NELLA GIUNGLA MAREMMANA

NELLA GIUNGLA MAREMMANA

02 settembre 1849

 Da  “IN VIAGGIO CON GARIBALDI”

Viva l’Italia e il popolo

e il papa che va via

se andranno in compagnia

viva anche gli altri re»

(Se il papa è andato via,)

(canto risorgimentale del 1848-1849)

E’ ancora notte (sono le cinque di mattina) quando Garibaldi e Leggero lasciano Palazzo Guelfi: sono accompagnati da Olivo Pina, Giuseppe Ornani, Oreste Fontani e Leopoldo Carmagnini. Fingono ancora di essere un gruppo di cacciatori, armati di doppiette, per non destare sospetti. Attraversano la campagna solitaria e, per un tratto, percorrono l’argine dell’Allacciante, uno degli interventi di bonifica lorenesi, un canale di raccolta delle acque che vi confluivano dalle colline di Scarlino e di Gavorrano. Poco oltre si stendeva il “padude” o stagno di Scarlino ancora in gran parte intatto e coperto di folte boscaglie o come ebbe a dire il granduca Leopoldo Il, «altere foreste di frassini antichi», un bosco «non tocco da scure», acquitrini coperti «di piante grasse e di colore ingrato». Seguendo un andamento quasi perfettamente simmetrico, Garibaldi era partito dalle solitarie paludi di Comacchio per arrivare nelle altrettanto solitarie paludi maremmane. Ancora oggi quello che resta dell’antico padule ci offre, soprattutto quando è allagato nella stagione invernale, l’immagine di una vecchia Maremma palustre con i salicornieti, i canneti, i chiari ricchi di uccelli palustri, le vacche maremmane al pascolo.

Piccoli resti di un mondo del passato che, attraverso facili percorsi, ci permette di vivere per un attimo l’illusione, che manca nel momento in cui si vedono sullo sfondo la ciminiera dello stabilimento chimico del Casone di Scarlino o certe lottizzazioni edilizie.

Ma Garibaldi sfiora soltanto il padule: con i suoi compagni arriva a via della Dogana, un largo stradone sterrate che conduce verso la costa e poi nel piano di Meleta, dove, nel buio, avverte il suono delle campane di Scarlino «Che paese è quello?» chiede il generale, «Il nostro paese, Scarlino» risponde con orgoglio Olivo Pina, aggiunge che i giovani sono di idee rivoluzionarie e che almeno venti sono stati volontari del governo democratico d Guerrazzi e si lascia sfuggire «Generale, ricominciamo da qui?», perché Scarlino è un paese sovversivo ed ha l’animo di ricominciare la lotta anche quando tutto sembra perduto.

«Figli del popolo /non chiesero premio», così sono definiti gli scarlinesi, che salvano il generale in modo assolutamente disinteressato, nell’epigrafe che si legge sul monumento che Scarlino ha dedicato a Garibaldi, con tanto di bassorilievo Hi della barchetta che lo porta a salvamento. Nella piazzetta del paese, la statua di Garibaldi, una delle più belle ed originali fra quelle a lui dedicate in Italia, rappresenta un giovane uomo che guarda verso il mare “liberatore” e non il solito generale paludato. Il celebre storico dell’arte Cesare Brandi rimase stupefatto davanti al Garibaldi “anticonformista”, scolpito dallo scarlinese Vincenzo Pasquali, che poi fece il grande salto artistico, trasferendosi a Genova ed a Sanremo dove scolpì la statua della Primavera sul Lungomare dell’Imperatrice, che è divenuta il simbolo della città. Vale la pena di lasciare la parola allo stesso Brandi: «Sì arriva ad un paesino tutto rimpastato nell’Ottocento, con le sue finestrine, i suoi portoncini, quel decoro che in Toscana sa sempre di fagioli lessi e di buongiorno al lei . Ma in mezzo alla piazza, che stupore,

che ineffabile incontro! Su un cippo emerge dai ginocchi in su, convenientemente drappeggiato e con un delizioso tubino in testa, reso più piccante da una penna di struzzo, un personaggio giovane che tiene la destra sul cuore e guarda lontano, emettendo un do di petto stupendo. Chi è desso? È Manrico, nel Trovatore, o il Tancredi rossiniano?

Ma è Garibaldi; proprio lui, che di lì, da Scarlino, accompagnato da quattro o cinque intrepidi paesani tutti elencati nel marmo con propria effigie e nome, scese giù a Calamartina per imbarcarsi sulla navicella (anch’essa squisitamente a bassorilievo in calce al monumento ) (…) Ora chi non ha visto in tutte le città d’Italia 1 monumenti a Garibaldi ? Tutti brutti, chi più, chi meno, dato il tempo, ingrato alle arti, che li eresse: ma il monumento canoro di Scarlino, in cui Garibaldi appare trasformato in veste di eroe da melodramma, non ha paragoni»

Ma torniamo al percorso di Garibaldi: attraversato il piano di Meleta, i fuggitivi entrano nel bosco della Val Citerna, una piccola valle che, in lieve pendenza, li porta verso la  strada delle Collacchie.

Il gruppo decide di non passare per Portiglioni dove c’era una piccola caserma dei cannonieri di costa e neanche di percorrere la via delle Costiere, che correva sulla costa alta ed era ben mantenuta per permettere il passaggio dei cavalleggeri.

Faceva parte di quella «via dei cavalleggeri» che si snodava (e in alcuni tratti esiste ancora) lungo la riva del mare toscano e che metteva in collegamento torri di guardia e casermette.

Si entra direttamente nel bosco, «e ora, generale, chi ci ha visto, ci ha visto» gli dice Olivo Pina: siamo nel folto della vegetazione maremmana che nasconde tutto e tutti. Dapprima attraverso i cerri, poi dopo una serie di saliscendi, di vallette ombrose, si entra, mentre ci si avvicina alla costa,  nella macchia, forte e scura, verde nelle foglie e nera nel terreno, spesso solcato dalle antiche tracce delle carbonaie: le piante sono il lillatro, l’albatro, l’orniello, la scopa, il sempre presente leccio.

Oggi le colline sono solcate dai sentieri delle Bandite di Scarlino, tutti ben segnalati nei colori bianco-rosso (io ho preso il numero 10, probabilmente lo stesso, metro più metro meno, preso da Garibaldi). Anche se queste alture conservano in alcuni angoli la solitudine della vecchia Maremma, oggi nelle giornate di sole sono attraversate  dagli appassionati di mountain bike, di trekking, di footing o anche, semplicemente, da chi ha voglia di stare all’aria aperta. Garibaldi ed i suoi compagni camminano per stretti sentieri, quelli stessi oggi percorsi da affaticati ciclisti in mountain bike; alla fine anche questi “stradelli” da cinghiali spariscono. «Ora bisogna abbandonare la viottola e traversare la macchia» e giù «a troncamacchia», come si dice in Maremma, spezzando le piante per aprirsi un varco, con Garibaldi che rompe i rami «come un vecchio cacciatore maremmano», complimento non da poco in una terra dove la caccia, soprattutto quella al cinghiale, sfiorava la ritualità e dove il vero cacciatore era un’autorità riconosciuta. Una macchia quella delle Collacchie, che, come scrisse Trevelyan, che la vide nel 1906 era come «the safe shelter of a jungle», il rifugio sicuro di una giungla che si stendeva per chilometri sulle colline, scura, silenziosa, dove gli unici segni dell’attività umana erano qualche sparuto branco di maiali inselvatichiti o le bianche vacche maremmane dalle lunghe corna e solo il corno del mandriano rompeva talvolta il silenzio di questa costa solitaria.

Ma il generale era abituato a ben altre “macchie”: in Sud America aveva attraversato foreste «ove la natura, incomparabilmente prolissa e gagliarda — come scrive lo stesso Garibaldi — ammonticchia sotto pini colossali dell’immensa selva la gigantesca taquara (canna di bambù), le cui reliquie, ammassate su quelle delle altre piante, formano insuperabile strame, suscettibile d’inghiottire e seppellire un individuo, che incautamente vi affidasse il piede».

Arrivati sul crinale si vede il mare come una liberazione dell’anima: tutto il golfo di Follonica e, davanti, la grande massa dell’isola d’Elba. Lo spettacolo è emozionante e, per Garibaldi, è come ritrovare un vecchio amico («sul mare basta una trave, per noi due», per lui e per Leggero).

Sotto di loro si stendono le cale ed i piccoli promontori boscosi del golfo di Follonica, in particolare l’insenatura sotto di loro si chiama Cala Martina, chiusa da Punta Martina a sud, più scoscesa e dove si trova una piccola casermetta, e da Punta Sentinella a nord, verso Follonica, che degrada in modo più dolce verso la minuscola cala. Gli uomini scendono per il ripido pendio verso il mare, attraversano la via delle Costiere, e attraverso 1 fitti cespugli modellati dal vento marino, arrivano alla spiaggia. È una spiaggetta piccolissima, formata da ciottoli, pochissima sabbia e, secondo le stagioni, dalle masse brune dell’alga posidonia, che emana un forte odore di salmastro. Intorno gli scogli di arenaria sui quali, durante le burrasche, si infrangono le onde, che vi trasportan tronchi levigati dalle correnti. Garibaldi non resiste: è una bella giornata di inizio settembre, quando in Maremma fa ancora caldo; si toglie le scarpe e mette i piedi nell’acqua, felice come un bambino: quella parte del spiaggia è coperta dalla vegetazione e dalle rocce e nessuno può vedere il gruppo di uomini, se non dal mare.

L’attesa non è lunga; alle dieci arriva la “barca peschereccia” di Paolo Azzarini che è partita da Follonica; gli fanno segnali dalla riva. È il momento della partenza; oggi, a poca distanza dalla riva, c’è una pietra squadrati semisommersa dalle onde, che indica il punto dove Garibaldi si è imbarcato. Come suo solito, il generale las ai nuovi amici piccoli segni del suo passaggio: un fazzoletto, un fischietto d’argento, un coltellino, un portafo da appunti …

Poi la partenza, con un grido «Viva l’Italial», e la barca prende il largo verso P’Elba.

Sopra la cala, lungo la via delle Costiere, c’è oggi il monumento bianco, con la testa in bronzo di Garibaldi che guarda verso il mare («a Cala Martina è d’obbligo guardar il monumento a Garibaldi», magari quando «il fuoribordo marcia verso le spiagge di Punta Ala» scrive Giorgio Saviane). È stato costruito «auspice il Comune di Gavorrano» (allora non esisteva ancora il Comune di Scarlino) nel 1949. Si è dovuto aspettare un secolo per ricordare un fatto che era ormai radicato nell’immaginario del popolo della Maremma; come scrisse il repubblicano Gaetano Badii nel 1912, «Cala Martina può attendere.

Troppi marmi ufficiali vuole la monarchia per ì suoi re, i suoi generali, i suoi ministri, perché ne rimangano ad illustrare degnamente le date storiche care al popolo» e si sente, in queste parole, tutta l’amarezza per una rivoluzione incompiuta.

Sul marmo si possono oggi leggere i nomi degli uomini che organizzarono l’ultimo tratto della ‘trafila’ di Garibaldi fino al mare: Giulio Lapini, Riccardo Lapini, Domenico Verzera, Biagio Serri (di Massa Marittima); Giuseppe Ornani, Oreste Fontana, Angiolo Guelfi, Olivo Pina, Leopoldo Carmagnini (di Scarlino); Pietro Gaggioli (di Follonica); Paolo Azzarini (di Rio Marina). Un obelisco in pietra grigia era stato innalzato invece nel 1877 sulla piazza principale di Follonica, piazza Sivieri: è la “guglia” divenuta simbolo della città che ancora oggi fa mostra di sé, anche se oppressa da un pretenzioso palazzone che ha rotto l’armonia della vecchia piazzetta maremmana. La guglia prese il posto di una fontana e sui quattro lati erano disposte le lapidi marmoree dedicate a Garibaldi, «inseguito a morte / dagli sgherri della reazione», a Mazzini, al filosofo Giovanni Bovio ed ai salvatori del generale.

All’inaugurazione del monumento, voluto dai reduci delle battaglie risorgimentali, parteciparono tutti gli esponenti del mondo democratico — radicale — repubblicano grossetano, in una città in festa con le finestre imbandierate e con la musica delle bande di Follonica, Massa

Marittima e Suvereto, quest’ultima «dai cascanti pennacchi turchini».

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