltanto alla borsa degli anfitrioni avari. Nella Gallia Cisalpina si celebravano i vini di Adria, di Cesena e un Maecenatianum, prodotto certamente in qualche proprietà di Mecenate.
Queste erano le qualità universalmente apprezzate. Ci interessa anche di sapere che gli Etruschi, per loro, preferivano alcune qualità di moscato, del cui sapore dolce, si diceva, erano ghiotte le api (apes), per cui si chiamavano Apianae: etimologia, poetica, perché questo nome derivava probabilmente da quello di qualche produttore ( Appius, con semplificazione etrusca dell’occlusiva: si conosce a Firenze un Aviles Apianas=AuloAppiano). In ogni caso questo vino dolce, che dava alla testa, è quello di cui si ubbriacano i banchettanti sui nostri dipinti.
Altri ceppi locali annunciano i futuri Chianti e Orvieto; a Todi, al confine umbro, il tudernis, ad Arezzo il talpona ( che ricorda il gentilizio Talpius, Talponius). Tutte queste varietà denotano una lunga esperienza della tecnica viticola, una vecchia pratica dell’innesto per la creazione di ibridi, una costituzione metodica dei vigneti con la sovrapposizione di viticci diversi. Plinio ci parla di un viticcio detto murgentina, introdotto dalla Sicilia in Campania, dove prese il nome di pompeiana, che poi prosperò particolarmente sul suolo fertile delle colline di Chiusi. Ma se questo viticcio è stato importato recentemente, non si vorrà credere che sia stato il gusto del suo vino ad ispirare ai Galli, attirati da Arruns di Chiusi, il desiderio di invadere l’Italia.
Abbiamo visto che la specialità di Tarquinia, alla fine del III secolo, era la coltura del lino e la tessitura della tela da vele Plinio non ne parla più. Sembra che l’ industria tessile sia stata una tradizione del paese dei Falisci: i poeti abbigliavano i loro eroi leggendari con tuniche di lino fluttuanti, denunziate dai Romani come segno di rilassatezza, e gli Etruschi ancora sotto Augusto mantenevano il primo posto per la manifattura delle reti da caccia «tanto solide che resistevano alla lama più tagliente, sottili che potevano passare in un sol pezzo attraverso un anello e leggere che un solo portatore ne portava facilmente sulle spalle un numero sufficiente da coprire un bosco».
Cosa curiosa, l’ulivo, il colore verde argento alla Corot del quale sembra essere quello della Toscana moderna, doveva essere meno diffuso nell’Etruria antica. La coltivazione dell’ulivo era ancora ignota in Italia ai tempi di Tarquinio Prisco, e se, nel II secolo, Catone descrive con amore un uliveto nella regione del Venafro, al confine nord-est della Campania, nessuna allusione antica rivela, salvo errore, che ve ne fossero di simili in Etruria.
Ciò non vuol dire che gli Etruschi non facessero un consumo abbondante di olio, del quale avevano molto presto appreso il nome dai Greci, come dal canto loro fecero i Latini; una delle iscrizioni etrusche più antiche, incisa su un recipiente di argilla, porta il nome di aska eleivana, cioè vaso ( askos ) da olio ( elaion ). Quest’olio però era stato importato dall’Attica nelle numerosissime anfore che si trovavano sparse nei cimiteri di Cere e di Spina.
Nell’epoca in cui Varrone, in un elogio entusiastico dell’Italia, dichiarava che essa era «dovunque piantata d’alberi al punto da sembrare un solo frutteto di estensione illimitata», dobbiamo ritenere che il territorio etrusco non facesse eccezione alla regola. E’ necessario, però, non dimenticare che la maggior parte dei nostri frutti e dei nostri legumi erano sconosciuti nell’Italia primitiva, dove sono stati importati nel corso dei secoli con le raffinatezze dell’Oriente. Non per nulla Virgilio, nel quarto libro delle Georgiche, affida il giardino dei suoi sogni ad un orticoltore da poco sbarcato dalla Cilicia.
Vi fu un’epoca in cui le ciliegie passavano per un frutto esotico, importato dal Ponto nel 73 dal riccone Lucullo dopo la sua vittoria su Mitridate, e i limoni, nel paese «in cui fioriscono i limoni», erano un medicamento utilizzato come contravveleno o per dare un alito gradevole. Irapporti degli Etruschi con Cartagine dove l’agricoltura era perfezionata, il gran numero di schiavi orientali che entravano nelle loro familiae, avevano loro permesso di sorpassare i Romani. Basta sfogliare il Lexique des termes de Botanique en latin di Jacques André per vedere che il citron (limone) o cédrat deriva il suo nome da una lingua nonindoeuropea con la mediazione dell’etrusco, e che, fra le varietà delle ciliegie ve n’era una dai frutti più rossi, il cerasum apronianum, il cui creatore, un certo Apronio, era certamente originario delle parti di Perugia.
Pertanto, quando gli agronomi antichi enumerano la frutta più succulenta della penisola, citano le mele di Ameria, le pere di Taranto, i fichi di Ercolano, le mandorle di Preneste: l’Etruria manca nel catalogo, mentre Ovidio dice solamente che il paese falisco era ricco di frutteti.
Lo stesso è per i legumi: tutti vantavano i porri di Ariccia, le rape di Nursia, le cipolle di Tuscolo, gli asparagi di Ravenna: uno strano silenzio regna invece sugli orti etruschi. Anche il cavolo, che ispirò a Catone un ditirambo straordinario, il cavolo, delizia dei gastronomi e panacea universale, il cavolo, medicina delle ulceri e della malinconia, che suscitava, per produrne specie ricciute, tenere, a testa grossa, dal sapore piccante, cavolfiori e cavoli rape, l’emulazione di tutte le città d’Italia, Ariccia, Ardea, Tivoli, Signa (Segni), Capua, Caudium (Montesarchio) ecc., anche il cavolo lasciava l’Etruria del tutto indifferente alla competizione. Segno che i latifundia della costa non avevano incoraggiato lo sviluppo delle colture della frutta e degli ortaggi e che le piane dell’interno erano consacrate per intero ai cereali e alla vigna……………”