Avevo sentito parlare di lei per la prima volta dalla moglie di un amico, stupita che ci fossero donne così spregiudicate da prestarsi ai desideri più estremi dei loro amanti. Il caso m’era sembrato curioso anche se venato di banalità, come tutti quelli in cui Eros si unisce in qualche modo a Thanatos, e quando don Alvaro cominciò il suo racconto la vicenda conosciuta a Venezia mi tornò subito in mente.
Alvaro Queimado era un uomo di circa quarant’anni, non bello, ma dotato di un fascino flebile, di un atteggiamento
cortese, quasi molle, venato di
entusiasmi e attacchi di malinconia silenziosa, repentini e fugaci. La sua conversazione era un avventura pericolosa
per un interlocutore sprovveduto: in
lui, come spesso succede, il difetto di essere quasi incapace di ascoltare e di intendere si univa
a quello di un egotismo triste e in un
certo modo rassegnato. L’ interlocutore si trovava intriso di un disagio malevolo, rendendosi
conto che la sua presenza non era per i
racconti di Don Alvaro niente più che un pretesto, e cercava in qualche modo di sottrarsi a un confronto
così sgradevole. Don Alvaro lo sapeva. Il genere in cui eccelleva era dunque il
racconto, tanto da
avere sempre a disposizione, nella sua capace memoria, storie diverse, in modo da riconciliarsi con i suoi scarsi
ascoltatori e avvincere progressivamente
la loro attenzione arricchendo il suo parlare ora con vocaboli ricercati, ora con figure retoriche,
ora con considerazioni filosofiche e
morali, che sembravano tratte da vicende passate secoli
prima… Accortosi che io invece ricercavo la sua compagnia e sedevo volentieri al suo tavolo, mi ringraziava
aprendo gli occhi leggermente più del
necessario, quando arrivavo, in un’espressione di gratitudine. A me, che amo il
silenzio più che le parole sprecate per riempirlo, questo suo modo di
esprimersi, così meditato e artefatto, piaceva. Lo
consideravo un lato caratteristico e un poco triste di un tipico abitante del
Portogallo, questa terra un tempo ricchissima e ora così povera, che la fortuna
mi aveva fatto conoscere.
Lo trovai, come quasi tutte le sere, fra le sette e la scomparsa del sole dietro il Mar della Paglia, seduto a un
tavolino del nostro caffé di Lisbona, in un largo vestito di lino color
tabacco, assorto sul suo boccale di birra. Dopo una mezz’ora passata in quel
silenzio interrotto da rare parole, che a tutti e due noi piaceva creare, si
chinò verso di
me e mi chiese a bassa voce se avevo mai letto o sentito parlare di una donna
chiamata Saervia, specificandomi la grafìa latina del nome: caso inconsueto,
diceva, di prostituta per aspiranti suicidi.
Ignoravo il nome, ma gli raccontai la strana storia che avevo saputo a Venezia. Lui annuì e sorrise, come faceva sempre quando stava per cominciare uno dei suoi “numeri”, cosí li chiamava. Lui Alvaro la storia l’ aveva saputa per frammenti, la prima volta dalle labbra di una donna che veniva a rassettargli la casa e che parlava ininterrottamente e tanto volentieri da mettere -anche lei, come me, sorrideva don Alvaro- l’interlocutore in una condizione difficile, quasi nel timore di farle uno sgarbo sottraendosi alle sue parole, di fronte alle quali non c’era gran differenza fra una scusa o per un impegno reale. E ricordava la storia della “puttana che ammazza”, fra le tante raccontate, come una diquelle che servivano, nella costellazione narrativa della stiratrice, a dimostrare fra esclamazioni e scuotimenti di testa il punto a cui era arrivata la società di oggi. Donna ferita dal suo stesso racconto di un caso di depravazione di donna, essa la gratificava generosamente di insulti: una ladra, una lesbica, una donnaccia. “Rimasi colpito da questa storia -disse Don Alvaro- e mi tornò in mente quando, ritornando da una notte di alcolici e sigarette a casa di un conoscente, e sveglio per l’ora ormai prossima alla mattina, chiesi al mio tassista di possibili case d’appuntamenti aperte, e quello si dimostrò informatissimo su luoghi, prezzi e qualità dei servizi. Aveva la disposizione a chiacchierare che si può provare talvolta, se si è svegli verso le quattro, le cinque della mattina, quando tutti gli altri dormono.
Gli
chiesi allora, come poco fa ho chiesto a lei, se aveva mai sentito parlare di
una particolare prostituta, che accoglieva gli uomini a morire presso di lei.
Mi disse che era un poco fuori Lisbona, se quella di cui aveva sentito parlare
lui era la stessa alla quale mi riferivo io. E che se mi interessava mi poteva
portare da lei, come aveva fatto diverse volte con altri “clienti”. Rimasi
un po’ sorpreso della naturalezza con cui mi fece questa proposta.
“Ma non le sembra un po’ strana, questa ‘signora’, e non ha paura di noie
con la polizia? chiesi.- Strana, signore? -esclamò, quasi stizzito- forse mi
sembrerebbe strana se non facessi il tassista, se non vedessi ogni giorno la
gente andare a perdersi per le più insignificanti sciocchezze. Sul sedile dov’è
lei ora ci sono passati tanti che ora sono morti, alla guerra, alle colonie,
all’ospedale, o in modi ancor più banali. Strani a me sembrano invece tutti
quelli che vanno in giro senza scopo. E ce ne sono certi che passano tutta la
giornata cosí: mi dicono vai di qua e poi vai di là, si capisce che non sanno
nemmeno loro bene dove vogliono che li porti, poi scendono, risalgono, danno un
altro indirizzo, alla fine mi pagano conti salati e hanno buttato via due ore.
Questi sì, mi sembrano strani, a
volte mi fanno paura e quando mi accorgo di averne uno a bordo mi aspetto
qualunque cosa. Ma uno che voglia farla finita e si rivolga per questo a una
bella donna mi pare quasi normale. Non sembra anche a lei una bella morte? E si
dice che sia davvero bellissima, questa Saervia, che abbia i capelli castani,
lunghi e ondulati e non una voce, ma due: quella di una bambina e quella di una
donna adulta, e che t’incanti prima di ucciderti, passando dall’una all’altra”.
Dicono che ti uccida senza dolore, proprio quando… Be”, nessuno è mai
tornato a raccontarlo, ma una volta dicono che due gemelli, di quelli identici,
andarono da lei, perché uno di loro era malato e voleva farla finita. Il fratello
lo accompagnò e volle essere presente”. Dicendo così l’autista accelerò e
mi diede un’occhiata nello specchietto retrovisore, alle prime luci dell’alba.
Mi lasciai portare a casa, anche se avevo concepito il desiderio di passare
quell’ora di luce grigia a girovagare con lui attorno alla casa di quella donna;
e forse il suo era stato un modo garbato di pregarmi di non farlo”. Don
Alvaro rimase per un momento sospeso, poi si girò verso la vetrata alle sue
spalle. “Laggiù”, disse indicando la periferia settentrionale della
città, ormai avvolta nella notte. Tacque e quella volta non mi squadrò
soddisfatto come era solito fare quando terminava uno dei suoi
“numeri”, e voleva verificare l’effetto prodotto sull’uditorio.
Rimase a guardare nel suo bicchiere lo spirito della birra che se ne andava in
bollicine. “Saervia, disse dopo un poco. E lei lo sa come si chiama questa,
in portoghese? Cerveja. Ha un suono simile, non le pare?”. Alzò gli occhi
dal bicchiere e mi guardò, in modo così strano che avvertii il desiderio di
sottrarmi subito, per quel giorno, alla magia malinconica del mio amico. Lui
capì, come capiva sempre, sorrise e con la mano mi fece un segno di commiato.
Uscii dal locale che era ormai notte e m’ incamminai nella direzione del mio
albergo, l’unico trovato libero in quei giorni di festa. Avevo fatto amicizia
col portiere, un meticcio angolano dalle maniere raffinate e fuori atmosfera,
nel vecchio albergo coloniale che doveva averne viste di tutti i colori. Più
volte gli avevo visto mettere una chiave in mano alle donne illegittime che
gliene facevano richiesta, mentre il cliente aspettava un po’ discosto. Lo
faceva con una delicatezza che si sposava bene con la mezza voce con cui la
donna chiedeva la stanza, e si voltava subito dall’altra parte, con un sorriso
discreto. “Non chiedo mai i loro nomi e quando vengono qui dicono pochissime
parole a voce bassa. Ma di questa che lei dice ho sentito parlare anch’io.
Certo, è curioso. Dovrebbe saperne qualcosa la moglie di Aimaro, il benzinaio
della strada maestra, che è morto l’anno scorso. Qualche anno fa un tale lasciò
la macchina, una grossa macchina che sarebbe stata adatta per un matrimonio, al
distributore e non tornò più. L’ultima volta che lo videro aveva un mazzo di
rose gialle e stava seduto in strada, all’angolo fra la calle degli Angeli e la
banchina del porto. La polizia non fece ricerche e la macchina restò al
benzinaio. La moglie forse saprà cosa ci hanno trovato dentro. Ci vada a nome
mio, è mia amica. Ma
poi torni, per raccontarmi la storia. Non si faccia ammazzare prima”, concluse
ridendo, come se lui stesso non credesse all’ esistenza della donna, che aveva
suscitato in me qualcosa di più che una semplice curiosità. “La gente di
qui è povera, non ha niente, e per questo ha fantasia. Come i bambini”.
Vidi che stava infilando uno spillone di
ferro in un pupazzetto di pelouche che rappresentava un porcospino. “E’
per il figlio di mia sorella -spiegò, come per sfollare qualunque sospetto-
devo riattaccargli la testa”.
Avevo una traccia. La moglie del benzinaio mi ricevette con gentilezza e
mi aprì davanti agli occhi un cassetto del mobile del soggiorno. Cavò fuori un
fagotto e ne sparse il contenuto sul tavolino. “Ecco che c’era nella
macchina. Lei è un parente?”. “No, sono uno scrittore. M’ interessa
questa storia”. Lei mi guardò come se non mi credesse, poi accese la luce
e cominciò a disporre sulla tovaglia, davanti ai miei occhi, gli oggetti
ammucchiati al centro della tavola. Ricordo un vecchio orologio da taschino, un
notes con alcune cifre scritte a matita, un oggetto teatrale che colpì la mia
immaginazione, una specie di fuoco d’artificio finto, fatto con un tubo di
cartone dipinto di rosso. Poi un temperino con il manico d’osso e due
conchigliette colorate, molto graziose. E lo scheletro di un riccio di mare.
Oggetti che potevano appartenere a un adolescente. Ma la signora non ricordava la
persona “Mio marito lo vide, non io. Ricordo che alla polizia disse che era un tipo normale, vestito in modo
normale, gentile e sgarbato in modo
normale. Ah, nel portabagagli c’era questa -disse come se si fosse ricordata
qualcosa che per lei non aveva nessuna importanza, ma poteva averne per me, e
scomparve dietro una porta tornando poi con una tuta blù- Se le
interessa…” e stese la tuta su una poltrona. Rimanemmo un pò in
silenzio, come se dovessimo lasciar dire qualcosa a quella costellazione di
oggetti, ai quali la tuta aveva fornito una sorta di animazione. “Be’, se
scrive qualcosa, signor scrittore, dica qualcosa di mio marito. Era una buona
persona, un uomo giusto, e ora nessuno si ricorda più di lui. E’ lui che mi ha
raccomandato di conservare questi
oggetti, se qualcuno fosse venuto a cercarli. E teneva benissimo la macchina di
quel tale, diceva che non era sua e che in questo modo lo ripagava del
noleggio. Ne dica due parole, se questa visita le è servita per la sua
storia”. Uscii nella notte illuminata dalle luci che venivano dalle
finestre basse di quelle case, dove la gente stava cenando, e scesi verso il porto,
lungo la strada che mi aveva indicato il portiere del mio
albergo. Mi sedetti dove immaginavo si sarebbe potuto sedere lo sconosciuto,
sul muretto d’angolo del giardino dell’ultima casa abitata prima di silenziosi
magazzini atlantici, uno di quei posti dove pare che si possa impunemente
soffrire. C’era un grosso uomo in canottiera, seduto nel suo giardino a
prendere il fresco. Mi fece un cenno con la
mano, come per dichiararmi di essere disponibile a una tranquilla conversazione
con uno straniero, quale io ero, in tutta evidenza. Ma non sembrò utile quel
poco di portoghese che ero riuscito ad imparare nel mio soggiorno a Lisbona.
Credette di cogliere “cerveja” quando cercai notizie di Saervia. Rise
e andò in casa a prendere una lattina di birra
e due bicchieri. “Cerveja, cerveja”, ripeté ammiccando, sicuro di
essere in grado di darmi quello che avevo chiesto.