SE FOSSI…
DIVAGAZIONI INUTILI
Ho immaginato, così per non saper che fare, di ritornar bambina oggi. La radio, allora, la facevo io.
Proprio.
Ci recitavo il pomeriggio dentro microfoni tondi, grossi e con i raggi. Sembravano tanti bellissimi soli.
I miei a casa mi stavano a sentire e così i parenti, gli amici e le compagne di scuola. La maestra faceva finta di ignorare.
La vita era semplice.
Persino nel mangiare. La merenda era pane e marmellata oppure pane, burro e zucchero.
Solo la domenica mattina papà, che mi portava a spasso, mi offriva una brioche tonda, lucida e con in cima un ciuffo di crema gialla. I grissini erano tanto buoni, croccanti fuori e a cura di Arnaldo Francia
morbidi dentro, da essere preferiti ai biscotti.
Si camminava molto.
Il giro della collina era normale.
Prati verdissimi, qualche villa isolata, cancelli di ferro che davano adito a viali misteriosi che pareva non avessero fine.
Io credevo nelle fate e negli gnomi.
Così come credevo che mio nonno ogni mattina a colazione ingoiasse un orologio d’oro, ma senza la catena. Me lo aveva detto lui e, davanti alla tazza di caffè bollente, faceva tutti i giorni una complicatissima mimica, tanto ben condotta che solo da grande mi resi conto della mia assoluta fiducia nei “grandi”.
Loro parlavano e mi spiegavano e qualche volta mi prendevano in giro ed io credevo, credevo.
Se fossi bambina oggi passerei la maggior parte del tempo davanti alla TV, avrei una idea del mondo dei grandi non certo basata sulla fiducia, ma sullo sgomento e la paura.
Pretenderei cartelle e scarpe firmate, confronterei l’auto di mio padre con quella dei genitori delle mie compagne, sarei condotta da una scuola di danza ad una lezione di inglese, per poi correre in piscina ed a lezione di tennis. Sarei una bambina stanchissima, elegantissima e scattante.
Ma sarei così felice e con la testa piena di favole?
Avrei la possibilità di star sola interi pomeriggi a raccontarmi storie, animando gli oggetti della mia camera inventando dialoghi tra la sedia ed il quadro?
Se fossi piccola oggi già mi avrebbero detto della droga e delle sue conseguenze. mettendo nella mia testa non preparata, le idee della morte, della paura, della diffidenza, del decadimento fisico ed intellettuale. Tutti concetti non adatti alla mente di un bambino.
I discorsi.
A parte quelli politici che non capivo tanto ma che avevano un ritornello . . . “Quel. ci rovinerà completamente, prima o poi!” erano soprattutto sui libri letti, sui quadri dipinti da zio Francesco, sulla preferenza di mamma per la Tempesta e di papà per Amleto.
Nonno scovava libri strani, poeti minori, ci leggeva, ancora in bozze, gli scritti del suo amico Bontempelli ed i suoi, magari con il parere di Gargiulo o Manara Valgimigli.
Non dico che mi divertissi sempre.
Però il fatto che i libri facevano parte della vita e che ad essi si dedicasse la maggior parte del tempo possibile, che se ne parlasse e che da essi si traesse una specie di magica possibilità di moltiplicare i pensieri all ‘infinito, mi piaceva e nutrivo un amore geloso per i MIEI.
Pochi, con le figure, ma assolutamente di mia proprietà.
Se li volevano dovevano chiedermeli in prestito.
Anche papà e mamma che furono sempre rispettosissimi del mio privato.
Il tempo.
Se fossi bambina oggi avrei un paio di orologi digitali, grossi quasi quanto il mio avambraccio e con le sfere ed i numeri a forma di puffi.
Ne sarei vittima.
Alle quattro dobbiamo andare dalla nonna. Mezz’ora. Poi a lezione di inglese. Ti lascio e ti vengo a prendere. Andiamo dal dentista. Invece allora (i dentisti c’erano e mi mettevano le macchinette) il tempo era: la mattina ed il pomeriggio.
La sera per i bambini non esisteva.
La cena e a letto. Nonostante le proteste ed i capricci.
Io non avevo assolutamente il senso del tempo. Del passare dell’ore.
Se mi divertivo mi dimenticavo di tornare a casa.
Andavo a giocare dalle amiche. Era già buio da un pezzo ed io ancora stavo là, mentre la mamma non mia poggiava rumorosamente i piatti sul tavolo e diceva: “Si è fatto tardi!’
La mia, di mamma, diceva: “Torna presto!” senza stabilire un’ora. Lo faceva per abituarmi ad una specie di disciplina.
Con scarsi risultati.
Quando già avevo mangiato una mezza cena dall’amica, suonava il telefono e la voce di mio padre, che mi veniva passato, tuonava: ‘Possibile? Non impari mai! Adesso devo venirti a prendere!”
Prediche, rabbuffi, “autodisciplina” “senso della responsabilità”. Paroloni pesanti che mi calavano addosso come una doccia gelata. Mi sentivo molto, molto cattiva.
Se fossi una bambina oggi mi sentirei colpevole ed irriconoscente? Non mi risulta di avere avuto un peso determinante nella mia famiglia, nel senso, dico, che la vita degli altri ruotasse intorno alla mia. Ognuno aveva un suo ruolo e lo svolgeva nel modo migliore.
Le cose.
Mica ne avevo tante e tutte erano desiderate. Bisognava essere bravi, ubbidienti, rispettosi e allora si aveva una cosa, magari necessaria.
Se fossi bambina oggi chissà quante pretese. Così che il concetto del merito proprio non saprei dove andarlo a cercare. In compenso considererei tutto come dovuto.
Dagli altri, naturalmente.
Il genitore come dispensatore di cose, senza possibilità di rifiuto. Altrimenti il ricatto della nevrosi e. più tardi, della droga.
No. Non potrei oggi sentirmi cattiva o ingrata. Quindi non potrei nemmeno aver voglia di migliorare.
Il miglioramento.
Era una delle lezioni di Nonno P. Non diretta. Favole, storie di “gente vera’ che invece era inventata di sana pianta ma che rendeva l’insegnamento più concreto.
Nonno P. era mio amico. Estroso, strano, generoso, intelligentissimo con quel dono grande della chiarezza e dell’humour.
Oggi avrei un nonno così?
Oppure mi troverei accanto un signore velleitario, vestito casual, dedito a dimostrare a se stesso e agli altri di non essere vecchio? Che dico? Anziano. Come se vecchio fosse una parolaccia.
Un uomo con la vacuità del pensionamento,
l’angoscia mal celata dei primi acciacchi non accettati ma respinti come una verità ripugnante. Com’era bello il mio, un po’ gottoso, che doveva fermarsi ogni tanto per la strada a poggiare la gamba, sollevandola, al muro e che al bar diceva al cameriere: “Porti un raggio di sole in una tazza d’argento e con una perla sopra, per la mia nipotina” fugando la perplessità del poverino con una abbondante mancia riparatrice ed una complice strizzatina d’occhi.
Nonno P. mi diede una regoletta di vita semplicissima.
“Non tare mai nulla che non avresti il coraggio di confessare a tua madre e di veder pubblicato sul giornale”
Una norma che deve, per funzionare, fare riferimento ad un tipo di famiglia e di società che forse non esiste più.
Soltanto in un nucleo dove ogni singolo ha un ruolo determinato e delle precise responsabilità, dove il comportamento quotidiano e privato sostituisce la parola (le “urla” della classica madre italica che minaccia continuamente ma non agisce se non nei momenti sbagliati), dove una sorta di timore reverenziale impronta l’atteggiamento dei figli, è possibile applicare la regoletta di mio nonno. Quanto ai giornali.
beh! Lasciamo perdere!
Tutto sommato è meglio che oggi io sia grande.
Un po’ vecchiotta anche, visto che sono in pieno nella fase delle rimembranze.
Oh! Dimenticavo.
Nonno P. era massone.
- Menzio