La libertà”
Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta. Così Virgilio introduce Dante a Catone, sulla spiaggia del primo canto del Purgatorio. Sono versi così noti da essere passati – e banalizzati, come accade – in proverbio. Ma siamo sicuri che l’addomesticamento proverbiale di questi versi corrisponda davvero alla comprensione, e di questo luogo poetico, e della tematica della libertà nell’opera di Dante? Prima di tutto, questo passo del Purgatorio è meno piano di quanto possa sembrare. Può sembrare singolare, infatti, o almeno non così ovvio, che Virgilio indichi il supremo valore cercato dal suo discepolo proprio nella ‘libertà’. Non sarebbe stato più appropriato dire che Dante stava cercando Dio, il sommo bene, Beatrice, la salvezza …? Viene il sospetto che la citazione della libertà come fine ultimo del viaggio dantesco sia strumentale: un modo per ingraziarsi il severo custode della montagna, il “veglio” già citato nel Convivio come “severissimo fautore della vera libertà”, che aveva preferito “morire da libero che privo di libertà restare in vita”.
E infatti, il richiamo alla sete di libertà di Dante trapassa subito, nelle parole di Virgilio, in aperto omaggio al gesto suicida di Catone e alla gloria celeste che ne sarà conseguenza: Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara in Utica al morte, ove lasciasti la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara”. Sia ha a che fare qui, d’altronde, col Virgilio un po’maldestro di questo inizio di Purgatorio: un Virgilio spaesato, in un mondo che egli non conosce e che non gli appartiene – che non gli apparterrà mai fino in fondo – e in cui egli si muove con uno strano impaccio; tanto da guadagnarsi, fin da subito, la ruvida rimessa a posto di Catone: “Non ci è mestier lusinghe”; non è il caso di esibirsi in superflue piaggerie.
Ma non si tratta soltanto di “lusinghe”, di complimenti fuori posto. La libertà è veramente il valore che fa da spartiacque tra il cieco buio infernale e la trasparente alba “d’oriental zaffiro” che accoglie Dante e Virgilio sulla spiaggia del Purgatorio. Ma è una libertà probabilmente molto diversa da quella che noi moderni intendiamo come tale. Erede della liberté rivoluzionaria, della freedom from fear dei coloni americani, delle utopie di liberazione del Novecento, la nostra è una libertà politica, dalla sopraffazione di una legislazione o di un potere oppressivo; è libertà sociale, dal bisogno e dall’ineguaglianza; è libertà personale, come espandersi non condizionato della propria realizzazione di sé o del proprio piacere. E’ libertà Di voto, libertà DI coscienza, libertà Di opinione. Ma la libertà di Dante non è una libertà di; è una libertà da. La libertà di Dante è la metà di un dittico concettuale e morale, di cui i moderni hanno offuscato l’altra faccia. La libertà di Dante è il rovescio di una servitù; e conserva in sé la potenza semantica di un contrario, di un’opposizione, di un rovesciamento. Sentiremo l’epistola che Dante esiliato rivolge ai suoi “scelleratissimi” concittadini: “Non vi accorgete…che è la cupidigia che vi domina,…che vi tiene costretti con minacce fallaci e vi imprigiona nella legge del peccato e vi proibisce di ubbidire alle santissime leggi […] l’osservanza delle quali…non solo è dimostrato che non è servitù, ma anzi, a chi guardi con perspicacia, appare chiaro che è la stessa suprema libertà”. Dominare, costringere, imprigionare, proibire: il verbi di coazione delimitano con esattezza il campo semantico opposto a quello della libertà, e ne chiaroscurano suggestivamente l’implicita dialettica: non a caso Dante va cercando la libertà, in un processo, in uno sviluppo spirituale di affrancamento, di faticosa uscita da una condizione di schiavitù. E d’altronde, cosa cantano le anime dei beati, sul vascello che li guida alle prode del Purgatorio, al momento di sbarcare nel loro nuovo mondo? In exitu Israel de Aegypto: il salmo che celebra la vittoria degli Ebrei su Faraone, la traversata del Mar Rosso, la fuga spettacolare dalla servitù, l’inizio di un itinerario defatigante in cerca della Terra Promessa e della libertà.
La sua Terra Promessa Dante la raggiunge sulla cima della montagna Purgatoriale, tra “l’erbette, i fiori e li arbuscelli” del Paradiso terrestre, là dove l’intera parabola dell’esistenza individuale e della storia dell’uomo viene per così dire messa fra parentesi, e si ritorna al principio, all’ aura dolce, sanza mutamento, all’eterna primavera che Dio aveva preparato, prima della colpa, ai nostri primi parenti. In questa cornice di idillio originario, Dante colloca il suo congedo – inconsapevole – da Virgilio, che lo incorona padrone di se stesso, e sancisce con infinita dolcezza e malinconia la raggiunta maturità del suo pupillo: “Non aspettar mio dir più né mio cenno; libero dritto e sano è il tuo arbitrio, e fallo fora a non fare a suo senno; per ch’io te sovra te corono e mitrio”.
“Libero dritto e sano è il tuo arbitrio”. Il senso della libertà in Dante rischia ancora di sfuggici,
se non guardiamo da vicino la meccanica di quella libertà, e della servitù che è il suo opposto. In questa servitù domina la cupidigia, come abbiamo sentito nella lettera ai fiorentini; o l’appetito come sentiremo in un brano della Monarchia: “Se…il giudizio è mosso dall’appetito che in un modo qualsiasi lo previene, non può esser libero, perché non si muove da sé, ma è tratto schiavo da altro.” Ancora la dialettica fra libertà e schiavitù; tra un giudizio non compromesso dalla passione e il condizionamento dell’appetito. Perché la libertà in Dante è “de la volontà la libertate”, come dirà in Paradiso o, nelle parole ancora della Monarchia, “principio primo della nostra libertà si è la libertà dell’arbitrio”. Anche qui, l’io della modernità non può che sentirsi lontano, forse dolorosamente lontano, dalle certezze dantesche. L’io spodestato del soggetto moderno, non più padrone a casa sua; l’io invaso dall’inconscio, o disturbato dal progresso delle neuroscienze, che non sanno dove collocare l’organo della libertà nella contemporanea topografia del cervello, rischiano di rendere il concetto di libertà dantesca remoto, supremamente inattuale. Dante vive in un regime intellettuale e morale di orgogliosa alterità antropocentrica; in cui la diversità radicale della ragione apparenta l’uomo al divino e alla sua trascendenza. L’intrisichezza del libero arbitrio umano con le “creature intelligenti”, come dice Dante nel Paradiso, cioè con le intelligenze angeliche, con le quali siamo destinati a vivere, oltre la morte, “a mo’ d’iddii”, come veri e propri dei, secondo il dettato della Monarchia, appartiene ad una concezione dell’umano che la continuità evoluzionistica ha incrinato, nella coscienza dei moderni, senza riparo. Ma per Dante la meccanica del libero arbitrio è limpida; e nelle parole di Marco Lombardo, nel XIV del Purgatorio, essa riceve la più esatta ed esigente definizione: “lume v’è dato a bene e a malizia, e libero voler”. Ossia, la ragione è ben in grado di discernere il bene dal male; e l’esercizio della libertà consiste nello scegliere l’uno o l’altro, senza appello. E tuttavia, Dante non è un astratto filosofo, o teologo; è una mente politica, una scrutatore instancabile della scena degli uomini e della loro commedia. E’ vero che Marco Lombardo liquida senz’appello l’ideologia determinista, che pretenderebbe di vedere nella corruzione e nel male del mondo, e nell’immoralità degli individui, la conseguenza di un influsso celeste, ovvero un fato stellare inevitabile: “Voi che vivete ogne cagion recate pur suso al cielo, pur come se tutto movesse seco di necessitade. Se così fosse, in voi fora distrutto libero arbitrio, e non fora giustizia per ben letizia, e per male aver lutto”. Ma appunto, Dante non considera l’esercizio del libero arbitrio come un comportamento morale assoluto, sciolto da ogni condizionamento e influsso e coercitiva circostanza: nel discorso di Marco, trovano ben posto quelli che noi chiameremmo i mali della società. “l’anima semplicetta che sa nulla”, e che si svia dietro ogni
apparenza di bene, ovvero dietro ad ogni lusinga di piacere, ha bisogno di leggi, di istituzioni, di regole, di autorità, che aiutino la sua leggerezza sventata a tenersi per la retta strada. E se questo necessario corredo di istituzioni, di regole, di autorità, collassa, Dante è ben consapevole che la corruzione del mondo si può fare così devastante da compromettere gravemente l’esercizio del libero arbitrio e la scelta del bene. “Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?” Questa è la chiave di volta del discorso di Marco Lombardo, e dell’intero discorso dantesco sulla libertà. Il processo di liberazione dal male non avviene in Dante entro i parametri di un’astratta meccanica morale, ma nella concretezza della storia. E nella storia, se la spada si è congiunta col pasturale, e le supreme autorità, le istituzioni, diremmo noi, non funzionano, può essere molto difficile andare in cerca della libertà; e tuttavia, è improbabile che il moderno appello alle colpe della società lo troverebbe consenziente; la sua etica della responsabilità non accetterebbe certo di affogare nella nostra melassa sociologica: “Ben puoi veder che la mala condotta è la cagion che’l mondo ha fatto reo”. Il mondo, sì, è “reo”, e la società è corrotta; e la Chiesa è uno scandalo, e l’impero fa acqua da tutte le parti, e le città, il nuovo che avanza, si divorano in una faida sanguinosa senza fine; ma le responsabilità sono implacabilmente identificate, una per una, e la convinzione di poterne investigare la “cagion” sorregge l’intera opera di Dante.
Si sarà notato che tutti i passi della Commedia che si sono rammentati vengono dal Purgatorio..
Il Purgatorio, come sappiamo, è un’invenzione di Dante. Né la teologia, né la tradizione letteraria furono in grado di offrire al poeta spunti decisivi per la concezione del secondo dei tre regni ultraterreni. E’ vero che nel 1254 Papa Innocenzo IV aveva in qualche modo formalizzato l’esistenza di un luogo di pena, intermedio tra la dannazione infernale e la beatitudine eterna; ma si trattava di una formalizzazione debole, notificata a mezzo di una lettera apostolica, non la proclamazione di un dogma; e la configurazione fisica, l’aspetto di questo regno di penitenza e di riscatto rimaneva indistinta e vaga, indeterminata. E’ Dante che pareggia il rilievo teologico e morale del Purgatorio a quello dell’Inferno e del Paradiso; è Dante che inventa la montagna purgatoriale, sorgente sull’infinita distesa dell’Oceano, taboo geografico certo, come Ulisse sa molto bene, ma pur sempre appartenente alla nostra terra, alla nostra vicenda di luce e di ombra, di alba e di tramonto; è Dante che inventa, soprattutto, lo stato psicologico e spirituale dei purganti, anime sospese, in attesa, peregrinanti, anime ancora legate alla dimensione umana del tempo, del trascorrere del tempo umano. Sia l’Inferno, atrocemente fisso nella sua coazione a ripetere, sia il Paradiso, che conosce solo il falso movimento dl soggetto penetrante poco a poco, per gradi, nell’immobile luce del motore amoroso del cosmo, sono dimensioni eterne, intemporali; ma il Purgatorio è una realtà transeunte, effimera; è un luogo di passaggio, una sala d’attesa, una clinica dell’anima in cui purganti seguono con infinita pazienza, un lungo e faticoso programma di rieducazione, una consolante terapia che li conduca, passo dopo passo, alla guarigione definitiva.
Non a caso il Purgatorio è scandito da un continuo succedersi di riti d’ingresso, di passaggio, di purificazione; dai riti iniziali – il lavacro con la prima rugiada mattutina, il cingersi di giunco –
all’ultimo passaggio cruciale, che ascolteremo, ovvero la traversata del muro di fuoco oltre il quale attendono Dante gli occhi di Beatrice. Lungo questa terapia, in questa dimensione dell’anima così spiccatamente temporale, in questa attesa di un eterno non ancora posseduto, si colloca la riflessione dantesca sulla libertà e sul libero arbitrio; e si può ben capire perché. E’ un atto di libertà, di libero pentimento – magari una sola ‘lagrimetta, come nel caso di Buonconte da Montefeltro – che divide la dannazione dalla salvezza, “il temporal fuoco e l’etterno”, come dice Virgilio; “libertà” è davvero la carta che ammette, o no, al secondo regno oltramondano. E siccome questo secondo regno non è più la vita umana lasciata alle spalle, naturalmente, ma non è neanche la vita trasumanata del Paradiso, ed è piuttosto una sorta di vita rivissuta, ben si comprende come anche il valore fondante
di questa esistenza, la libertà, sia oggetto così assiduo di rappresentazione e dizione poetica. Anche qui, il Purgatorio ripercorre e rivive la vita già vissuta: ché queste anime non sarebbero qui se non avessero già scelto, in vita, secondo la libertà dell’arbitrio, il bene. Ma quella scelta va continuamente rinnovata, e ribadita, cornice per cornice, di fronte ad ogni imperfezione o debolezza che ogni cornice ripropone con didattica regolarità di fronte ai penitenti. Il discorso sulla libertà diventa così il ricordo della propria libertà; la memoria degli atti imperfetti compiuti in vita, ma anche delle lacrime di pentimento che, in vita, li hanno riscattati. Il passaggio del Mar Rosso e la traversata verso la Terra Promessa sono già avvenuti: ma adesso, nel tempo paziente del Purgatorio, quell’atto decisivo di libero arbitrio deve distendersi in una più profonda memoria e coscienza di sé. In Purgatorio, le scelte sono già state fatte, la vita si è chiusa, e il libero arbitrio pienamente esercitato, non meno che nell’Inferno o in Paradiso; ne rimane però la rappresentazione, l’impersonamento terapeutico e liberatorio. Col Purgatorio, Dante ci dice che non basta l’atto di libero arbitrio, singolo, puntale, compiuto una volta per sempre; non basta il puro atto di contrizione; c’è un tempo dell’anima, un tempo di guarigione, necessario a diventare il se stessi che si è deciso, liberamente, di essere.