Come
abbiamo dovuto imparare dalla storiografia risorgimentale, Camillo Benso
conte di Cavour viene ritenuto il vero artefice dell’unità italiana che
avrebbe realizzato tessendo sottili trame con la sua diplomazia. Insomma, se
il Piemonte fu la matrice della nuova Italia, Cavour ne sarebbe il pater.
Considerazioni: Qualcuno ritiene, invece, che i padri dell’Italia siano stati
tre: Vittorio Emanuele, Cavour e Garibaldi. La verità è che la banda dei tre
ha partecipato alle vicende legate all’ingrandimento dello Stato
sabaudo-carignanesco, nel frattempo scomparso. L’Italia è altra cosa! Forse,
nascerà!
i cavour
I Benso
di Cavour erano a metà strada tra la nobiltà antica e la nobiltà nuova: il
titolo di marchese lo avevano comprato nel 1649, ma già prima figuravano tra
i servitori della Corona. Il marchese Michele di Cavour, padre di Camillo,
non era solo il capo zelante degli sbirri municipali di Torino, ma era attivo
anche in veste di banchiere, di industriale, di grande agricoltore. Azionista
di società per la navigazione sui laghi, proprietario di molini e di tenute
agricole, nelle quali fu il primo ad impiegare trebbiatrici meccaniche,
esperto di banca e di contratti di borsa, il padre trasmise al figlio Camillo
il suo senso pratico ed una certa dose di opportunismo (MC).
i cavour poliziotti
Nel
1798 si videro contadini furenti dare addosso ai francesi, ai giacobini e ai
modernisti: essi dimostravano così quanto poco garbasse loro quel regime
napoleonico, affaristico e borghese, al quale avevano aderito con entusiasmo
il marchese Michele di Cavour, padre di Camillo, ed il principe di Carignano,
padre di Carlo Alberto (MC). “Si aveva la felicità di sentirsi addosso
l’occhio, il sospetto e l’artiglio di cinque polizie – così rievocava i tempi
precedenti il 1848, il giornalista Vittorio Bersezio – e se si tien conto
d’una speciale, tutta dedicata alla vigilanza degli studenti, se ne avevano
sei. La più seccante era la polizia urbana a cui presiedeva il marchese
Cavour col titolo di vicario, nominato dal re e in diretta corrispondenza col
re. Gran fortuna pel nome dei Cavour che sia stato tramandato alla storia con
la aureola gloriosa del grande ministro Camillo, figliuolo del vicario,
perché il padre non avrebbe lasciato nel ricordo degli uomini che nomea
impopolare e odiata. Michele Benso di Cavour ostentava opinioni le più
assolutiste, i princìpi peggio che conservatori, era disposto a servire con
esagerazione di zelo il governo stabilito per arbitrario che fosse.
Restaurata la monarchia sabauda, il marchese Michele fu tra i più
intransigenti nemici di ogni cosa introdotta dal regime imperiale, fra i più
furibondi propugnatori della compiuta risurrezione di ogni antico istituto e
costume, fra i più accalorati a respingere il carro dello Stato nelle rotaie
del sistema precedente la rivoluzione. La polizia del vicario aveva in gran
cura gli atti esterni di ossequio alla religione e alla monarchia. Se,
passando una processione o un funerale o una schiera di frati, di
associazioni religiose, non vi toglievate il cappello, c’era presto la mazza
di una guardia del vicario a gettarvelo giù. Questa feroce bestia a sei teste
della polizia poteva entrare in casa di qualunque a qualsiasi ora, frugare,
perquisire, sequestrare, arrestare, mandare in cittadella, nella fortezza di
Fenestrelle, in Sardegna, anche in esilio: esempio luminoso Vincenzo
Gioberti” (MC).
délicatesse des nerfs
Di
questa malattia soffrivano i Cavour. Il nonno di Cavour, Giuseppe Filippo, ne
era afflitto. Il fratello Gustavo soffriva di depressione nervosa; nel 1856
ne soffrì per più di un anno. Il nipote Ainardo dette segni di squilibrio
mentale tanto da condurlo, ultimo erede del nome dei Cavour, alla follia ed a
una fine precoce. Di Camillo vedremo alcuni comportamenti da squilibrato
mentale (R1 R3). Considerazioni: Nel corso di queste pagine noteremo (fatto
pochissimo rilevato dagli storici delle vicende dell’unità italiana e, in
ogni caso, non evidenziato) la comunanza di interessi tra ambienti finanziari
protestanti e ambienti finanziari ebraici e noteremo anche la frequentazione
del Cavour di quegli ambienti e del suo coinvolgimento, personale e da
statista, in quegli interessi. Una lettura delle vicende di quegli anni in
chiave anticattolica, o, per meglio dire, ostile agli ambienti politici e
finanziari legati al cattolicesimo, è da preferire alla stantia storia
dell’epopea risorgimentale e delle ragioni della nascita dello Stato unitario
italiano.
cavour raccomandato
Nel
1823, quando il giovane Cavour aveva 13 anni, il padre lo raccomandò al re
Carlo Alberto di “nominarlo tra il personale della sua corte”,
evidentemente preoccupato per il suo avvenire (VF). Considerazioni: Come
anche oggi si ritiene, chi nella vita non aveva altra possibilità o
attitudine (come stiamo per vedere), si dava alla politica, cercando un
protettore.
viaggi e conoscenze del cavour
Nel
1834, dopo un periodo buio della sua vita, Cavour lasciò Torino per un
viaggio che lo portò in Svizzera, in Francia ed in Inghilterra. In Svizzera
frequentò gli ambienti che determinarono poi la caduta del regime
aristocratico e la salita al potere di quella classe borghese che ha poi
formato l’attuale Confederazione Elvetica. A Parigi si trattenne tre mesi. La
Francia in quegli anni era travagliata da un inasprimento tra le relazioni
sociali e da una esplosione anticattolica. Cavour divise il suo tempo tra le
mondanità, le relazioni sociali con gli ambienti dell’aristocrazia e gli
studi sociali. Dopo la Francia l’Inghilterra. Anche l’Inghilterra, in quegli
stessi anni, viveva quella impetuosa rivoluzione industriale e sociale che
doveva portare al predominio della industria, della finanza e degli affari
sulla tradizionale aristocrazia (R1). Nel 1837 Cavour fu di nuovo a Ginevra,
poi in Francia e poi ancora in Inghilterra. A Ginevra ebbe occasione di
conoscere Rothschild, ed a Ginevra conobbe i banchieri Odier. Tra il luglio
1837 e il giugno 1843 trascorse fuori dal Piemonte e per gran parte a Parigi,
almeno due anni e due mesi (R1).
cavour malversatore
Cavour
nel 1837 fu nominato amministratore di una sua zia, con l’incarico di
liquidare estese proprietà che questa aveva in Francia. Cavour, spinto dal
costante proposito di formarsi al più presto una fortuna, e disponendo dei
fondi a sua disposizione per gli affari della zia, cominciò a giocare in
borsa (R1).
malversatore – II
Nell’ottobre
del 1849, durante le trattative con la casa Rothschild, per la concessione di
un prestito di 75 milioni al Piemonte per il risarcimento all’Austria dopo la
sconfitta di Novara, il banchiere ebreo sembra abbia ceduto al Cavour al
prezzo di costo di 77 lire una rendita di 37.500 lire corrispondente ad un
capitale di 750 mila lire. Nell’ottobre 1850 Cavour diventava ministro (R2).
cavour scommettitore in borsa
Nell’ottobre
del 1840, Cavour, sfruttando notizie provenienti da Hortense Allart de
Méritens, amante di Sir Henry Lytton Bulwer, segretario dell’ambasciata
inglese a Parigi e allora uomo di fiducia di Palmerston, circa una crisi che
si svolgeva tra l’Egitto e la Siria, decise di tentare una grossa
speculazione al ribasso. La minaccia di guerra, nella quale poteva trovarsi
coinvolta la Francia, aveva provocato gravi inquietudini nel mondo degli
affari, i cui esponenti più autorevoli, con i Rothschild alla testa, si erano
impegnati in un tenace sforzo a favore della pace; e in borsa i riflessi
della situazione si erano tradotti in una crescente incertezza e in ribassi
notevoli. Cavour calcolò che la guerra avrebbe provocato ulteriori ribassi e
fece una grossa operazione, impegnandosi a perfezionarla a fine mese: faceva
assegnamento su un guadagno netto di 200 mila franchi. La guerra non scoppiò
per la resistenza del re ed in borsa si delineò una vigorosa tendenza al
rialzo. Il disastro si rivelò al Cavour in tutte le sue proporzioni: “il
n’était plus…” “non c’è più tempo, tutti i miei sogni svaniscono e
mi vedo sprofondare in un abisso… Tutto ciò che ho guadagnato in tre anni
l’ho perduto in un giorno. In breve, devo pagare per la fine del mese 45 mila
franchi. Si devono pagare oppure farsi saltare il cervello”. Ed allora
scrisse una disperata ed auto accusatoria lettera al padre che dovette
soccorrere il figlio (R1). Considerazioni: Rileggiamo il capitolo precedente.
Mi sembra che questa vicenda sinteticamente ci dica su Cavour più di molti
ponderosi volumi di storia. Nessuno scrupolo nell’usare il sesso come
strumento per ottenere vantaggi, nessuno scrupolo nell’usare informazioni
riservate, comportamento spregevole dell’ambiente da lui frequentato, azzardo
estremo (altro che freddo calcolatore!), isterismo di fronte ai problemi,
piccolezza d’animo nel rapporto con il padre. Cavour in questa occasione è
quello che sarà durante le vicende politiche che lo vedranno protagonista.
cavour giocatore
Grandi
sarti, scommesse alle corse, teatro, gioco spericolato e fortissimo,
compagnie con “les plus mauvais sujets de Paris” queste furono le
principali occupazioni di Cavour a Parigi nel 1837. “Un soir j’ai gagné
soixante mille francs, et j’en ai reperdu trente le lendemain” annotava
Cavour nel suo diario (R1).
la leggenda del cavour imprenditore agrario – I
Nel
1837 Camillo di Cavour fu nominato dal padre, sempre preoccupato per la
mancanza di un avvenire del figlio, amministratore della tenuta di famiglia
di Leri. Nell’investitura, però, il padre si riservava “la generale
sorveglianza”, forse ammaestrato dalle precedenti esperienze del figlio.
La decisione di assumere la direzione di Leri, assumeva agli occhi di Cavour
il significato di una scelta di fondo, destinata a determinare tutto il corso
ulteriore della sua vita. Dichiarò di dedicarsi all’agricoltura deciso
“a procurarmi un gran numero di scudi senza curarmi delle
raccomandazioni delle associazioni agricole e senza curarmi delle utopie di
fattorie modello”. “Je tâche de me procurer le plus grande nombre
d’écus sans m’inquiéter des mémoires des sociétés agricoles et des utopies
des fermes modèles”. Tra i numerosi tentativi infruttuosi di cambiamento
ed innovazioni troviamo quello di introdurre la barbabietola da zucchero: fu
abbandonata dopo qualche anno. La conduzione della tenuta agricola proseguì
per alcuni anni senza significativi risultati fino al 1843 quando Cavour,
ancora poco soddisfatto dello stato dell’azienda agricola, chiese ad un
grosso agricoltore, Giacinto Coiro, di voler cooperare alla direzione
dell’azienda agricola. In seguito la direzione passò al solo Coiro (R1 R2).
Gli storici ufficiali crearono al Cavour la fama di grande imprenditore
agricolo, confondendo i fallimenti del Cavour con la sana amministrazione e
con i buoni risultati del Coiro che, al contrario del Cavour, non inseguiva
ipotesi non sperimentate o idee suggestive.
la leggenda del cavour imprenditore agrario – II
Nei
suoi viaggi in Inghilterra Cavour aveva avuto modo di osservare la tecnica
del drenaggio dei terreni. Decise di dare sperimentazione a questa tecnica,
assumendosene personalmente il rischio e le spese. Nonostante l’impegno, la
sperimentazione fallì per errori tecnici e per la diversità dei terreni. Una
condotta più prudente avrebbe evitato il cattivo esito. Nella complessiva
esperienza di Cavour agricoltore e uomo d’affari i rischi assunti furono
eccessivi e le perdite talora gravi (R2). Tornano alla mente gli avvertimenti
del padre marchese Michele che invitava il figlio a non intraprendere
iniziative se non sperimentate a proprio rischio da altri (R1).
Considerazioni: Gli storici ufficiali hanno sempre giustificato i fallimenti
del Cavour imprenditore (quelli informati, poiché la maggioranza hanno
ripetuto pappagallescamente la favola del Cavour sagace imprenditore) con i
risultati che avrebbe avuto con l’unità d’Italia, creando così una relazione
tra fatti non accettabile. Noi sappiamo che sempre, quando i risultati
dipendevano direttamente dal Cavour, questi sono stati negativi.
abuso di potere
Cavour
impedì la realizzazione di quello che poi diventerà il Canale che da lui
prese il nome, secondo il progetto originario: perché prevedeva
l’attraversamento della sua azienda agricola (R2).
la leggenda del cavour imprenditore – I
Con il
grande sviluppo delle ferrovie che in quegli anni si stava realizzando,
Cavour, entrato in quegli ambienti finanziari protestanti ed ebraici, come
abbiamo visto, iniziò la sua carriera di imprenditore con due clamorosi
fallimenti. Si costituì nel 1838 la Compagnie Savoyarde che aveva come
oggetto sociale il collegamento di Chambéry e Lione attraverso ferrovia e
navigazione fluviale. Impegnatosi con 20 mila lire su un capitale iniziale di
1.200.000, aumentò la sua quota di altre 20 mila lire mentre la Compagnie
stava annaspando a causa del cattivo progetto. Successivamente, con la
Compagnie che stava già fallendo si impegnò per una cifra imprecisata
chiamando il padre, ancora una volta, in aiuto. La Compagnie a dispetto della
fede del Cavour fallì. Il nostro a questo punto concepì il progetto di una
nuova società che avrebbe dovuto aggiudicarsi i beni della Compagnie
Savoyarde fallita. In questa nuova società Cavour si impegnò con 40 mila
lire. Anche questa nuova società fallì! E se nella prima era entrato nel
consiglio di amministrazione dopo la costituzione, nella seconda ne fu
promotore, maggiore azionista e tentò di salvarla entrando nella Reale
Commissione per le strade ferrate per influenzarne le decisioni (R1).
la leggenda del cavour imprenditore – II
Nel
1846 Cavour concepì il disegno di unire due fabbriche torinesi di prodotti
chimici per utilizzarne i sottoprodotti come fertilizzanti per l’agricoltura.
Nel 1847 veniva costituita la Schiapparelli Rossi e C. Il Coiro al quale fu
inviato questo concime perché lo provasse affermò: “Devo mio malgrado
fare sentire che il concime Schiapparelli non vale un acca”. A causa
dell’andamento negativo Cavour portò il suo impegno finanziario dalle
iniziali 20 mila lire a 100 mila. Nel 1856 la Schiapparelli Rossi e C. fallì
(R2).
la leggenda del cavour imprenditore – III
Nel
1844 si costituì una compagnia per la realizzazione del progetto di
costruzione della ferrovia Torino Alessandria. Il capitale era di 30 milioni,
equamente diviso tra tre gruppi, tutti di ambiente protestante. Al gruppo
parigino facevano capo il banchiere Gabriel Odier ed il barone Adolphe
d’Eichtal. Il gruppo ginevrino comprendeva le banche Hentsch, Turrettini e
Pictet, Naville e Lombard Odier. Infine il gruppo piemontese faceva capo ai
De La Rüe, banchieri genovesi amici di Cavour, ed ai banchieri Mestrezat.
Cavour aveva assicurato i banchieri sulla riuscita dell’impresa per la
presenza nella commissione governativa di un persona che l’avrebbe favorita
facendo avere la concessione da parte del governo. Le dimissioni di questo
personaggio fecero fallire il progetto (R2).
la leggenda del cavour imprenditore – IV
Nel
1850 si costituì la Gaston Blondel e C. per la brillatura del riso nella
quale Cavour investì 100 mila lire su 500 mila di capitale. Nel settembre
dell’anno successivo la società fu sciolta con perdite per Cavour di oltre 11
mila lire (R2).
la leggenda del cavour imprenditore – V
Uno dei
più significativi avvenimenti che ci chiarisce quale fosse l’ambiente nel
quale si muoveva Cavour e che spiega un personaggio tutto sommato di terzo
ordine, senza particolari caratteristiche di importanza, anche nel suo paese
di terzo ordine, è quello della fornitura di materiale ferroviario allo Stato
sabaudo da parte di ditte straniere, favorita dal Cavour. Associato alla
banca Dupré e, ancora una volta, ai De La Rüe, Cavour divenne mediatore per
forniture allo Stato di materiale ferroviario da parte di una ditta inglese,
la Castellain di Liverpool. Strane vicende caratterizzarono questi affari:
aste in cui il vincitore si ritirava, contestazioni della qualità dei
materiali poi accettati. Questa volta Cavour lucrò 50 mila lire ma ben si può
pensare che i guadagni vennero da maneggi e non da abilità nel condurre gli
affari (R2).
la leggenda del cavour imprenditore…
Specialmente
tra il 1843 e il 1850 quando entrò al governo, Cavour si dedicò ad una serie
svariatissima di iniziative agricole, industriali, commerciali, finanziarie,
bancarie. Michelangelo Castelli, come vedremo la persona a lui più fedele,
tanto da essere nominato a capo degli archivi di Torino, e quindi cane da
guardia delle vere informazioni contenute nei documenti, riferisce che in
gran parte le speculazioni cavouriane si chiusero in perdita per il conte che
“nella pratica perdeva i benefizi che doveva ripromettersi nella
teorica” (R2). Considerazioni: In tutti libri da me consultati non ho
mai trovato la spiegazione dell’origine dei capitali che Cavour investiva e
distruggeva. Salvo alcuni accenni ai banchieri genovesi De La Rüe ed ai
banchieri ginevrini de La Rive che finanziarono parzialmente alcune imprese,
il resto è mistero. Come vedremo più avanti, a proposito dei carteggi dei
Savoia, la storia, quella scritta, è ancora in gran parte da leggere. Quella
non scritta, quella vera, deve essere ritrovata con metodo logico e critico.
cavour massone?
Alla
sicura appartenenza affaristica agli ambienti protestanti ed ebraici, secondo
alcuni si aggiungerebbe l’appartenenza alla massoneria. Anche se l’autentica
affiliazione massonica di Cavour manca di prove documentali convincenti,
Cavour fu ritenuto Gran Maestro in pectore del Grande Oriente Italiano (AM).
Così come non è riscontrabile l’accusa di pedofilia rivolta al Cavour da più
parti.
metamorfosi del cavour
Cosa
sia successo nel 1850 perché da sfaccendato e dilapidatore di sostanze
paterne si sia trasformato in uomo politico, non si capisce. È logico
supporre che nei suoi viaggi in Inghilterra ed in Francia Cavour sia venuto a
contatto con ambienti della grande finanza internazionale, interessati a far
conquistare nuovi mercati ai prodotti delle industrie da loro finanziate o
interessati all’impiego dei loro capitali. In quegli anni gli Stati italiani
erano rigidamente protezionisti e non favorivano l’importazione di prodotti
dall’estero. Il primo Stato italiano ad abbattere le barriere doganali fu il
Piemonte per l’opera del Cavour: prima ministro dell’agricoltura, poi delle
finanze, infine primo ministro. La grande finanza internazionale, che
condizionava tutti i governi, ebbe interesse allora a far appoggiare le mire
espansionistiche del Piemonte, oberato di debiti interni per le precedenti
sconfitte nelle guerre di conquista e per l’attuazione della politica
doganale liberistica. Nel 1857 il saldo passivo tra importazioni ed
esportazioni aveva raggiunto i 100 milioni di lire. Era un calcolo di
convenienza reciproca. Da un lato il capitale dei finanzieri francesi ed
inglesi veniva remunerato per i prestiti, garantiti dall’appoggio dei loro
governi alla politica espansionistica del Piemonte e per i consumi dei loro
prodotti. Dall’altro lato il Piemonte attuava una politica di investimenti
interni e di conquiste territoriali. In fondo conveniva alle due parti. Gli
unici a non essere d’accordo erano i cittadini piemontesi che pagarono in
tasse ed in vite umane quella politica: ma questo aspetto del problema non
interessava assolutamente i finanzieri, Cavour e Vittorio Emanuele.
nel 1849 il piemonte non era finanziabile
Tra il marzo
e l’agosto del 1849 il Piemonte, che stava trattando la pace con l’Austria,
dopo la sconfitta di Novara, chiese invano aiuto all’Inghilterra e alla
Francia: queste non mossero un dito anche in presenza del negoziatore
austriaco Bruck che aveva iniziato le trattative chiedendo ben 200 milioni di
lire di risarcimento. La somma richiesta era enorme e pari a tre volte le
entrate annue del Piemonte. Lo stesso Vittorio Emanuele si lamentava del
fatto che l’Austria nel 1815 avesse reclamato dalla Francia una somma pari ad
un solo anno di entrate mentre ora “réclamait de nous était presque du
triple”. Il consigliere di legazione austriaco, barone Metzburg, aveva
riferito a Bruck: “Il Piemonte ha ormai la certezza di non poter fare
assegnamento sul sostegno della Francia e su quello dell’Inghilterra”
(AF). Considerazioni: In conclusione, tra il 1849 ed il 1852 c’è stato un
cambiamento della politica inglese e francese verso il Piemonte e la sua
politica espansionistica. Da cosa fosse stato determinato non è dato di
sapere. Certo non crederemo alla favola del desiderio degli italiani di
riunirsi sotto Vittorio Emanuele, né crederemo alla favola del tessitore!
Qualche elemento emerge, come il seguente. Quando nel 1848 si seppe della
caduta di Luigi Filippo, re dei francesi, e della proclamazione della
repubblica in Francia, Cavour commentava in alcune lettere scritte a Melhuish
e a De La Rüe: “Sono stroncato, perché non credevo assolutamente, lo
devo ammettere, alla possibilità di un evento simile. Con la repubblica in
Francia che ne sarà di noi? Si deve prevedere il peggio ed agire in
conseguenza”. Ed agì in conseguenza provvedendo ad annullare ordinazioni
e affari in corso, e cercando di realizzare al più presto i crediti pendenti,
in attesa di un chiarimento della situazione (R2). Evidentemente Cavour,
legato a determinati ambienti, temeva che nel nuovo ordinamento il potere dei
suoi amici fosse diminuito. Noi sappiamo, invece, che, come al solito, Cavour
si sbagliava: proprio gli ambienti ai quali era legato avevano determinato la
repubblica, determinarono l’ascesa di Napoleone III e determinarono
l’alleanza con il Piemonte contro l’Austria che resisteva loro. Tra l’altro
Cavour, ancora una volta, aveva sbagliato alleandosi, nella guerra che si
sviluppava tra i grandi finanzieri internazionali, anche e specialmente
ebrei, con il gruppo più debole. Vedremo più avanti come Cavour si alleò con
il più forte, dopo essere stato ridotto alla ragione.
la politica economica e finanziaria di cavour
Il
primo trattato di commercio, concluso da Cavour con la Francia nel novembre
1850 in sostituzione di un precedente trattato del 1843 ormai scaduto, fu
caratterizzato dalla forzata accettazione da parte piemontese di condizione
piuttosto pesanti imposte dal governo di Parigi, il quale non aveva ancora
cominciato a modificare la sua politica protezionista. Il regno sardo dovette
ridurre la tariffe doganali per vari prodotti francesi e ottenne solo qualche
lieve diminuzione delle tariffe francesi per alcuni suoi prodotti. Lo stesso Cavour,
nella discussione per la ratifica del trattato avvenuta alla Camera nel
gennaio ’51, affermò che esso non corrispondeva “né alle esigenze della
scienza, né ai veri interessi dei due paesi” ma aggiunse che non solo il
trattato assicurava qualche vantaggio alle esportazioni piemontesi ma
permetteva di rafforzare le buone relazioni con la Francia [o con qualche
francese?]. La svolta in senso liberistico della politica commerciale
piemontese si ebbe invece con i due trattati con il Belgio e l’Inghilterra nei
primi mesi del ’51. La difficile situazione del bilancio fu esposta nella
relazione da Cavour alla Camera nella quale delineò anche i punti principali
del suo programma. Il ricorso al credito interno per sanare il disavanzo fu
attuato con la vendita di 18.000 obbligazioni di Stato mediante una
sottoscrizione. Il ricorso al credito estero per far fronte alle spese del
programma ferroviario avvenne con un prestito concluso con la banca Hambro di
Londra che fruttò al netto quasi 80 milioni. Quanto all’aumento del carico
fiscale, già il ministro Nigra si era messo su questa strada con l’appoggio
di Cavour. Fu istituita la nuova imposta sui fabbricati e l’imposta sui
redditi dei corpi morali. Nel settembre fu istituita una tassa sulle patenti,
cioè sulle professioni libere, il commercio, le industrie. Altri nuovi
tributi, come la imposta personale e mobiliare (che poi divenne l’imposta
sulla ricchezza mobile) e l’imposta di successione, furono istituiti nel
periodo in cui Cavour fu presidente del consiglio. L’aumento della pressione
tributaria non bastò a coprire l’aumento notevolissimo della spesa pubblica
negli anni successivi, sicché il bilancio piemontese rimase costantemente in
deficit e furono necessari nuovi ricorsi al credito. Forti difficoltà trovò Cavour
nella politica bancaria. Non riuscì infatti nel luglio 1851 a fare approvare
dalla Camera il suo progetto di rafforzamento della Banca Nazionale. Ma il
progetto, che in sostanza attribuiva alla Banca il monopolio dell’emissione
di biglietti a corso legale, fu respinto. Alcuni lo giudicarono troppo
ardito; altri lo giudicarono non rispondente ai princìpi liberisti tanto
calorosamente sostenuti dallo stesso Cavour (C4).
conseguenze della politica economica di cavour
Fra
l’estate e l’autunno del 1853 la reazione popolare alla crisi della
sussistenza si tradusse in una sorta di resistenza di massa al liberismo, che
in parecchie regioni coinvolse larghi strati della popolazione piemontese.
Specialmente nelle zone di confine, la libera esportazione delle granaglie,
messa a confronto con i divieti che invece molti dei paesi esteri si erano
affrettati ad introdurre (Lombardo Veneto, Stati romani, Regno di Napoli)
suscitò una viva eccitazione che qua e là esplose in disordini e violenze.
Nell’agosto 1853 i sindaci di dodici comuni del mandamento di Intra
chiedevano misure “per impedire il monopolio e la esportazione dei
cereali”, prospettando la minaccia che ne derivava alla “pubblica
quiete”, e sottolineando “la miseria del basso popolo e le sue
conseguenze inevitabili”. Ci furono assembramenti ad Arona con
intervento dei carabinieri. A Pallanza si lamentava l’assoluta mancanza di
grano. Nella Lomellina “se l’esportazione continua per un mese ancora i
prestinai di questo luogo non sono più in grado di rinvenire un sacco di
frumento per farne del pane”. Nello stesso senso scriveva il sindaco di
Vigevano. Inconvenienti simili erano in Savoia, in Sardegna, a Genova. In
tutti questi luoghi si temeva per l’ordine pubblico. Nell’autunno la
situazione si aggravò e si diffusero dicerie collegate con la partecipazione
di Cavour nella società dei grandi mulini di Collegno; e i giornali popolari
con la Voce della libertà del Brofferio alla testa, insistevano
sull’accaparramento di ingenti quantitativi di cereali nei magazzini della
società, che si identificava con Cavour, a scopo di speculazione. Ci fu anche
un tentativo di invasione di palazzo Cavour da parte della folla con feriti
ed arrestati, seguìto da manifestazioni di ostilità che accolsero il conte al
suo riapparire, scortato, nelle vie. Scoppiati ancora disordini e tumulti a
Stradella, Bra e Novi Ligure il governo procedette a una serie di arresti
“dans toute l’étendue du royaume”. Alla fine del 1853 si ebbero in
Val d’Aosta i tumulti più gravi ed estesi. Vi furono coinvolti oltre due mila
valligiani che mossero disarmati su Châtillon al grido di: “Abbasso le
imposte!”. La guardia nazionale procedette all’arresto di gruppi di
valligiani e l’arrivo di rinforzi di truppa disperse i rimanenti, dopo uno
scontro a fuoco che causò feriti e due morti. Il governo procedette a 530
arresti (R2).
cavour: oltre se stesso, chi favoriva?
Quale
fosse lo stato d’animo dell’opinione pubblica piemontese, si vide nella
clamorosa assoluzione ottenuta dal direttore del giornale Imparziale, l’avvocato
Ghisolfi, difeso dal Brofferio, seguita pochi giorni dopo, fra gli applausi
del pubblico, da una analoga assoluzione della Voce della libertà: nonostante
che una dichiarazione ufficiale della società dei mulini di Collegno avesse
cercato di smentire la documentazione prodotta ai giurati dal Brofferio.
“Rimane dunque provato – annunciava sul suo giornale il Brofferio – 1)
che il conte di Cavour è magazziniere di grano e di farina, contro il
precetto della moralità e della legge; 2) che sotto il governo del conte di
Cavour ingrassano illecitamente i monopolisti, i magazzinieri, i borsaiuoli,
i telegrafisti e gli speculatori sulla pubblica sostanza [monopolisti,
magazzinieri, borsaiuoli, telegrafisti, speculatori sulla pubblica sostanza…
nascita della tradizione carignanesca!], mentre geme, soffre e piange
l’universalità dei cittadini sotto il peso delle tasse e delle imposte; 3)
che il sangue innocente sparso dal conte di Cavour nella capitale dello Stato
senza aggressione, senza resistenza, per una semplice dimostrazione che
potevasi prevenire, fu atto barbaro e criminoso, da renderlo degno di essere
posto in accusa a termine delle leggi costituzionali” (R2).
finanza piemontese: questione di vita o di morte
Premessa
fondamentale dell’opera che Cavour si proponeva d’intraprendere era, la
restaurazione finanziaria. “La più urgente delle riforme per noi è il
dare assetto al nostro ordinamento finanziario, perché questa è per noi in
certo modo questione di vita o di morte” (R2). Alla fine del 1853 i
prestiti esteri avevano reso un prodotto netto di oltre 304 milioni (R2). Al
primo gennaio 1859 il debito pubblico piemontese ascendeva ad oltre 786
milioni! (R2).
conseguenze della politica liberistica di cavour
Il
rovescio della medaglia della politica liberistica voluta dal Cavour era dato
dall’aggravio che misure del genere davano alla situazione già precaria della
finanza. Nel 1854 le entrate erano inferiori alle spese di oltre 24 milioni.
“Ciò che è grave, gravissimo – rivelava Cavour al fido Giacinto Coiro –
si è la condizione finanziaria ed economica. Siamo senza danari, e non
sappiamo come procurarcene”. Si giunse al punto che persino il
fedelissimo banchiere Hambro fece comunicare al Tesoro piemontese che non
avrebbe più provveduto ad alcun pagamento per suo conto “excepté avec
des contrevaleurs en mains” “senza un controvalore in mano”:
cosa che parve a Cavour pretesa lesiva della dignità del governo sardo, e
tale da giustificare l’immediata rottura con la casa londinese, se non fosse
poi seguìto un chiarimento. Ma per fronteggiare la scadenza degli interessi
si dovette ricorrere a Rothschild, così come fu Rothschild il tramite ormai
inevitabile per il nuovo prestito, destinato a fornire al Tesoro 35 milioni,
che Cavour fu costretto a proporre al parlamento. Alla Camera il dibattito
sul relativo disegno di legge fu l’occasione di una offensiva generale delle
opposizioni contro la politica generale del ministero Cavour. Revel accusò
Cavour di avere impresso all’economia uno stimolo eccessivo, di aver effettuato
le riforme doganali prima di raggiungere il pareggio (a rovescio del criterio
seguìto da Peel in Inghilterra), di avere fatto promesse ormai prive di ogni
credito. In particolare, si rinfacciò al conte l’annuncio che quello del 1853
sarebbe stato l’ultimo prestito. Vi fu chi contestò al Cavour le sue tesi
preferite: la politica liberista non aveva affatto sviluppato le risorse
latenti del paese, ma solo immesso attraverso i prestiti una massa di potere
d’acquisto che in gran parte serviva ad alimentare gli investimenti
nell’edilizia privata e i consumi, invece che ad incrementare gli
investimenti produttivi; gli sgravi sui consumi e sui dazi doganali non
avevano ridotto i prezzi dei beni di largo consumo mentre i salari erano
scesi. Ma le critiche non venivano solo dagli avversari: “Se non siete
in un abisso siete vicino ad un baratro – gli scriveva Hambro – avete
inacidito gli animi malgrado tutti i voti favorevoli della Camera, è
evidente; dove sono i vantaggi morali e materiali delle vostre misure?”
(R2). Considerazioni: Ma, insomma, su quali fatti, dati, cifre è poggiata la
fama propalata dagli storici ufficiali di un Cavour grande imprenditore
agricolo, grande imprenditore industriale, grande ministro finanziario?
Nessuno! E vedremo anche l’assoluta falsità della fama di grande tessitore
della politica piemontese e della fama di artefice dell’unità d’Italia da lui
definita, in una lettera autografa, una “corbelleria” (C4).
cavour, il tessitore freddo e calcolatore
A
mezzanotte, in un incontro a Monzambano, Cavour fu informato, in un
tempestoso colloquio, dei risultati degli incontri che avrebbero portato, di
lì a pochi giorni, alla firma dell’armistizio di Villafranca l’11 luglio del
1859 che concluse la guerra franco piemontese all’Austria. A questo colloquio
assistette il solo Costantino Nigra, suo protetto e collaboratore preferito,
il quale non si risolse mai a mettere per iscritto l’intero resoconto dei
fatti. Il caldo era soffocante; il re, in maniche di camicia, comunicò a
Cavour, con grande imbarazzo, i risultati della sua diplomazia personale.
Cavour era paonazzo per la rabbia e respirava a fatica. Doveva soffrire di
quello che Hudson, l’ambasciatore inglese, era solito chiamare “uno dei
suoi consueti afflussi di sangue alla testa”. Il conte Arrivabene,
inviato speciale del Daily News di Londra, che li aspettava fuori della
porta, notò, quando uscirono, il colore apoplettico di Cavour: il presidente
del consiglio aveva perduto il controllo di sé e “sembrava quasi uscito
di senno”. È a questa circostanza che il re dovette riferirsi quando in
seguito parlò di Cavour con Sir James Hudson. “Qualche volta Cavour –
disse Sua Maestà – nell’impeto della rabbia ha preso a calci tutte le sedie
di questa stanza. Mi ha chiamato traditore e anche peggio, ma io attribuivo
questi eccessi al suo temperamento collerico, e in tali momenti me ne stavo
tranquillamente seduto, prendendo appunti sull’argomento che lo aveva portato
al parossismo, e quando si calmava gli leggevo i miei appunti. Dopo questi
scoppi di rabbia era solito ricomporsi e riacquistare la calma. Credo che in
quei momenti smarrisse l’uso della ragione, perché dopo sembrava non
ricordarsene; di conseguenza mi sono spesso domandato se Cavour poteva
rappresentare per noi una sicura guida politica”. Dopo le dimissioni di
Cavour, in seguito all’armistizio di Villafranca, il sovrano commentava:
“È un pasticcione che mi caccia sempre in qualche guaio; è un matto, e
gliel’ho detto spesso che era matto; sguazza nei pasticci, come in Romagna e
Dio sa dove! Ha fatto il suo tempo: mi ha servito, ma adesso non può più
continuare a servire” (VE).
la tela del tessitore
La
storiografia ufficiale ha individuato i quattro punti nodali dell’azione
diplomatica del Cavour: la guerra di Crimea, la pace di Parigi, i colloqui di
Plombières e la capacità diplomatica di costringere l’Austria alla guerra. La
storiografia ufficiale elogia il genio di Cavour che con la spedizione di
Crimea avrebbe messo le premesse dell’aiuto inglese e francese per
l’ingrandimento territoriale piemontese nella pianura padana, scacciando gli
austriaci dall’Italia, cosa che puntualmente avvenne cinque anni dopo, quando
Napoleone III conquistò la Lombardia e la regalò al Piemonte. Come vedremo
più avanti, tutto questo era credibile perché verosimile, infatti gli
interessi dei Savoia e di Napoleone coincidevano ed anche perché Napoleone
III era interessato alla diminuzione dell’influenza austriaca in Italia come
era parimenti interessato a distogliere l’attenzione dei francesi dalla
politica interna ed era, infine, interessato a riportare la Francia alla
preminenza tra le nazioni europee, come era sotto il suo predecessore
Napoleone I. Dalla partecipazione alla guerra di Crimea e dalla
partecipazione alla conferenza di pace di Parigi sarebbero nati gli accordi
segreti del 10 dicembre 1858 tra il Piemonte e la Francia, sulla base dei
colloqui di Plombières, con la conseguente guerra all’Austria. Vediamo.
la guerra di crimea
Durante
la guerra russo turca che si sviluppava in oriente, il 26 gennaio 1855 il
Regno di Sardegna sottoscrisse un trattato con la Francia e l’Inghilterra,
alleate dei turchi contro i russi, in base al quale si impegnava a fornire 15
mila uomini, un reggimento di cavalleria e 36 cannoni. La guerra, cosiddetta
di Crimea, si concluse con la sconfitta dei russi, con la morte di oltre 2
mila piemontesi e con i Savoia che si sedettero al tavolo della pace che fu
sottoscritta a Parigi il 30 marzo 1856.
mazzini sulla crimea
“Quindici
mila fra di voi – scriveva Mazzini in un appello ai soldati che stavano per
partire per la Crimea e in una lettera aperta al Cavour – stanno per essere
deportati in Crimea. Non uno forse tra voi rivedrà la propria famiglia. Per
servire un falso disegno straniero, le ossa vostre biancheggeranno calpestate
dal cavallo del cosacco” (MC). Considerazioni: Con il senno di poi,
molti storici ufficiali hanno visto nella partecipazione del Piemonte alla
guerra di Crimea, la sagacia di Cavour. Un’altra interpretazione, invece,
chiarissima ai contemporanei, è quella per cui il Piemonte non facesse altro
che continuare la sua tradizionale politica mercenaria. Mi dilungherò su
questo argomento poiché è stata questa la vicenda che ha dato al Cavour fama
di grande politico e fine diplomatico. Le cose probabilmente [sicuramente]
non stanno così.
armate inglesi e francesi in crimea
Il 14
settembre 1854 sbarcarono sulla costa occidentale della penisola di Crimea 28
mila francesi, 29 mila inglesi e 7 mila turchi. Fino alla fine delle ostilità
la Francia inviò 309 mila uomini e l’Inghilterra 96 mila (R3), La Gran
Bretagna, i cui punti di forza erano la marina, la diplomazia e la finanza,
ma non l’esercito di terra, fu costantemente, nel corso di tutta la guerra,
alla ricerca di truppe da inviare in Crimea. Dall’ottobre 1854 all’aprile del
1855, su una forza media in campo di 28.939 uomini, l’esercito inglese ne
perdette 11.652, di cui 10.053 per malattia (R3). Alle conseguenze militari
di questo stato di cose si aggiungevano i gravi danni che esso recava al
prestigio internazionale della Gran Bretagna e alle relazioni con l’alleato
francese, che finiva per assumere la supremazia sul teatro delle operazioni,
non senza, per di più, qualche dubbio sull’impegno dell’alleato insulare
(R3). Il 23 dicembre 1854 la regina Vittoria sanzionò una legge che
autorizzava l’arruolamento di mercenari stranieri, vecchia pratica, questa,
da parte britannica, fino a un massimo di 10 mila uomini. Subito dopo ebbe
inizio una intensa attività di reclutamento in questa direzione, che avrà
qualche successo in alcuni Stati tedeschi, in Svizzera e nel regno sardo. Gli
arruolati piemontesi nel gennaio 1856 arrivarono a 2 mila (R3). Anche gli
arruolamenti nella milizia territoriale inglese erano lontani dal raggiungere
le previsioni, e alla fine di aprile 1855 il corpo contava solo 25 mila
uomini, mentre si era contato su 60 mila reclute nel corso dell’anno. I
proprietari terrieri inglesi erano decisamente contrari all’arruolamento, a
tempo indeterminato, dei loro dipendenti, che riduceva le disponibilità di
manodopera, lasciando per di più le famiglie a carico della tassa dei poveri;
e d’altra parte le notizie che dilagavano sulle sofferenze dei soldati in
Crimea contribuivano drasticamente a raffreddare gli entusiasmi (R3).
la gran bretagna chiese truppe al piemonte
Il 15 novembre
1854 il primo ministro Palmerston richiamava l’attenzione del collega Russell
sulla impossibilità che i progettati arruolamenti all’estero potessero
fornire truppe pronte all’impiego prima dell’estate: e suggeriva di prendere
al servizio britannico “some ready made and disciplined force”
“delle forze già pronte e disciplinate”, da mettere subito agli
ordini di lord Raglan: 6 mila portoghesi, 10 mila spagnoli, 10 mila
piemontesi. Russell scriveva a Hudson “to ascertain whether Piedmont
would give us 10 or 15.000 men in our pay to be placed under our Commander in
Chief in the East” “di accertarsi se il Piemonte volesse fornirci
10 o 15 mila uomini pagati da noi da mettere sotto il nostro comandante in
capo nell’Est” (R3). Il governo di Torino, rifiutata la proposta di
inviare truppe al soldo dell’Inghilterra, accettava di aderire all’alleanza e
di inviare non 10 ma 15 mila uomini comandati da un generale agli ordini di
lord Raglan; chiedeva però un prestito, non sussidio, britannico di due
milioni di sterline al 3 per cento, rimborsabili alla pace a condizioni da
stabilire; chiedeva inoltre l’ammissione della Sardegna ai negoziati di pace
e l’impegno da parte degli alleati a ottenere dall’Austria la revoca dei
sequestri dei beni dei lombardi esuli in Piemonte, e a prendere in
considerazione la situazione italiana a fine della guerra. L’impegno alleato
sui due ultimi punti doveva essere consacrato in due articoli segreti. Il
consiglio dei ministri inglese rigettò tutte le condizioni piemontesi: la
partecipazioni del regno di Sardegna ai negoziati di pace veniva rifiutata, e
gli articoli relativi ai sequestri e alle condizioni dell’Italia dopo la
guerra, parimenti esclusi. Altrettanto negativo l’atteggiamento del governo
francese. Drouyn de Lhuys, ministro degli esteri francese, temeva soprattutto
di scontentare l’Austria, della cui alleanza era a Parigi il più strenuo
fautore, specie in quel momento delicatissimo, alla vigilia dell’accordo
franco austriaco di reciproca garanzia in Italia; e riteneva le proposte
piemontesi inaccettabili. L’ambasciatore inglese a Torino, Hudson preparò
allora un documento nel quale ammorbidiva le richieste del Piemonte (R3). Si
attendeva, per la decisione, il ritorno dell’inviato francese, duca di
Guiche, a Torino. Il duca però era convinto che la stessa concezione liberale
di stampo britannico, professata da Cavour, nasceva in buona parte da studi e
pregiudizi teorici che la conoscenza della realtà inglese non era bastata a
raddrizzare: ed essa gli sembrava “un mélange batard des istitutions
belges et des doctrines de Cobden” “una mistura bastarda tra le
istituzioni belghe e le dottrine di Cobden” che non aveva “rien de
commun avec le véritable gouvernement de la Grande Bretagne”
“niente di comune con il vero governo inglese”. Le crescenti
difficoltà incontrate dal regime liberale piemontese a partire dalla seconda
metà del 1853 incrinarono il suo iniziale apprezzamento delle capacità
politiche del conte che nell’agosto 1854 egli giudicava “un despote au
petit pied et un homme qui fait tout a demi” “un despota senza
alcuna base ed un uomo che fa tutto a metà”; senza, tuttavia, che altri
gli apparissero migliori, perché “il n’y a pas ici un seul homme
d’état”, “non esiste neanche uno statista”. La conclusione da
lui ricavata era che di fatto il vero ed effettivo potere a Torino risiedeva
nelle mani del ministro di Francia: sia che si volesse continuare a servirsi
degli strumenti ortodossi della politica e della diplomazia, sia che si
decidesse di imboccare la via rivoluzionaria. Su questo atteggiamento di
fondo erano destinate a naufragare le ultime speranze del ministro degli
esteri Dabormida in una favorevole accoglienza delle richieste piemontesi da
parte degli alleati (R3). Da parte piemontese si diede allora notizia che il
governo aveva deciso di inviare il ministro della guerra presso le corti
alleate: ma ciò provocò una violenta reazione del duca di Guiche, che
nell’iniziativa dichiarò di vedere una prova di sfiducia nei rappresentanti
alleati che rasentava la scorrettezza, e si spinse fino a dire che La Marmora
sarebbe stato “mal ricevuto”. Aggiungeva che la Sardegna restava
liberissima di conservare la sua neutralità. Era un ricatto. Ma Cavour sapeva
che la rottura del negoziato avrebbe segnato la fine del regime liberale in Piemonte:
e dunque, facendo forza ai suoi sentimenti personali, fu egli stesso ad
accettare le proposte anglo francesi, senza condizioni. La sera del 10
gennaio veniva sottoscritto il verbale in cui erano incluse le formule, in
verità abbastanza anodine, ottenute da Cavour, e con esso i progetti
dell’atto di accessione alla alleanza e della annessa convenzione militare. I
testi definitivi dei tre documenti furono firmati a Torino il 26 gennaio
1855. Gli accordi militari, con le relative clausole finanziarie, diedero
anche luogo a un seguito importante delle trattative. Alla iniziale proposta
piemontese di un prestito di due milioni di sterline, si era replicato, da
parte britannica, che, in mancanza di precise stipulazioni per il rimborso,
non di un prestito si trattava ma, in realtà, di un sussidio; che un
interesse ragionevole non poteva essere inferiore al 4 per cento; che un
corpo di 15 mila uomini costava all’Inghilterra, dove la spesa era mediamente
più elevata, 600 mila sterline l’anno, e che dunque una somma annua di un
milione avrebbe largamente coperto i costi che la Sardegna doveva affrontare
per il suo corpo di spedizione. In seguito però ai rilievi del cancelliere
dello scacchiere Gladstone e di altri esponenti del governo britannico, e per
evitare che alla Camera dei Comuni si parlasse di sussidio mascherato, si
aggiunse l’obbligo per la Sardegna di mantenere il corpo di spedizione in
numero con adeguati rinforzi, e si regolarono i pagamenti sardi in ragione
del 4 per cento (R3). Considerazioni: Il Piemonte, orgogliosamente, non
accettò che i suoi soldati fossero pagati come mercenari, voleva fornirli da
alleato. Unico problema: non aveva come mantenerli, quindi chiese in prestito
i soldi. Solo che, invece di chiedere in prestito la somma che occorreva a
mantenere i soldati, 600 mila sterline, cioè 15 milioni di lire, ne chiedeva
due milioni, cioè 50 milioni di lire. Il giornale Armonia (19, 20, 30 gennaio
1855) sostenne che l’alleanza fosse avvenuta a condizioni “non troppo
onorevoli”, che da essa vi erano da attendersi solo “umiliazione,
guerra e debiti”, e che alla sua origine v’era la disperata situazione
finanziaria, la quale soltanto aveva indotto Cavour a “vendere” 15
mila soldati piemontesi per “un imprestito di 25 milioni” (R3).
interesse della francia a coinvolgere il piemonte
La
Francia, in più, aveva un vecchio desiderio: farsi cedere dal Piemonte Nizza
e la Savoia. Già nel 1610 Enrico IV lo aveva tentato, e successivamente lo
avevano tentato in molti, compreso Bonaparte, fino a Luigi Filippo che nel
1844 aveva proposto al Piemonte un’alleanza antiaustriaca. Anche per questa
ragione la Francia chiedeva l’aiuto del Piemonte in Crimea e metteva le
premesse per la successiva guerra per la conquista dei possedimenti italiani
dell’Austria. Considerazioni: Cavour nel momento decisivo delle trattative
disse che bisognava “se résigner à la nécessité” “rassegnarsi
alla necessità” (R3). Insomma, Cavour dovette accettare un ricatto. E la
storiografia ufficiale l’ha fatto passare come una sua abilissima trovata,
una sua geniale invenzione! Anzi Cavour fu il paladino dell’accordo “ad
ogni costo” mentre Dabormida era per la trattativa. Insomma, qualsiasi
primo ministro ci fosse stato non avrebbe avuta altra scelta se non accettare
l’invito anglo francese e, probabilmente, avrebbe ottenuto più di quanto
ottenne Cavour.
i piemontesi in crimea
Durante
la preparazione della spedizione, nella baia di San Fruttuoso per imperizia
si incendiò la Croesus, nave piena di materiale sanitario, poi non
rimpiazzato. Anche per questa carenza, il corpo di spedizione piemontese ebbe
oltre 2 mila morti per malattie, dei quali circa 1.300 per colera. Il corpo
di spedizione piemontese fu invitato dal comando inglese a schierarsi nel
settore tenuto dal corpo di osservazione, con facoltà di scegliere tra due
posizioni: il ruolo secondario che le forze piemontesi avrebbero svolto
durante la guerra era già determinato in anticipo (R3). Il generale La
Marmora, con la sua condotta da uomo mite e pacifico, finì per rendere molto
meno proficuo anche il sacrificio dei 2 mila uomini che il Piemonte perdette
nella spedizione. Quei morti, quasi tutti per malattia, non ebbero una
contropartita adeguata in fatti che segnalassero le forze sarde alla
gratitudine degli alleati: ad eccezione del contributo da esse dato alla
vittoria della Cernaia. Ma anche quel contributo non fu tale da pesare molto
sul piano politico, dovendosi necessariamente commisurare ai 14 caduti nel
combattimento e ai 15 morti a seguito delle ferite riportate. Alla diplomazia
cavouriana veniva dunque a mancare la possibilità di far valere un cospicuo
apporto alla vittoria finale, che era una delle carte su cui a Torino si era
fatto più calcolo. Certo, l’idea di giungere al tavolo della pace puntando su
cospicui sacrifici di sangue ha in sé qualcosa che può urtare talune
sensibilità. Ma questa era stata sin dall’origine l’impostazione
dell’intervento piemontese, e la mancata coerenza della condotta militare
della guerra con le premesse politiche, poteva solo servire a rendere vana
una parte dei sacrifici compiuti (R3). Considerazioni: Alla fine! Cavour con
la Crimea non ne ha indovinata una. Ormai però i morti c’erano stati e Cavour
intendeva venderseli al tavolo della pace a Parigi. Il problema, però, era
rappresentato dal fatto che gli accordi prevedevano che la Sardegna potesse
sedersi al tavolo delle trattative solo per le questioni che la riguardavano.
La storiografia ufficiale ci racconta allora del capolavoro diplomatico del
Cavour che riuscì a sedersi al tavolo della pace insieme alle grandi potenze.
Vediamo.
la pace di parigi
Cavour
partì per Parigi il 13 febbraio 1856 convinto di non riuscire ad ottenere
nulla per il regno di Sardegna: “Je n’ai nul espoir – scriveva Cavour a
Auguste de La Rive – d’obtenir le moindre avantage pour mon pays”
“Non ho alcuna speranza di ottenere il minimo vantaggio per il mio
paese” (R3). Le posizioni della Francia e dell’Inghilterra erano divise
fino all’inizio delle trattative: la Francia era interessata alla pace ed a
rafforzare l’intesa con l’Austria, l’Inghilterra, al contrario, premeva per
porre condizioni inaccettabili alla Russia per poter proseguire la guerra.
Questa divisione comportò l’interesse per i due alleati di accaparrarsi la
presenza della Sardegna come un “satellite” al quale bastava usare
“quelques prévenances plus apparentes que réelles et qui peuvent à peu
de frais produire des résultats utiles” “alcune attenzioni più
apparenti che reali che potevano con poca spesa produrre degli utili
risultati”. In questo gioco delle parti andò bene al Cavour che si
ritrovò al tavolo della pace nonostante avesse intrapreso una sua azione
diplomatica per arrivare a quello stesso risultato (R3).
l’azione diplomatica del cavour a parigi
Cavour,
non avendo assolutamente percepito quanto stava succedendo, non solo non
aveva secondato gli avvenimenti ma aveva progettato di corrompere i delegati
russi o turchi al congresso! Era inoltre ricorso alle grazie di sua cugina,
Virginia di Castiglione, per meglio conquistare Napoleone III alla causa italiana.
Espedienti che deludono non solo come innegabili cadute di stile ma anche per
la loro pressoché totale sterilità, e che vanno giudicati per quello che
sono: intrighi di rappresentanti di una corte secondaria e in fondo
provinciale, chiamata a recitare una parte più grande di lei sulla scena
politica europea (R3). La contessa di Castiglione si trovava ad essere, al
tempo stesso, agente sarda e amante dell’imperatore transalpino, dopo esserlo
stata di Vittorio Emanuele. Cavour si attendeva dalla cugina un contributo
decisivo, come non mancò di comunicare al collega Luigi Cibrario, ministro
degli affari esteri: “Vi avverto che ho arruolato nelle file della
diplomazia la bellissima contessa di Castiglione invitandola a coqueter ed a
sedurre l’imperatore, ove d’uopo; gli ho promesso che ove riesca avrei
richiesto pel suo padre il posto di segretario a San Pietroburgo. Ella ha
cominciato discretamente la sua parte al concerto delle Tuileries di
ieri” (RM).
castiglione e nigra: diplomazia del sesso
Che la
Castiglione, diventando amante di Napoleone III, divenisse utile alla causa,
Cavour ne era certo. C’era, però, un lato negativo: la gelosia e la possibile
reazione negativa dell’imperatrice Eugenia, molto influente a corte. Ecco il
Nigra. La Castiglione ed il Nigra erano talmente belli che al solo vederli si
capiva lo scopo cui erano destinati da Cavour. E la bellezza del Nigra colpì
l’imperatrice Eugenia,. In questo modo il Nigra neutralizzava la gelosia di
Eugenia e la sua ostilità alla causa piemontese che sfacciatamente era
promossa dalla sua rivale contessa di Castiglione. Prove storiche della
relazione tra il Nigra e l’imperatrice francese Eugenia non ne ho trovate. Di
certo diminuì, fino a scomparire, il supporto dell’imperatrice all’azione del
ministro degli esteri francese Walewski, ostile alla politica italiana
dell’imperatore. Il Petruccelli della Gattina accusava i nostri ministri di
credere che “a Parigi si facesse meglio la politica nel boudoir o
nell’alcova più che nel gabinetto”. “Si credette che si potesse
discutere in modo poco austero a traverso femmine di opinione maculata”.
“Fu a causa di questo infelice errore che si lasciò Nigra a Parigi.
Composta in modo per nulla serio di ebrei e di borghesi, la banda della
Legazione italiana non ha goduto reputazione che presso i sarti e presso il
demi monde di terza categoria” (AL).
nascita di un mito: cavour
Anche a
Parigi non c’è traccia di alcuna abilità diplomatica del Cavour o di
risultati da lui determinati. Nessuno ammise più apertamente di Cavour, che
il congresso si era chiuso per il Piemonte senza “aucun résultat
pratique” e nessuno mostrò più di lui la propria delusione davanti a
questo fallimento, dopo che per due mesi e mezzo si era “démené comme un
diable dans un bénitier” “dimenato come un diavolo
nell’acquasantiera”. Egli era convinto che la sua “position
parlamentaire” era ormai “fortement compromise par l’insuccès de
mes démarches en faveur de l’Italie” “molto compromessa dal cattivo
esito dei miei tentativi in favore dell’Italia” e, anzi, “retournant
en Piémont les mains vides et fort désappointé” “ritornando in
Piemonte con le mani vuote e molto deluso”, dichiarava di non essere
“guère disposé à en vouloir à ceux qui facilitent à mes adversaires le
moyen de me renverser du pouvoir” “disposto a non avercela con
quelli che aiutano i miei avversari a rovesciarmi dal potere” (R3).
Cavour a Parigi non ottenne nulla, come temeva prima di partire: “Tant
travailler – confidava all’amico De La Rüe – pour obtenir de si maigres
résultats, c’est peu encourageant” “Tanto lavorare per ottenere dei
così magri risultati, è poco incoraggiante”. È da domandarsi, allora,
come mai ci fu, al ritorno da Parigi, un coro di plauso all’indirizzo del
Cavour da parte di amici e nemici (R3). La verità è che non c’era nulla,
nella versione dei negoziati di Parigi presentata da Cavour al parlamento,
che potesse dirsi propriamente falso: e tuttavia, a parte le ovvie e
dichiarate reticenze, l’insieme era calcolato in modo da produrre negli
ascoltatori una impressione molto lontana dal vero. Cavour aveva affrontato
il dibattito alle camere, sapendo di poter confidare sulla simpatia dei
governi inglese e francese: ma sapeva anche con sicurezza che, nella
situazione esistente, quelle simpatie non si sarebbero certo spinte sino ad
appoggiare un’iniziativa militare contro l’Austria. L’aperta sfida da lui
lanciata al governo di Vienna con le sue dichiarazioni, indusse invece amici
ed avversari a ritenere che eventi drammatici fossero imminenti, e che il
governo di Torino osasse tanto perché garantito da segrete intese con le
potenze occidentali (R3). Considerazioni: È stata una bugia, detta per
giustificare l’errore di aver voluto partecipare alla guerra di Crimea e per
giustificare di non essere riuscito a vendere i morti piemontesi al tavolo
della pace di Parigi, a creare al pusillanime Cavour la fama di grande
tessitore. Questa bugia resiste ancora dopo più di 140 anni.
opinione della diplomazia inglese su cavour
Per gli
uomini di governo britannici l’appello cavouriano al principio di nazionalità
non aveva senso perché, argomentavano con un candore illuminante, in Italia
il governo di Torino non seguiva per niente quel principio, mirando,
all’opposto, ad assorbire nello Stato piemontese le separate nazionalità
lombarda, veneta, parmense e modenese. Nell’intimo, i Palmerston, i
Clarendon, i Cowley ritenevano anzi che l’invocazione del principio di
nazionalità da parte del conte di Cavour era “balderdash, rubbish”
“spazzatura” e non degna di un vero statista (R3).
opinione di mazzini sulla politica di cavour
Il 14
gennaio 1858 Napoleone scampò fortunosamente a un attentato; le bombe
lanciate contro la sua carrozza uccisero otto passanti. Per quel delitto
furono ghigliottinati Felice Orsini e Giuseppe Pieri; e il fatto che i due
italiani fossero stati in passato seguaci di Mazzini fornì pretesto a nuove
accuse contro il Partito d’Azione di Mazzini. Pochi mesi prima, però, Orsini,
per motivi sia personali che politici, era divenuto un nemico accanito di
Mazzini, e anzi sperava, con un gesto così orrendo, di soppiantare il suo
capo di un tempo nella direzione della rivoluzione patriottica. Mazzini, al
contrario di alcuni stimati uomini politici, deplorò l’attentato; lo stesso
fece il governo di Torino, che ne incolpò Mazzini, benché avesse la prova
della sua innocenza. Nessuno sapeva che Cavour, poiché questi due uomini
erano tra i nemici di Mazzini, aveva segretamente sovvenzionato Orsini e
Pieri col denaro dei suoi servizi segreti; in seguito il ministro corrispose
una pensione alla vedova di Orsini (MZ). Cavour presentò anche un disegno di
legge per condannare l’apologia del regicidio esaltato dai giornali.
Nell’Italia del Popolo violentemente Mazzini attaccò Cavour con una lettera
aperta: “Voi avete inaugurato in Piemonte un fatale dualismo, avete
corrotto la nostra gioventù, sostituendo una politica di menzogne e di
artifici alla serena politica di colui che desidera risorgere. Tra voi e noi,
signore, un abisso ci separa. Noi rappresentiamo l’Italia, voi la vecchia
sospettosa ambizione monarchica. Noi desideriamo soprattutto l’unità
nazionale, voi l’ingrandimento territoriale”. SG
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