IL CELEBRE INNO “A SATANA”

Il celebre inno “A Satana” del premio Nobel (1906) Giosuè Carducci, poeta ed insigne massone bolognese (1835-1907), non  ha alcun presupposto sulfureo o demoniaco. In realtà in questo componimento Carducci ha inteso “riabilitare” gli antichi dei pagani che il cristianesimo aveva nel tempo mistificato, assorbendone le caratteristiche più benevole nei propri santi, ed ammantando di diabolica superstizione ciò che rimaneva nella memoria di quell’antico (e forse più felice) mondo panteista; un mondo artatamente iscritto dalla Chiesa nella “sfera del male” tramite una costante opera di diffamazione e rimozione (per lo più tramite sovrapposizione, anche fisica, della nuova mistica cattolica sull’antica mitologia pagana, trasformandone perfino i templi in chiese cristiane). Un’opera cominciata subito dopo l’editto dell’imperatore Costantino, nel terzo secolo, che fece della Chiesa Cattolica la religione di stato, un’operazione di occultamento culturale reiterata praticamente fino ai giorni nostri.

Tutti gli antichi dei furono trattati come demoni, da esorcizzare e debellare, per rimuoverli dalla memoria storica e spirituale della gente. Anzi l’identikit del diavolo, nell’immaginario popolare, fu creato proprio sulle fattezze del dio pagano Pan con piedi e corna caprine. Una divinità libertaria, eversiva, la più assolutoria per quanto riguardava il naturale esercizio dei sensi e dei piaceri più ormonali degli uomini e delle donne.

Una libertà intollerabile, addirittura blasfema, per la nuova religione cattolica, che non esitò ad assimilare Pan e la sua filosofia a Satana stesso, descrivendo quest’ultimo esattamente con i connotati dell’antica divinità dei boschi e delle campagne, tutto questo ratificato nero su bianco in una bolla emanata da papa Gregoria IX del 1233, contro i sabba.

Carducci inneggia quindi alla religiosità più naturale e più umana del passato, soffocata e denigrata da quella cattolica, e non rivolge certo occulte devozioni al Dio del Male. Solo la Mala-Fede potrebbe supporlo.

Il suo inno cita infine,  e rende loro giustizia, alcuni “ribelli” cristiani che osarono opporsi all’opprimente e spesso violenta teocrazia cattolica, e pagarono il loro coraggio e la loro coerenza con la vita. Si tratta per lo più di monaci riformatori come Arnaldo da Brescia impiccato e bruciato nel 1155; come  l´eretico G.Wycliffe ucciso nel 1384 precursore della riforma luterana; come il boemo G.Hus, anch’egli precursore della riforma, catturato e arso vivo a Costanza nel 1415 (per cancellarne ogni resto il suo corpo fu arso due volte); o come il frate domenicano Savonarola anche lui bruciato sul rogo a Firenze nel 1498.

A queste figure Carducci accosta nei suoi versi anche Lutero, l’uomo della riforma protestante in Germania.

Nelle rime finali dell’inno carducciano, spunta una nuova “divinità”… il Carro del Foco, la locomotiva… esaltata come simbolo del progresso umano. Moderna versione del “fuoco” evolutivo di un altro antico eroe pagano, Prometeo.

L’Inno a Satana per quanto famoso, non è però mai stato considerato da Carducci una delle sue opere migliori. Egli stesso ammise infatti che il suo innato anticlericalismo e la foga dell’ispirazione l’avevano forse portato un po’ fuori misura, facendo scaturire dai suoi versi “invece del grido dell’aquila, il verso del barbagianni”.

Ma se non è la lirica più amata dal suo stesso autore, l’Inno A Satana resta forse quella che ne rivela con più sincerità l’indole e l’essenza, avversa ad ogni ipocrisia della fede e dei dogmi. Un inno, insomma, alla libertà dei corpi e delle menti.

A Satana

A te, de l’essere
Principio immenso,
Materia e spirito,
Ragione e senso;

Mentre ne’ calici
Il vin scintilla
Sì come l’anima
Ne la pupilla;

Mentre sorridono
La terra e il sole
E si ricambiano
D’amor parole,

E corre un fremito
D’imene arcano
Da’ monti e palpita
Fecondo il piano;

A te disfrenasi
Il verso ardito,
Te invoco, o Satana,
Re del convito.

Via l’aspersorio,
Prete, e il tuo metro!
No, prete, Satana
Non torna in dietro!

Vedi: la ruggine
Rode a Michele
Il brando mistico,
Ed il fedele

Spennato arcangelo
Cade nel vano.
Ghiacciato è il fulmine
A Geova in mano.

Meteore pallide,
Pianeti spenti,
Piovono gli angeli
Da i firmamenti.

Ne la materia
Che mai non dorme,
Re dei i fenomeni,
Re de le forme,

Sol vive Satana.
Ei tien l’impero
Nel lampo tremulo
D’un occhio nero,

O ver che languido
Sfugga e resista,
Od acre ed umido
Pròvochi, insista.

Brilla de’ grappoli
Nel lieto sangue,
Per cui la rapida
Gioia non langue,

Che la fuggevole
Vita ristora,
Che il dolor proroga,
Che amor ne incora.

Tu spiri, o Satana,
Nel verso mio,
Se dal sen rompemi
Sfidando il dio

De’ rei pontefici,
De’ re cruenti;
E come fulmine
Scuoti le menti.

A te, Agramainio,
Adone, Astarte,
E marmi vissero
E tele e carte,

Quando le ioniche
Aure serene
Beò la Venere
Anadiomene.

A te del Libano
Fremean le piante,
De l’alma Cipride
Risorto amante:

A te ferveano
Le danze e i cori,
A te i virginei
Candidi amori,

Tra le odorifere
Palme d’Idume,
Dove biancheggiano
Le ciprie spume.

Che val se barbaro
Il nazareno
Furor de l’agapi
Dal rito osceno

Con sacra fiaccola
I templi t’arse
E i segni argolici
A terra sparse?

Te accolse profugo
Tra gli dèi lari
La plebe memore
Ne i casolari.

Quindi un femineo
Sen palpitante
Empiendo, fervido
Nume ed amante,

La strega pallida
D’eterna cura
Volgi a soccorrere
L’egra natura.

Tu a l’occhio immobile
De l’alchimista,
Tu de l’indocile
Mago a la vista,

Del chiostro torpido
Oltre i cancelli,
Riveli i fulgidi
Cieli novelli.

A la Tebaide
Te ne le cose
Fuggendo, il monaco
Triste s’ascose.

O dal tuo tramite
Alma divisa,
Benigno è Satana;
Ecco Eloisa.

In van ti maceri
Ne l’aspro sacco:
Il verso ei mormora
Di Maro e Flacco

Tra la davidica
Nenia ed il pianto;
E, forme delfiche,
A te da canto,

Rosee ne l’orrida
Compagnia nera,
Mena Licoride,
Mena Glicera.

Ma d’altre imagini
D’età più bella
Talor si popola
L’insonne cella.

Ei, da le pagine
Di Livio, ardenti
Tribuni, consoli,
Turbe frementi

Sveglia; e fantastico
D’italo orgoglio
Te spinge, o monaco,
Su ‘l Campidoglio.

E voi, che il rabido
Rogo non strusse,
Voci fatidiche,
Wicleff ed Husse,

A l’aura il vigile
Grido mandate:
S’innova il secolo,
Piena è l’etate.

E già già tremano
Mitre e corone:
Dal chiostro brontola
La ribellione,

E pugna e prèdica
Sotto la stola
Di fra’ Girolamo
Savonarola.

Gittò la tonaca
Martin Lutero;
Gitta i tuoi vincoli,
Uman pensiero,

E splendi e folgora
Di fiamme cinto;
Materia, inalzati;
Satana ha vinto.

Un bello e orribile
Mostro si sferra,
Corre gli oceani,
Corre la terra:

Corusco e fumido
Come i vulcani,
I monti supera,
Divora i piani;

Sorvola i baratri;
Poi si nasconde
Per antri incogniti,
Per vie profonde;

Ed esce; e indomito
Di lido in lido
Come di turbine
Manda il suo grido,

Come di turbine
L’alito spande:
Ei passa, o popoli,
Satana il grande.

Passa benefico
Di loco in loco
Su l’infrenabile
Carro del foco.

Salute, o Satana,
O ribellione,
O forza vindice
De la ragione!

Sacri a te salgano
Gl’incensi e i voti!
Hai vinto il Geova
De i sacerdoti.

Settembre 1863

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