NIKOLAJEWKA E I 100MILA MORTI DELL’ARMIR: IL SEME DI UNA ITALIA NUOVA

 NIKOLAJEWKA E I 100MILA MORTI DELL’ARMIR: IL SEME DI UNA ITALIA NUOVA

Pubblicazione: 30.01.2023 – Alberto Leoni

Alla fine di gennaio 1943 Nikolajewka rappresenta per ciò che resta dell’Armir la porta della salvezza. Cronistoria di un dramma spaventoso (2)

italia guerra russia armir 3 web1280 640×300 La ritirata dell’Armir (Credit: LoanP8, da Wikipedia)

Il 24 gennaio nuova battaglia a Malakeevka. Le compagnie alpine si battono ancora in modo magnifico e conquistano il paese ripulendo le izbe una per una. Il geniere Tumicelli ne prende d’assalto una con una tecnica inconsueta: butta dentro l’unica bomba a mano rimasta, poi entra armato con una sciabola cosacca ed elimina tutti coloro che vi si trovano.

Il tenente Luciano Zani è laureato in economia e commercio ed è stato richiamato alle armi: provetto sciatore, comanda il plotone esploratori ed è uno tra gli ufficiali più arditi della divisione. Malakeevka è solo una delle nove battaglie da lui affrontate durante la ritirata, manovrando la mitragliatrice Breda. Ferito due volte, riuscirà a tornare in Italia e diverrà un noto commercialista.

Il 25 gennaio, mentre la “Cuneense” e la “Vicenza” si dirigono verso Valuiki, dove saranno annientate, la “Tridentina” prende d’assalto Nikitovka e la conquista. Nella notte, però i russi circondano gli alpini ad Arnautovo e ne nasce un nuovo combattimento e gli alpini di retroguardia si sacrificano perché la testa della colonna possa arrivare a Nikolajevka, fortemente presidiata. In soccorso arriva il battaglione “Tirano”. Centinaia di morti e di eroi e tra i tanti ne ricordiamo appena due.

Il primo è il sottotenente Giuliano Slataper: figlio di Guido, medaglia d’oro della Grande Guerra, e nipote dello scrittore Scipio Slataper, si è comportato valorosamente per tutta la ritirata e non sa che suo cugino Scipio Secondo è morto pochi giorni prima. Ora tocca a lui attaccare le postazioni russe con le bombe a mano, correndo nella neve, inciampando, cadendo e una pallottola gli attraversa le guance. Vincendo il dolore, Slataper si butta in avanti e viene colpito a morte mentre annienta il nido di mitragliatrice.

Il secondo nome che ricordiamo è quello del capitano Giuseppe Grandi per la cui biografia si rimanda al bel libro di Marco Dalla Torre Il testamento del capitano Grandi (Ares, 2021). Una sventagliata di mitra gli squarcia l’addome proprio mentre i suoi uomini stanno ributtando indietro il nemico. È la vittoria, ed è una vittoria decisiva perché la colonna principale possa sfondare a Nikolajevka: ma il “Tirano” è praticamente distrutto e Grandi, portato su una slitta dai suoi soldati, ha perso conoscenza. Ciò che resta del battaglione si dirige verso ovest. Grandi riprende i sensi, lo informano della vittoria. Vedendo che i suoi uomini piangono davanti a lui Grandi mormora: “Cosa sono quei musi lunghi? Venite qui. Cantate con me “Il testamento del capitano”. E lo stesso Grandi inizia a intonare: “Il capitan della compagnia/ l’è ferito e sta per morir/ e manda a dire ai suoi alpini che lo vengano a ritrovar”. Quegli uomini stremati si sono fatti dappresso alla slitta e rispondono e il canto corale si innalza sulla steppa gelata accompagnando un giovane, eccezionale talento verso una morte immatura e ingiusta. Grandi morirà quella notte stessa.

Quale sarebbe stato il destino di Grandi se si fosse salvato? Sicuramente avrebbe avuto successo personale e professionale come un altro capitano, anch’egli valoroso ma notevolmente più fortunato: il capitano Riccardo Pogliani della “Cuneense”, 9a compagnia, battaglione “Mondovì”. Pogliani ha radunato alcuni sbandati della “Cuneense” fino a comandare trecento alpini e il 26 arriva alla ferrovia che congiunge Walujki a Nikolajevka. Attaccati dai russi, i resti della colonna Pogliani ricevono quasi per miracolo un messaggio da parte di un ricognitore tedesco: la loro meta non è Walujki ma più a nord, dopo Nikolajevka, per ricongiungersi con la “Tridentina”. Riccardo Pogliani, come il più noto Peppino Prisco, diventerà un quotatissimo avvocato di Milano, dotato di un carisma eccezionale che conserverà in studio e nelle aule di tribunale, degno rappresentante di quella generazione che ha fatto la guerra, l’ha perduta e ha ricostruito l’Italia dalle macerie in cui era ridotta.

Il 26 gennaio è il giorno di Nikolajewka. Per passare gli alpini devono prendere la rotabile che va a ovest, ma la strada incrocia la ferrovia con un sottopassaggio e per controllarla bisogna prendere la stazione e, dopo, il paese e la chiesa. Per arrivare alla stazione bisogna fare almeno due chilometri di marcia allo scoperto, quando è certo che ci sono almeno un migliaio di russi bene armati trincerati nel paese. L’attacco viene portato dai battaglioni “Val Chiese”, “Verona” e “Vestone” ed è un urto frontale perché mancano le munizioni e, soprattutto, manca il tempo. Bisogna agire subito prima che le forze russe ricevano rinforzi.

Il “Verona” subisce perdite spaventose ed è ridotto a ottanta uomini quando riesce ad arrivare al terrapieno. Gli alpini riescono a passare lo scalo ferroviario ma sono bloccati, bisognosi di rinforzi e di una potenza di fuoco che si sta esaurendo. La 255a compagnia di Zani e Ferroni conquista la stazione e la trasforma in un centro di fuoco ma anche quei valorosi non riescono ad andare avanti. Il “Vestone” più un battaglione genio attaccano sulla destra ma sono anche loro bloccati.

Il maggiore Adami con i superstiti del “Tirano”, reduci dal combattimento del giorno prima, arriva in vista di Nikolajevka e Reverberi comanda loro di sostenere l’attacco. Il tenente Frugoni racimola quanti più uomini si possono trovare, specie fra quelli dei servizi: ormai si sta raschiando il fondo del barile ma gli alpini si chiamano l’un l’altro: “Il 6°! Andiamo ad aiutare il 6°!” e altri ancora si staccano dalla massa degli sbandati per andare all’assalto con il poco che hanno. È pomeriggio inoltrato quando arriva il battaglione “Edolo” che viene subito lanciato nella mischia. Il generale Giulio Martinat, valdese, veterano di tutte le guerre a partire da quella libica del 1911, lascia lo stato maggiore e si pone alla testa del suo vecchio battaglione imbracciando il mitra. “Ragazzi, lo vedete quel sottopassaggio? Dopo c’è l’Italia, quindi dobbiamo andare. Con le armi e senza le armi. Tutti assieme per le nostre famiglie e per la nostra patria”. Mentre carica con l’“Edolo” anche Martinat viene ucciso da una raffica al petto. È un assalto disperato ma l’“Edolo” riesce solo a mantenere la pressione sui russi che non cedono ancora. Cadono a decine, a centinaia e, solo in quell’assalto restano uccisi il tenente Giovanni Piatti, il tenente Alessandro Frugoni, il tenente colonnello Carlo Calbo, il capitano Angelo Orzali, il maresciallo Ferruccio Tempesti e Donato Brisce del genio pontieri.

Ma il coraggio non basta e Reverberi lo sa. Sono le 15.30 del pomeriggio e le munizioni dei cannoni sono finite, dei blindati tedeschi ne resta solo uno. Resta soltanto una risorsa, l’ultima: la massa dei 35mila che aspettano la salvezza dagli alpini. E allora, quel metro e sessanta di generale, balza sullo scafo del blindato germanico e chiede a un gruppo di alpini: “Voi chi siete?” “Val Piave!”; “E allora avanti Val Piave!”, poi grida a coloro che gli stanno attorno “Tridentina avanti! Tridentina avanti! Di là c’è l’Italia!”. E gli alpini rispondono all’appello e non solo della “Tridentina”: c’è gente della “Cuneense”, della “Julia”, della “Vicenza” ma ci sono anche sbandati della “Cosseria”, della “Ravenna”, dei “Lancieri di Novara”, i cavalleggeri del “Savoia” e tedeschi, ungheresi, romeni. Quasi tutti sono disarmati ma l’eroismo di chi ha combattuto per loro tutto il giorno ispira riconoscenza e rabbia per quell’ultimo ostacolo che non si riesce ad abbattere. Una massa urlante di uomini, molti congelati e zoppicanti si avventano giù per il pendio allo scoperto e i russi sparano nel mucchio con tutto quello che hanno, dalle mitragliatrici agli anticarro. C’è anche chi avanza lentamente, per la stanchezza, conversando di cose strane con le mani in tasca (per il freddo!) come se si andasse a passeggio. La discesa si copre di fagotti insanguinati, di corpi fatti a pezzi ma la carica folle continua ugualmente e l’onda umana va avanti. Carica anche don Gnocchi, corre anche don Lino Pedrini che viene stroncato da un proiettile e a chi lo soccorre riesce a dire: “Non perdete tempo, andate avanti. Dite a mia madre che muoio da cappellano e da soldato”. E quando il maremoto umano arriva alla ferrovia i russi scappano, fuggono senza voltarsi indietro perché non possono fermare la forza inumana di una disperazione maturata in dodici giorni di sofferenze, in duecento chilometri di piste innevate, notti e giorni senza dormire, facendo i propri bisogni nei pantaloni per non congelarsi l’ano.

È la vittoria degli straccioni, degli “zingari italiani” come con disprezzo vengono chiamati dai tedeschi che non hanno conosciuto le vicende di quella ritirata. Ma è una vittoria dell’Italia più vera, di quella che si trova in guerra e vuole tornare a casa, sacrificandosi per coloro che non ce la fanno più.

Nikolajevka è l’ultimo combattimento ma altre centinaia di uomini moriranno nei giorni successivi prima che il 31 gennaio la colonna incontri i primi elementi tedeschi. È in questa occasione che si distingue una figura che ritroveremo più avanti: quella del beato Teresio Olivelli, venticinque anni, due lauree, un carisma e una fede smisurati. Olivelli soccorre i feriti senza badare mai a sé stesso, usa il pugno di ferro con quelli che possono camminare quando sottraggono spazio ai malati gravi e il 31, dopo dieci giorni di quell’inferno, è capace di tornare indietro a cercare due dei suoi uomini, cessando ogni ricerca solo quando è sicuro di non poter trovare più nessuno. Perché un giovane lascia cinquanta dei suoi e va a cercarne due? Perché il Buon Pastore lo fa per le sue pecore e Olivelli, dell’Azione Cattolica, conforma la sua vita a quella dell’unico Signore che riconosce, ultima e unica speranza in un mondo impazzito per l’ideologia del superuomo.

Il prezzo di questa vittoria è immenso. Su 57mila effettivi, il corpo d’armata alpino ebbe 34.670 morti, dispersi o prigionieri e 9.400 tra feriti e congelati. E, come in una famosa canzone alpina, “il colonnello che piangeva/ nel veder tanto macello” esiste davvero: il 1° febbraio il colonnello Paolo Signorini constata le enormi perdite subite. Mentre parla con Reverberi ha un infarto fulminante e si accascia sul pavimento dell’isba: don Gnocchi può appena benedire la salma. Il corpo del colonnello Carlo Calbo, caduto a Nikolajevka, è stato portato fuori dalla sacca e viene seppellito col tricolore gli onori militari: perché? Perché i suoi glielo dovevano, per onorare chi aveva speso la propria vita per loro guidandoli alla salvezza.

La terribile avventura dell’Armir era conclusa al prezzo di quasi 100mila morti, quasi la metà di coloro che ne facevano parte. I superstiti erano quasi tutti debilitati e furono fatti rientrare in Italia, in condizioni così pietose che il loro arrivo fu tenuto nascosto alle popolazioni e solo nei mesi successivi poterono tornare a casa. Di quell’epopea mostruosa restò il ricordo del valore profuso e non c’è da meravigliarsi se le imprese del Corpo d’armata alpino hanno ispirato una memorialistica così sterminata. Se, però, gli alpini godono in tutto il mondo di una fama imperitura di eroismo e abnegazione una ragione c’è: ed è bello e giusto pensare che quell’ultima carica sul pendio di Nikolajevka segna, in un certo qual modo, l’inizio di una nuova Italia in cui una massa di sbandati si getta all’attacco sull’esempio di battaglioni e compagnie che si sacrificarono per loro senza sapere se il loro esempio sarebbe stato seguito. Tanti di quei sopravvissuti costruirono un’Italia migliore di quella che avevano trovato, più giusta, più ricca, più sazia: perché esser sazi non è peccato quando si esce da secoli di miseria, riempiti soltanto da retorica militarista. Zani, Prisco, Pogliani sono solo tre nomi fra i tanti di quegli eroici quanto fortunati ragazzi che, una volta ritornati, col lavoro quotidiano, nel proprio studio di commercialista o di avvocato, hanno fatto grande il loro Paese.

“Nikolajevka – scriverà don Bevilacqua – è il sole del tuo animo che ha dimostrato quanta tenacia alberga nell’anima italiana. È l’ora della tua libertà, perché è veramente libero solo chi è nudo, e mai foste come allora nudi e somiglianti al grande nudo della Croce”. Forse adesso il lettore comprenderà perché la memoria Nikolajewka è un patrimonio storico imprescindibile se l’Italia vuole continuare a sapere che cosa è e di cosa sono capaci gli italiani.

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