SECONDO GIORNO
Appena uscito dalla mia cella, e entrato nella foresta, mi sembrò che il cielo intero e tutti gli elementi si fossero adornati per quelle nozze. Mi pareva anche che gli uccelli cantassero più graziosamente di prima; i cerbiatti saltavano con tanta gioia che il mio vecchio cuore si rallegrava ed ero spinto a cantare. Così incominciai a cantare a voce alta:
“Godi, uccellino,
Nel lodare il tuo Creatore,
Alza chiara e fine la tua voce,
Il tuo Dio è tanto alto,
Ti, ha preparato il cibo,
Ti nutre sempre quando occorre,
Sii soddisfatto cosí.
Perché vuoi essere triste,
Perché inquietarti con Dio
D’averti fatto piccolo,
Perché allora chiederti
Come mai Egli non ti abbia fatto uomo?
Taci, Egli ha pensato profiondamente su questo:
Sii soddisfatto cosí.
Cosa farei io, verme della Terra,
Se cominciassi a discutere con Dio?
Cercherò di forzare l’entrata al Cielo,
Per rapire con violenza la grande arte?
Non è possibile misurarsi con Dio;
Che l’indegno se ne vada.
Uomo sii soddisfatto.
Non essere offeso
Perché Egli non ti ha fatto imperatore.
Se tu hai disprezzato il Suo nome,
Egli ne tiene conto.
Gli occhi di Dio sono i più chiari,
Egli ti guarda fin nel cuore:
Perciò non ingannerai Dio!”
Cantavo questo dal fondo del mio cuore mentre attraversavo il bosco, che ne risuonava dappertutto; la montagna stessa echeggiò le mie ultime parole. Finalmente apparve un prato verde e uscii dal bosco. Su questo prato stavano tre cedri alti e belli che erano così larghi da offrire un’ombra splendida e assai desiderata, che godetti molto, perché, pur non avendo fatto molta strada, il mio grande desiderio mi rendeva stanco. Perciò mi avvicinai in fretta agli alberi per riposarmi un momento lì sotto. Avvicinandomi, scoprii una tavoletta attaccata ad uno degli alberi, sulla quale erano scritte, in lettere graziose, le parole seguenti, che poi lessi:
“Ospite,salute: se tu hai sentito parlare delle nozze del Re, in tal caso pesa esattamente queste parole. Attraverso di noi, lo sposo ti offre la scelta di quattro vie per ognuna delle quali potrai raggiungere il Palazzo del Re, in modo che non ti perda in sviamenti. La prima è breve ma pericolosa e passa attraverso vari scogli che tu potresti superare soltanto a gran fatica. La seconda è più lunga ed è piana e facile se, con l’aiuto del Magnete, non ti lascerai sviare nè a destra nè a sinistra. La terza è in verità la Via Regia, e diversi piaceri e spettacoli del nostro Re ti renderebbero il cammino gioioso. Ma appena uno su mille può raggiungere la meta attraverso di essa. Tramite la quarta nessun uomo può arrivare al Palazzo del Re, perché essa consuma ed è adatta soltanto ai corpi incorruttibili. Scegli dunque fra queste tre vie quella che vuoi, e seguila con costanza. Sappi anche che qualsiasi via tu abbia scelta, per virtù di un destino immutabile, non ti è lecito tornare indietro che a gran rischio della tua vita.
“Ecco quello che noi abbiamo voluto che tu sapessi, ma fa’ attenzione a non ignorare con quanto pericolo tu ti sarai affidato a questa via: infatti, se ti dovesse capitare di renderti colpevole del minimo delitto contro la legge del nostro Re, io ti prego, finché sei ancora in tempo, di ritornare al più presto a casa tua per la stessa strada che hai seguita per arrivare sin qui”.
Appena letta questa scritta, tutta la mia gioia era di nuovo sparita e, mentre avevo cantato cosí allegramente prima, adesso cominciai a piangere: perché vedevo tutte insieme le tre vie davanti a me e sapevo che mi era concesso di sceglierne una sola. Avevo paura, se avessi preso la via rocciosa di montagna, di cadere miserabilmente nella morte; o se mi veniva in sorte la strada lunga, che avrei potuto o smarrirmi nel cammino o non compiere il lungo viaggio per un’altra ragione; non potevo neanche sperare di essere proprio quello, tra mille, che doveva scegliere la Via Regia. Vedevo ugualmente la quarta davanti a me, ma era cosí circondata da fuoco e da vapori che non potevo neanche pensare ad avvicinarmi ad essa.
Riflettei, quindi, ad ogni possibilità: se dovessi tornare, o se dovessi scegliere una di quelle strade. Ero conscio della mia indegnità; mi consolava comunque il sogno di essere stato liberato dalla torre. Però non dovevo fidarmi arditamente di un sogno; rimasi a riflettere dunque per molto tempo, finché, a causa della mia grande stanchezza, la fame e la sete entrarono nel mio corpo. Tirai fuori quindi il mio pane e lo tagliai, il che fu avvertito da una colomba bianca come la neve che era posata su un albero e della quale non mi ero accorto. Lei, forse seguendo una sua abitudine, scese e venne dolcemente verso di me, ed io divisi volentieri il mio pane con lei: l’accettò e si ravvivò un po’ mangiandolo. La vide subito il suo nemico, un corvo nero, che scese sulla colomba, e, non curandosi di me, voleva rubare alla colomba quello che aveva, al che lei non poté fare altro che salvarsi fuggendo. I due presero il volo verso il Sud, ed io ero cosí adirato ed afflitto che corsi, senza riflettere, dietro il corvo malvagio, e senza volere percorsi la lunghezza di un acro nella via prescritta, mandai via il corvo e salvai la colomba.
Solo allora mi accorsi che avevo agito senza pensare e che già ero entrato in una via, dalla quale non potevo tornare senza rischiare grande castigo. Me ne sarei consolato se non mi fosse dispiaciuto vivamente di aver lasciato la mia bisaccia e il mio pane sotto all’albero e di non poterli piú andare a cercare, perché, appena mi girai, mi venne incontro un vento cosí forte che mi avrebbe facilmente fatto cadere, mentre invece se continuavo per la strada non mi accorgevo di niente: cosa dalla quale capii che oppormi al vento mi sarebbe costata la vita. Cosí, accettai con pazienza la mia croce, mi misi in cammino e pensai che siccome doveva essere cosí, dovevo fare lo sforzo di arrivare prima della notte. Poiché sembrava vi fossero molte deviazioni, tirai fuori la bussola e non mi spostai neppure di un passo dalla direzione del Sud, benché la via fosse talvolta tanto impraticabile che dubitavo non poco di essa. Strada facendo pensavo continuamente alla colomba e al corvo, ma non potevo indovinarne il significato. Finalmente, vidi da lontano una vasta porta su un’alta montagna, verso la quale mi affrettai, benché stesse ad una grande distanza dalla mia strada, in quanto il Sole era già sceso dietro le montagne e non vedevo nessun altro paese dove sostare; attribuii questo a Dio, che forse avrebbe potuto volermi far continuare su questa strada ed impedire ai miei occhi di vedere la porta.
Mi ci avvicinai in fretta, come già descritto, e arrivai che c’era ancora un po’ di luce del giorno in modo che la potevo vedere appena sufficientemente. Era davvero una porta regale splendida, nella quale erano incisi molti disegni, ognuno dei quali (come appresi dopo) aveva un suo particolare significato. In alto, sul frontone, c’erano le seguenti parole: “Procul hinc, procul ite, Prophani” (“Lontani da qui, allontanatevi, o profani”), ed altro di cui mi è stato severamente vietato di parlare. Appena arrivai sotto la porta, apparve un uomo vestito di blu cielo, che salutai in modo amichevole; egli mi ringraziò e chiese la mia lettera d’invito. Oh! Come ero contento di averla portata con me: perché avrei potuto facilmente dimenticarla, come avevano fatto anche altri, secondo quanto egli stesso mi raccontava. La presentai subito e lui non solo ne fu contento ma mi onorò molto, cosa che mi meravigliò, e disse, “Entra fratello, per me sei un invitato benvenuto”. Mi pregò di dirgli il mio nome. Quando gli risposi che ero il fratello della Rossa Rosa Croce, si meravigliò e anche di questo fu contento; poi disse: “Fratello, hai qualcosa con te per poter comprare un’insegna?”. Io risposi che la mia fortuna era piccola, ma se egli vedeva qualcosa su di me che gli piaceva, che la prendesse. Siccome mi chiedeva la mia bottiglia d’acqua, io consentii, e mi diede un’insegna d’oro, con sopra solo le due lettere S.C. (Sanctitate Constantia; Sponsus Charus, Spes Charitas – Costanza della santità; Sposo per amore; Speranza, Carità), raccomandandomi, quando questo mi avrebbe procurato del bene, di pensare a lui. Dopo di ciò chiesi quanti erano entrati prima di me, cosa che egli mi disse. Finalmente, per amicizia, mi diede una lettera sigillata per il guardiano seguente. Siccome mi trattenni abbastanza a lungo con lui, arrivò la notte e quindi fu accesa una grande torcia di pece sulla porta, perché, se qualcuno fosse sulla strada, potesse arrivarci in fretta; la via che arrivava fino al castello era chiusa tra due mura e vi erano piantati ai lati dei meravigliosi alberi con tutti tipi di frutta: e ogni tre alberi ad ogni lato della strada, erano state appese delle lanterne, che erano state accese con una torcia splendida da una bella Vergine in un vestito azzurro.
Questo era tutto cosí maestoso e magnifico che rimasi lí piú tempo che non fosse necessario. Finalmente, dopo aver avuto abbastanza informazioni ed indicazioni, salutai amichevolmente il primo guardiano. Strada facendo, ero curioso di sapere che cosa fosse scritto nella mia lettera, ma siccome non dovevo pensare male del guardiano, dovetti frenare la mia indiscrezione e avanzare sulla strada finché raggiunsi altre porte che erano quasi identiche alle prime, solo che erano decorate da altri disegni e significati occulti. Sul frontone stava scritto “Date et dabitur vobis” (“Date e vi sarà dato”). Sotto la porta, attaccato ad una catena, giaceva un leone terribile che si alzò appena mi vide, e mi venne incontro ruggendo. A questo, l’altro guardiano, che era sdraiato su un blocco di marmo, si alzò e mi disse di non spaventarmi né preoccuparmi. Ricacciò il leone indietro e lesse la lettera che gli porgevo tremante. Poi mi disse con reverenza: “Sia benvenuto da Dio, l’uomo che volevo vedere da tanto tempo”. Nel frattempo tirò fuori anche lui un’insegna e mi chiese se la potevo scambiare. Siccome io non avevo niente altro che il mio sale, gli offrii quello ed egli lo accettò, ringraziandomi. Sull’insegna c’erano ancora una volta solo due lettere, cioè S.M. (Studio Merentis; Sal Memor, Sponso Mittendus; Sal Mineralis; Sal Menstrualis – Desiderio di meritare; Sale del ricordo; Da mandare allo Sposo; Sale minerale; Sale mestruale).
Volevo parlare anche con lui ma si cominciò a suonare nel castello, ed il guardiano mi esortò a correre, altrimenti i miei sforzi e tutto il mio lavoro sarebbero stati inutili, perché lassú si iniziavano a spegnere le luci. Feci tanto in fretta che mi dimenticai, nella mia paura, di salutare il guardiano; ed ebbi ragione, perché non potevo correre abbastanza in fretta da non essere sorpassato dalla Vergine, dopo la quale tutte le luci si spegnevano. Non avrei neanche potuto trovare la strada se lei non mi avesse fatto luce con la sua torcia. Potei appena entrare dopo di lei, quando la porta si chiuse cosí in fretta che un pezzo del mio vestito rimase chiuso fuori, ed io naturalmente dovetti lasciarlo indietro perché né io né quelli che già chiamavano da fuori la porta potevamo persuadere il guardiano a riaprire; infatti, egli diceva di aver dato la chiave alla Vergine che l’aveva portata con sé nel cortile.
Nel frattempo esaminavo la porta, che era cosí magnifica che non ne esiste una simile in tutto il mondo. Vicino alla porta c’erano due colonne. Sull’una era posta una statua sorridente con l’iscrizione Congratulator (Mi congratulo). Sull’altra una statua la cui figura triste nascondeva il viso; sotto di essa era scritto Condoleo (Compatisco). Insomma, scritte ed immagini erano cosi oscure e misteriose che l’uomo più abile sulla Terra non avrebbe potuto decifrarle. Se Dio lo permette, tutte quante saranno, però, portate alla luce del giorno e svelate.
Passando sotto questa porta, dovetti ancora una volta dare il mio nome, che venne scritto per ultimo in un libro di pergamena e subito mandato con altri al grande sposo. Lí mi fu data per la prima volta la vera insegna dell’invitato, che era un po’ più piccola delle altre ma molto piú pesante, e su di essa erano le tre lettere S.P.N. (Salus per naturam; Sponsi praesentandus nuptiis (Salute per mezzo della natura – Da presentare alle nozze dello Sposo). Mi fu dato inoltre un nuovo paio di scarpe, perché il pavimento del castello era fatto tutto di marmo brillante. Dovetti dare quelle vecchie ad un povero scelto da me, tra i molti che erano seduti in buon ordine sotto la porta. Le regalai ad un vecchio; poi un paggio seguito da altri due che portavano torce, mi accompagnò in una piccola stanza. Lí mi dissero di sedermi su un banco, cosa che feci. Loro però piantarono le loro torce in due fori nel pavimento e se ne andarono, lasciandomi seduto lí da solo.
Subito dopo, sentii un rumore ma non vidi niente, e poi fui preso da parecchi uomini; siccome io non vedevo nulla, dovetti lasciar fare ed aspettare quello che mi sarebbe successo. Mi accorsi ben presto che erano barbieri e perciò li pregai di non tenermi cosí strettamente perché ero comunque disposto a fare quello che mi avessero chiesto. Cosí mi lasciarono subito libero ed uno, che però non vedevo, mi tagliò in modo fine e ben pulito i capelli della testa, lasciando stare tuttavia i lunghi capelli grigi sulla fronte e sulle tempie.
Devo ammettere che, in un primo momento, ero veramente disperato, perché alcuni di loro mi afferravano con tanta forza, ed io non vedevo niente, cosí che non potevo far a meno di pensare che Dio mi aveva abbandonato a causa della mia troppa curiosità. Infine, questi barbieri invisibili raccolsero diligentemente i capelli tagliati e li portarono via. I due paggi delle torce si presentarono di nuovo e risero di cuore perché io avevo avuto tanta paura. Stavano conversando un po’ con me, quando si cominciò di nuovo a suonare una piccola campanella per dare il segno (cosí mi dicevano i paggi) di radunarsi. Perciò mi dissero di seguirli, e mi illuminarono la via attraverso molti corridoi, porte e stanze in una vasta sala.
In questa sala c’era un gran numero di invitati, di imperatori, re, principi e signori, nobili e non nobili, ricchi e poveri e plebaglia di tutti tipi che mi meravigliavano molto, e pensavo: “Che grande idiota sei stato, ad aver intrapreso un viaggio cosí duro e difficile. Guarda! Lí c’è gente che tu conosci e che magari hai stimato poco. Quelli sono tutti qui adesso e tu, con tutto il tuo pregare e supplicare, sei arrivato per ultimo e con gran fatica”. Questi ed altri pensieri mi furono ispirati dal diavolo, malgrado tutti i miei sforzi per respingerli.
Nel frattempo mi parlavano prima uno, poi l’altro di quelli conosciuti da me: “Guarda, fratello Rosenkreuz, sei qui anche tu?”. “Sì, fratello,” rispondevo. “La grazia di Dio ha aiutato anche me ad entrare”, alla quale risposta ridevano molto, in quanto consideravano cosa ridicola aver bisogno di Dio per una impresa così da poco. Mentre chiedevo a tutti informazioni sulla strada che avevano percorsa (parecchi avevano dovuto scalare la montagna), s’incominciarono a suonare forte le trombe, che però non vedevamo, per chiamarci a tavola; molti allora si sedettero a seconda della posizione che sembrava a loro adatta: perciò c’era rimasto appena posto per me ed altra povera gente alla tavola piú bassa. Ben presto arrivarono i due paggi ed uno di loro disse una preghiera tanto bella e splendida che il mio cuore si rallegrò. Parecchi spacconi, tuttavia, non badavano a questa ma ridevano fra di loro, si facevano segni, fingevano di mangiarsi i capelli e facevano altri scherzi di questo genere.
Dopo di che venne portato da mangiare, e benché non si vedesse nessuno, tutto era fatto con un tale ordine che mi sembrava che ogni invitato avesse il suo proprio servitore. Quando poi gli ospiti si furono rilassati un po’ e il vino ebbe tolto parte del ritegno dai loro cuorì, si vantarono tutti, facendo sfoggio dei loro poteri. Uno voleva tentare questa cosa, l’altro quell’altra e gli idioti piú grandi facevano il fracasso maggiore. Quando penso alle cose innaturali ed impossibili che li ho sentiti voler fare, provo ancora oggi indignazione. Per finire si cambiarono di posto, ma gli adulatori s’infilavano tra i signori e si vantavano di imprese che né Sansone né Ercole con tutta la loro forza avrebbero potuto fare. Uno voleva liberare Atlante del suo peso, l’altro voleva tirar fuori di nuovo dall’inferno Cerbero, dalle tre teste. Insomma, ognuno aveva il suo vanto, e i grandi Signori erano cosí stupidi da prestar loro fede. I malvagi cosí audaci che, benché qualcuno ricevesse ogni tanto un colpo di coltello sulle dita, non ci badavano. Quando uno diceva di essersi impadronito di una catena d’oro, tutti gli altri andavano avanti in questo senso, in concorso uno con l’altro. Ho visto uno pretendere di sentire il suono dei cieli. Un altro poteva vedere le idee di Platone. Un terzo voleva contare gli atomi di Democrito. C’erano anche non pochi che avrebbero scoperto il perpetuum mobile.
A mio parere, parecchi avevano una buona intelligenza, solo che, sfortunatamente per loro, essi stessi ne avevano un’opinione troppo buona. Finalmente c’era anche uno che voleva convincerci che vedeva i servitori che servivano a tavola, e sarebbe andato avanti per un po’ di tempo, se uno dei servitori invisibili non gli avesse dato un colpo sul suo muso da mentitore, di modo che non solo lui, ma anche molti che erano vicino a lui diventarono silenziosi come le mummie. Mi fece molto piacere, però, vedere che quelli che stimavo di piú si comportavano ben tranquillamente e non alzavano la voce, ma riconoscevano di essere degli ignoranti, per i quali i segreti della Natura erano troppo elevati, come loro erano troppo inadeguati. In mezzo a questo tumulto mi sarei quasi pentito del giorno del mio arrivo lí: perché mi faceva male vedere che c’era gente disonesta e frivola alla tavola piú alta, mentre io non potevo rimanere in pace anche in un posto cosí basso, perché uno di quegli scellerati mi scherniva come pazzo completo. Io non pensavo che ci sarebbe stata un’altra porta da passare, ma immaginavo che avrei dovuto passare tutte le nozze deriso e disprezzato, cosa che non avevo meritato né dallo sposo né dalla sposa, e stimavo dunque che essi avrebbero dovuto perciò trovare un altro che facesse da buffone per le loro nozze. Guardate come la diseguaglianza di questo mondo induce le anime semplici ad una mancanza di rassegnazione; ma questa era una parte della mia infermità, della quale avevo sognato, come dicevo prima. E il tumulto aumentava sempre di piú, a causa di quelli che si vantavano di storie false e inventate e volevano far credere a dei sogni evidentemente non veri. C’era, però, un uomo di buone maniere e tranquillo seduto accanto a me che parlava ogni tanto di cose belle ed interessanti. Finalmente disse: “Guarda, fratello, se arrivasse uno per mettere questa gente impenitente sulla strada giusta, verrebbe ascoltato?”. “No di certo,” risposi. “Così”, disse lui, “il mondo vuole essere forzato ad illudersi e non vuole ascoltare quelli che gli vogliono bene. Vedi con quali immagini pazze e pensieri stupidi egli tira la gente a sé. Lí uno sbeffeggia la gente con parole occulte mai sentite. Ma, credimi, verrà il tempo in cui le maschere saranno tolte dal viso di questi truffatori per mostrare a tutto il mondo che genere di ingannatori nascondevano. Allora saranno ancora una volta rispettate quelle cose che sono disprezzate da tanto tempo.”
Mentre parlava cosí, e il rumore, perdurando, diventava sempre peggiore, si levò inattesa nella sala una musica cosí dolce e solenne che non ho mai sentito qualcosa di simile durante tutta la mia vita; ad essa, tutti tacquero per aspettare cosa ne sarebbe seguito. Questa musica era fatta da tutti i tipi di strumenti a corda che si possono immaginare, accordati con tanta armonia, che mi dimenticai di me stesso e rimasi seduto lí senza alcun movimento, di modo che quelli seduti vicino a me si meravigliavano. Questo durò quasi mezz’ora, durante la quale nessuno di noi disse una sola parola, perché, appena uno voleva aprire la bocca, riceveva un colpo inaspettato su di essa, senza sapere da dove veniva. Pensavo che, siccome non potevamo vedere i musicisti, avrei voluto vedere almeno gli strumenti che usavano. Dopo una mezz’ora la musica smise all’improvviso e non vedemmo né sentimmo niente altro.
Subito dopo si levò un grande fragore e suono di tromboni, e un rullío di tamburi di guerra davanti alla porta della sala, il tutto cosí maestoso che sembrava che stesse per entrare un imperatore romano. Poi la porta si aprí da sola, di modo che le trombe diventarono cosí forti che quasi non potevamo sopportarne piú il suono. Nel frattempo entravano nella sala migliaia di luci che, da sole, si tenevano nel giusto ordine, di modo che noi ci spaventammo molto, finché i due paggi già menzionati prima entrarono nella sala portando delle torce brillanti ed illuminando la strada ad una Vergine bellissima seduta su di uno splendido trono d’oro che si muoveva da solo; mi sembrava che fosse la stessa che prima aveva acceso e spento le luci sulla strada, e che fossero proprio esse i suoi servitori: le medesime luci che aveva posto prima negli alberi. Lei non era piú vestita di azzurro ma aveva un abito splendente in bianco puro, che brillava di oro ed era cosí luminoso che non potevamo guardarla con insistenza. I due paggi erano vestiti nello stesso modo, ma un po’ meno splendidamente. Quando fu arrivata in mezzo alla sala e scese dal trono, tutte le luci s’inchinarono davanti a lei. Noi ci alzammo tutti dai nostri banchi, ma rimanemmo ognuno al proprio posto.
Dopo che lei ci ebbe salutati onorevolmente, e ci ebbe dimostrato ogni riverenza e onore, e anche noi a lei, incominciò a parlare con voce dolcissima:
“Il Re, il mio grazioso Signore,
Che adesso non è molto lontano,
Come anche la sua carissima sposa,
Affidata a lui in onore,
Hanno già visto con grande gioia,
Il vostro arrivo.
Onorano del loro favore ognuno di voi,
E dal fondo del cuore ad ogni istante,
Vi augurano che abbiate successo,
Di modo che alla gioia delle loro prossime nozze,
Non venga mischiata la sofferenza di nessuno.”
Poi s’inchinò con cortesia, e insieme a lei tutte le sue luci, e subito dopo cominciò come segue:
“Sapete che nella lettera d’invito,
Non fu chiamato qui nessuno,
Che non abbia ricevuto i doni piú belli
Da Dio tempo addietro,
E che non sia preparato con rigore,
Come occorre in tali cose;
Perciò non credo
Che nessuno sia stato cosí audace,
Sotto tali condizioni difficili,
Da presentarsi qui
Senza essersi preparato da molto tempo
Per le nozze.
Perciò essi hanno buone speranze
Che vada tutto bene per voi,
E sono felici di trovare tanta gente,
In tempi cosí difficili.
Ma gli uomini sono cosí audaci
Che la loro grossolanità non li ferma,
E si spingono avanti
In posti dove non furono chiamati.
Dunque, perché i furbi
Non possano truffare,
E nessun indegno s’intrufioli fra gli altri;
E perché loro possano celebrare presto delle nozze pure
Senza dover nascondere nulla,
Domani sarà montata
La Bilancia degli Artisti
Per pesare accuratamente
Quello che ognuno ha dimenticato a casa:
Se si trova qualcuno in questa folla,
Che non abbia completa fiducia in sé,
Egli deve mettersi da parte in fretta,
Perché se accade che rimanga qui,
Non riceverà più grazia,
E domani sarà punito.
Quelli che vogliono sondare la loro coscienza,
Dovranno restare qui, oggi, in questa sala,
E fino a domani saranno liberi,
Ma che non tornino piú qui!
Se qualcuno è sicuro del suo passato,
Che vada col suo servitore,
Che gli mostrerà la sua camera;
Lí potrà riposarsi bene oggi,
Aspettando la gloria della Bilancia:
Altrimenti avrà un sonno molto difficile;
Gli altri staranno meglio qui.
Perché colui che pretende troppo,
Farebbe meglio a fuggir via.
Si spera che ognuno agisca per il meglio.”
Appena finito di dire queste parole, s’inchinò ancora una volta, e salì con gioia sul suo seggio: poi cominciarono a suonare ancora una volta le trombe, che però non potevano fermare i sospiri pesanti di molti di noi: infine i suonatori invisibili la condussero fuori, mentre la maggior parte delle luci rimanevano nella sala, ognuna legandosi ad uno di noi. In un tale perturbamento non è possibile esprimere quali pensieri deprimenti e quali gesti di disperazione furono scambiati. La maggior parte era sempre decisa a tentare la Bilancia e, se non fossero stati all’altezza, ad andarsene in pace (cosí speravano). Avevo riflettuto in fretta, e siccome la mia coscienza mi aveva convinto della mia mancanza di comprensione e della mia indegnità, decisi di rimanere nella sala con altri e di contentarmi del posto che avevo ricevuto piuttosto che proseguire con pericolo. Dopo che gli altri se ne furono andati un po’ per volta alle loro camere (ognuno nella sua, come ho saputo dopo), guidato ciascuno dalla propria luce, rimanemmo in nove, compreso quello che aveva parlato con me a tavola; ma le nostre luci non ci abbandonarono.
Dopo un’oretta, uno dei paggi venne portando un rotolo di corda, e ci chiese in tono solenne se eravamo decisi a restare lí; quando demmo la conferma, sospirando, egli ci legò, ognuno in un posto speciale, e sparí con le nostre luci, lasciando noi poveretti nel buio. Allora cominciarono a scorrere le lacrime a molti, ed anche io non potei trattenere le mie. Benché non fosse vietato parlare, l’angoscia e la miseria facevano tacere tutti. La corda era fatta in modo particolare, sicché nessuno poteva romperla né toglierla dai piedi. Mi consolava però sempre il pensiero che molti di coloro che erano andati a dormire avrebbero poi subìto una grande vergogna, mentre noi potevamo espiare la nostra audacia in una sola notte. Finalmente mi addormentai con i miei pensieri tormentosi: benché la maggior parte del nostro gruppo non chiudesse gli occhi, io ero cosí stanco che non potei fare altrimenti.
Nel mio sonno ebbi un sogno che forse non ha molto significato, ma che ritengo comunque utile raccontare. Mi parve di essere su un’alta montagna con una grande vallata larga davanti a me. In questa vallata c’era una grande folla di persone, ognuna delle quali aveva un filo attaccato alla testa, col quale era appesa al cielo. Alcuni erano appesi in alto, altri in basso e parecchi stavano quasi sulla terra. Ma c’era un vecchio che volava nell’aria portando a mano una forbice, con la quale tagliava ognì tanto il filo a qualcuno. Quelli che erano vicini al suolo erano piú rapidamente a posto e cadevano senza rumore, ma quando toccava ad uno in alto, cadeva in modo da far tremare la terra. Alcuni avevano la fortuna di sentir scendere al suolo il loro filo, in modo che erano già sulla terra prima che questo fosse tagliato. Un simile capitombolare mi divertiva molto, e mi piaceva fino in fondo al cuore quando uno che si era alzato al di sopra delle sue capacità cadeva giú con tanta vergogna, e magari trascinava con sé alcuni di coloro che erano vicini. Ero anche felice quando uno che era sempre rimasto vicino a terra poteva venir giú cosí tranquillamente e dignitosamente che neanche i suoi vicini se ne accorgevano.
Al colmo della mia felicità venni per caso spinto da uno dei miei compagni di prigionia, in modo che mi svegliai e mi irritai con lui. Poi ricordai il mio sogno, e lo raccontai al mio fratello che era steso accanto a me dall’altro lato. Gli piacque, e sperò che fosse il presagio di un aiuto. Passammo il resto della notte in questa conversazione ed aspettammo il giorno con grande desiderio.