SECONDA TORNATA NAZIONALE DEI MAESTRI SEGRETI (15 Ottobre 2011-Roma Hilton)
David Cerniglia 33°
Il R.S.A.A.
tra decostruzione e ricostruzione
Cavalieri di tutte le Valli, per volontà del Supremo Consiglio, oggi ci
riuniamo spinti da un “sentimento d’incompiutezza”. Alludo a un assioma che
fonda un teorema e rende coerente la logica della nostra azione: “Un gruppo si
costituisce in rapporto a quello di cui manca e tre gradi non bastano”. Ci
riuniamo inoltre con la consapevolezza che, se l’appartenenza deve essere
continuamente rinnovata e testimoniata da una condotta quotidiana, la capacità
d’agire aumenta solo diminuendo le illusioni di potenza e, secondo un’ipotesi
freudiana, esorcizzando l’autoinganno. Questa consapevolezza e il “sentimento
d’incompiutezza” sono moti dello spirito non offensivi, ma neppure rassegnati,
che ambiscono a ridurre l’attuale confusione babelica. Mentre ognuno innalza la
sua torre, le odierne scene del patrio-centrismo e degli eroi ufficiali velano
sovente divisioni per clan e velleità dinastiche, fenomeni di corte e paranoia
di difesa, deliri d’interpretazione e processi per eresia. Carissimi Fratelli
siamo dunque convocati in veste rituale, dentro un sistema di natura simbolica,
per la ripetizione di azioni creative finalizzate a migliorare il nostro
sistema immunitario globale, per il piacere di rincontrarci, per rivedere e, se
necessario, aggiornare quella grammatica della nostra Istituzione che ruota
intorno a un nucleo logico stabile. Questo nucleo, sotto l’influenza di forme simboliche
fluttuanti e forme fisse d’organizzazione, media il lavoro di unificazione
dall’“io” al “noi”, non tanto intorno allo spirito santo degli archetipi
inaugurali, ma intorno all’intuizione scozzese della “piramide”. Dalla cima di
una “piramide” si guarda da un po’ più in alto e più lontano e il suo vertice
assicura la direzione dei raggi d’adesione da una base solida. Se,
nell’iscrizione in un cerchio, una citazione di copertura di parole ben
piazzate ambisce a legittimare enunciati talvolta fuori luogo, l’intelligenza
della “piramide” relativizza abitualmente gli enunciati. La verità degli
enunciati, i quali esistono in virtù dei vocabolari, non può essere che
relativa e contingente. Lungo la diagonale della “piramide scozzese”, il
pensiero studia le vie e i mezzi dell’efficacia simbolica che trasformano
un’idea in carne attraverso strumenti e organizzazioni materiali, pensa
relazioni e opera connessioni per sviluppare la complessa ricchezza degli spazi
interstiziali. E quando pensa le coppie di opposti vero-falso, giusto-ingiusto,
luce-ombra, sosta sulle lineette di congiunzione. Lungo la diagonale della
piramide si configura, pertanto, non una filosofia dei dogmi, ma dei paradigmi.
Un pensiero critico che, decostruendo gli opposti, indica nella rinuncia
all’utopia il colmo dell’utopia, trova nell’ibridazione il privilegio
dell’extraterritorialità, cerca nella separazione extraterritoriale
l’universale e nella capacità inaugurale propria dell’uomo la promessa di
un’esperienza da inventarsi.
In verità noi pensiamo che le Istituzioni, nessuna esclusa, abbiano una
struttura logica che è opportuno analizzare.
L’istituzione è un sistema di regole costitutive, espresse da atti linguistici
collettivamente accettati, che implicano convenzioni e imprimono funzioni. In
altri termini, i poteri semantici del linguaggio creano poteri non semantici:
poteri deontici positivi che hanno a che fare con diritti e poteri deontici
negativi che hanno a che fare con i doveri. Una volta collettivamente
accettati, poco importa se con entusiasmo o con riluttanza, questi poteri
deontici forniscono all’azione ragioni indipendenti da inclinazioni e desideri.
La realtà istituzionale è dunque creata e tenuta insieme da atti linguistici
aventi la forma delle dichiarazioni e di sistemi di rappresentazione simbolica
che arrivano a prevedere come vestirsi in talune circostanze. Tuttavia, questi
atti linguistici sono diversi da cultura a cultura e, poiché il loro fondamento
ultimo non è fondato, essi sono interpretabili e trasformabili. Preso tra la
critica delle Istituzioni e il sogno di un’altra Istituzione che possa
sostituire Istituzioni oppressive e inoperanti, il diritto è da sempre in corso
di decostruzione. Noi pensiamo che questa possibilità di decostruzione non sia
di per sé una sciagura: in essa si può trovare la possibilità di un progresso
storico o della giustizia. L’Istituzione, la sola forma d’eternità concessa ai
mortali, consente resistenza e durata, purché abbia la capacità di essere
rinnovata dall’azione delle generazioni a venire. In questo consiste il cuore
dell’autorità, la cui energia perdurante “aumenta” le azioni dei viventi.
L’autorità non si confonde con il potere! Il potere è la capacità di far sì che
qualcuno faccia qualcosa indipendentemente dal fatto che lo voglia o no.
L’autorità è la capacità di far sì che le persone vogliano fare qualcosa che
altrimenti non avrebbero voluto fare. Il potere comunica e conferisce alla
potestà la cura di sostituire gli antenati. L’autorità trasmette e costruisce
una tradizione e un’appartenenza. Allorché il potere è legato alla divisione
dello spazio politico e gioca nella comunicazione con l’immagine e l’emozione,
l’autorità si dispiega nel tempo e, con la trasmissione di abilità
intellettuali complesse, assicura la capacità di continuare a cominciare.
Autorità, conformemente all’etimo, significa aumentare: essa deve la sua
capacità di egemonia non alla forza ma alla sua iscrizione in un ordine
simbolico che attraversa il tempo e mira alla durata attraverso un esercizio
ermeneutico costantemente rinegoziato per offrire gli uomini, che vivono
insieme, un polo d’identificazione e il punto omega di una realizzazione. Se
per noi Scozzesi l’autorità è ancora portatrice di senso, non è per il ricordo
di un passato inaugurale in parte perduto, nella promessa di resuscitare i
morti; né per invocare un avvenire totalmente e fantasticamente governato. E’,
invece, per la possibilità di dare a chi verrà dopo di noi la capacità di
continuare a intercedere tra la traccia e l’oggetto, tra i valori e i vettori:
intercedere tra i valori trascendenti, i grandi principi e il quotidiano, per
intraprendere qualcosa di nuovo e d’imprevisto. Come ci ricorda la nostra
Rivista “Informazione Scozzese”, la parola “RITO” sottende un acronimo:
Ricordare, Innovare, Trasmettere, Organizzare.
Alla fine del secolo scorso, un nichilista ipocondriaco, autore di successo,
con arguta ironia decostruttiva così scriveva: ”Siamo arrivati a un bivio
decisivo. Una strada ci porta all’estinzione, l’altra alla disperazione. Spero
che saremo capaci di fare la scelta giusta”. Oggi, all’inizio del nuovo
millennio, la strada, che noi Cavalieri Scozzesi stiamo seguendo, evita quel
bivio e, nel relazionarsi con il mondo, cerca una terza via: un altro modo,
assolutamente universale e a ogni volta aggiornato, per decostruire gli opposti
e affrontare i vari integralismi. Nella consapevolezza che la decostruzione
senza ricostruzione è irresponsabile, la decostruzione acquista un ruolo
emancipatore indistinguibile da quella della laicità: ove per laicità s’intenda
non un programma di secolarizzazione classica, ma uno sforzo mai interrotto di
smantellamento dei modelli teocratici di autorità istituzionale. In questa
ricerca occorre una mente ironica, mobile e retroattiva, capace di dislocarsi tra
stili di pensiero e tra diversi approcci del reale, e capace di spiazzare se
stessa nel seguire l’ottica della differenza.
Così ci piace immaginare che un archeologo del 30° secolo, avendo scoperto che
nell’anno duemila le commemorazioni mediatiche venivano usurpate e dilapidate
da eredi degeneri e fittizi, trovi vuoto il catasto delle nostre immagini
votive. Perché, per gli Scozzesi, chi sfugge alle relazioni vischiose è degno
di fede più dei parolai del dubbio radicale, che dicono di pensare e non fanno
che dire. Quell’archeologo troverebbe, invece, un libro laico di trentatré
capitoli, scritto in decine e decine di lingue, a latitudini e in tempi storici
diversi.
Una sorta di manuale libertario atto a ricordare la storia della condizione
umana che gli uomini raccontano instancabilmente agli uomini, al di sopra delle
grandi teleologie concettuali: un labirinto di tracce, d’impronte fossili
lasciate sulla sabbia simbolica dalle differenti culture umane.
Un inventario di eventi e di discorsi, altrimenti perduti, che nessuna
ermeneutica sarà mai in grado di ricostruire integralmente e pienamente
controllare. I testi canonici, gli oggetti più comuni, le immagini più
disparate, divengono l’occasione di una “epistemologia dell’esempio”, di una
vera e propria archeologia filosofica che, nel corso del tempo, risale dal
sogno di un contatto con l’eternità al sogno di una società perfetta, liberata
dalla tirannide: l’universo d’idee pure e illuminate, quale veicolo principale
del progresso.
In quest’acrobatico sforzo, più o meno assiduo e ricco d’inventiva, il progetto
dell’Illuminismo ci appare oggi incompiuto: forse non completabile. Due secoli
più tardi, il mondo che abitiamo è tutt’altro che trasparente e prevedibile: ma
pesante, impermeabile e resistente ai tentativi di renderlo più ospitale per la
coesistenza umana. Alcuni paradossi sono evidenti. Se nella nostra società
individualizzata abbiamo raggiunto una libertà di autoaffermazione virtualmente
illimitata, maggiore è la nostra libertà individuale, minore è la sua rilevanza
nel mondo. In altri termini: più il mondo diventa tollerante riguardo alle
nostre scelte, meno la partita dipende dalle nostre preferenze. Altro
paradosso: più la libertà progredisce, più aumenta la sensazione d’insicurezza
e nel momento in cui la sicurezza migliora essa limita la libertà. In altri
termini: i due valori di libertà e di sicurezza, ugualmente indispensabili,
appaiono difficili da conciliare. Altro paradosso lacerante: la triplice
alleanza tra libertà, uguaglianza e fraternità, decretata dalla modernità in
conformità a una ragione universale, fu contrastata dalla trinità secolarizzata
di “stato, nazione e territorio”. Ciò produsse un tribalismo che prevaricò e
alienò le culture dissimili e trasformò la società in una scacchiera disgregata
e distruttiva. Mentre i solenni consessi della coscienza universale abbozzavano
disegni per realizzare i tre valori insieme, di fatto, il sogno di libertà
militava contro l’uguaglianza, l’uguaglianza contro la libertà. E, poiché i due
valori non riuscivano a coesistere, l’idea di fraternità appariva confusa e di
dubbia efficacia. Le cose non sono andate meglio negli ultimi trent’anni,
quando alle tribù post-moderne, “globalizzate”, instabili e volubili, la
chiacchiera ha proposto una nuova triade quale vettore principale del
progresso: “Libertà, diversità, tolleranza”. La libertà, certa quella
“immacolata” del mercato, individualmente si riduce a quella del consumatore:
un consumatore, ora adeguato e sedotto, ora difettoso e represso, proteso da “
turista” in una vita che è tutta movimento, legami superficiali e assenza di
solidità. In questa prospettiva la diversità diventa solo varietà di stili
commerciabili. E la tolleranza, già esaltata come panacea universale, non
significa altro che lasciare l’altro per conto suo. La tolleranza segna una
distanza: ora un’indifferenza che torna a frammentare invece di unire, ora un
armistizio. Il rinvio a una resa dei conti finale! In tal modo, la
post-modernità sottopone la convivenza tra gli uomini a un continuo
sperimentare che non risponde ad alcun meccanismo di coordinamento, se non
quelli fissati dall’economia globale di mercato, che vanno ben oltre ogni
tentativo di controllo dal basso. Ricomporre le fratture create dalla
globalizzazione e dalla “nuova modernità liquida”, si configura come un’urgenza
che i “turisti” non possono fronteggiare. Ancor prima che d’avanzare risposte
ed ergersi ad arbitri della verità, si tratta di formulare domande.
E porre gli interrogativi che il potere e il senso comune tendono a negare o a
eludere, richiede una vocazione adeguata e una tradizione che sono proprie del
nostro pensiero. Il pensiero “scozzese” che, in uno sforzo di descrizione e di
conciliazione di un universo problematico e mutevole, ha inaugurato trentatré
vocabolari “edificanti” nel doppio senso architettonico e morale, edificanti ma
non definitivi, prende oggi in prestito dal pragmatismo una nuova triade, tre
parole utili per affermare un nuovo paradigma formativo: “Contingenza, ironia e
solidarietà”. Vivere nella contingenza significa vivere con una certezza
pragmatica, valida fino a contrario avviso. E l’ironia consiste nel
riconoscimento della contingenza del proprio vocabolario finale.
Dai tempi di Socrate l’ironia è la struttura cognitiva in grado di generare un
distacco dalla realtà secondo una visione critica: essa non conferisce nessun
potere, ma ha una straordinaria forza formativa e favorisce la coesistenza e il
passaggio dalla tolleranza alla solidarietà. Come abbiamo già detto, è nostro
ragionevole convincimento che la tolleranza, virtù privata centrata su di sé,
da sola non basti come condizione di pluralismo.
Per contro la solidarietà dei Cavalieri, orientata verso la comunità e
militante, significa impegno a battersi nell’interesse della differenza altrui
e non solo della propria. Una vita temprata dalla consapevolezza ironica della
contingenza e dalla solidarietà, fa dell’ibridazione il suo inevitabile destino
e opera costantemente per fecondare il reale e aprire alla possibilità. Carissimi
Fratelli, nell’attuale crisi sempre più complessa, impastata di lagrime e di
fango, gli uomini chiedono in modo sempre più pressante cos’è la vita buona e
cosciente. Chi di voi, Cavalieri, crede di conoscere la risposta o, meglio, con
mente ironica vuole rispondere con un’altra domanda, deve d’ora in poi farsi
avanti e parlare: per il bene dell’Umanità e per il bene del R.S.A.A.
Con questa raccomandazione, auguro buon lavoro a tutti.